C’è un’aporia di fondo, una contraddizione a prima vista irresolubile. La cura, nella sua accezione solidaristica (prendersi cura, oltre che di sé, degli altri), può delineare, addita una prospettiva nuova, una via d’uscita. Ma, nelle parole di Maurice Blanchot, «il disastro si prende cura di tutto» (La cultura del disastro). Innegabile. Abitiamo in uno scenario di disastro generalizzato. Alla pandemia, con il contorno asfissiante di tutta una retorica esaltata a base di guerra e nemici da debellare, è seguita la guerra vera e propria, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin.
La metafora baldanzosamente, virilmente dilagata sui media, la cui fantasia è davvero indigente, è uscita dal recinto linguistico e ha assunto corpo e sostanza. La minaccia alla vita portata per oltre due anni dal virus si è riproposta nella sua forma estrema, tra deflagrazioni di missili, città bombardate, civili in fuga quando non massacrati. E, sullo sfondo, i cavalieri dell’Apocalisse, i fantasmi dell’immanente conflitto nucleare, suggello definitivo del disastro, sua inappellabile rivelazione.
La cura e le sue declinazioni sono il nodo centrale dello stimolante Il silenzio delle campane, una riflessione che Alberto Leiss e Letizia Paolozzi hanno condotto partendo dalla pandemia e dai suoi orrori, ma proiettando il ragionamento ben oltre. Alla possibilità, cioè, di impostare tutto il nostro esistere, il procedere della comunità umana, su altre basi. Di edificare una ”sapienza relazionale”, una nuova tessitura di rapporti sociali che ponga fine ad ataviche divisioni e soprattutto prevaricazioni.
Un saggio che si snoda con piglio giornalistico (gli autori sono stati redattori del quotidiano comunista l’Unità), agilità espositiva, sostanzioso retroterra di idee, elaborazioni, teorizzazioni. Su cui sembrerebbe spiccare, con riferimenti impliciti ed espliciti, Michel Foucault, il filosofo francese che ha analizzato i meccanismi perversi del Potere nelle più intime fibre- la sua microfisica.
Un Potere che non si limita a dettare tavole della legge, ma investe e modella i corpi, che ne incorporano e trasmettono le disposizioni. In più, Il silenzio delle campane offre l’apporto delle suggestioni di tanta letteratura femminile e femminista. Cui si collegano in appendice due contributi illuminanti delle femministe del Gruppo del mercoledì. E uno della rete Maschile plurale.
La pandemia ha attaccato i corpi e ha elaborato una intelaiatura parallela di potere con tutta la sequela di incomprensibili e torrenziali decreti governativi, disposizioni, divieti, segregazioni ingentilite dall’uso dell’inglese lockdown, inquietanti lasciapassare che hanno inciso, e ancora incidono, sulle nostre vite. Ha rappresentato così, forse per inconscio automatismo, l’acme di un certo ordine del mondo. Un mondo fondato sulla violenza, che nella società moderna ha il suo totem più rappresentativo e oppressivo nel Profitto.
Che, proiettato soltanto sul guadagno e l’accumulazione, si fa beffe dei diritti dell’uomo – tanto facili a declamarsi quanto difficili da applicarsi nella realtà -, della sua salute, fino a negare la liberalizzazione dei brevetti di quei farmaci che potrebbero salvare milioni di vite, ma in aree del pianeta che vengono considerate utili solo a essere sfruttate per le loro ricchezze.
La violenza delle multinazionali della salute. La violenza dei ricchi, sottolineano gli autori, la cui inestinguibile auri sacra fames, germe di una guerra di tutti contro tutti, ha tratto nuovo, smodato alimento proprio dalla pandemia. Un mondo, ahinoi, dai tratti inequivocabili della protervia maschile.
Quella che il filosofo francese Pierre Bourdieu chiama la violenza simbolica, che non si esprime attraverso atti di imperio, ma subdolamente «si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza» (Il dominio maschile). E che «si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante» (ibidem).
Un mondo che impone logiche unilaterali, e guai a provare di contraddirle. Apre le braccia – giustamente, doverosamente – ai profughi dell’Ucraina, ma lascia affogare nel Mediterraneo centinaia e centinaia di altri profughi – autentici omicidi senza esecutori diretti-, che hanno il torto di provenire da continenti meno fortunati. Quegli stessi in cui non si inviano i vaccini, perché “prima gli Europei”.
Un mondo che va assolutamente cambiato. Ed ecco, appunto, la cura. «Nelle vite femminili… soprattutto declinate con subalternità, dedizione, costrizione», si legge nel documento del Gruppo del mercoledì. Che riporta un brano dell’antropologa Mary Catherine Bateson: «Oggi io credo che non impareremo a vivere responsabilmente su questo pianeta se non opereremo fondamentali cambiamenti nel nostro modo di organizzare i rapporti umani, in special modo all’interno della famiglia».
Dunque, persino la pandemia, l’acme feroce di un delirio millenario di dominio, il flagello che impietosamente mette a nudo la struttura pervicacemente conflittuale del consorzio umano, che perpetua ed esalta le antiche ingiustizie con la sua «sanità selettiva… per la quale la vita degli anziani è residuale», come residuali sono le vite di altre categorie deboli, si offre come un’occasione fondamentale. Per capovolgere il corso della storia. E imporre la cura, si legge ancora nel documento, come «paradigma di interesse generale, garante della qualità dei rapporti e dei legami (….). La cura vale per quello che è, una dimensione del buon vivere».
Una palingenesi che ci coinvolge tutti. «Provare a scrivere e interpretare un nuovo spartito», esortano liricamente Leiss e Paolozzi. Che proseguono citando da Quando i fatti (ci) cambiano di Tony Judt: «Se la lezione del secolo che abbiamo alle spalle è stata “la facilità con cui la guerra, la paura, i dogmi possono indurci a demonizzare gli altri”, producendo e riproducendo le violenze più atroci, un rimedio va trovato nella ricerca di una nuova “arte relazionale” soprattutto nell’esperienza della creatività e fruizione della cultura».
Muovendo il primo passo, magari, nello smantellare, cancellare quell’insopportabile, tronfia retorica bellicista, un’eredità inoppugnabilmente maschile, che punteggia il linguaggio quotidiano e la prosa ruffiana dei media e dei social. A giusto titolo, gli autori citano Susan Sontag: «le metafore non possono essere messe alla porta semplicemente astenendosi dall’usarle. Devono essere smascherate, criticate, attaccate, demolite» (Malattia come metafora e l’Aids e le sue metafore).
Ma anche, avvertono Leiss e Paolozzi, quel linguaggio apparentemente opposto, che assolutizza il “modello medico”, altrettanto insidioso, perché «rischia di giustificare un regime autoritario; si affida alla necessità di un’azione dura da parte dello Stato e allo strumento della violenza».
Compiti immani. Ma ne va della nostra umanità. Del nostro destino.
Alberto Leiss e Letizia Paolozzi, Il silenzio delle campane. Harpo editore, 2021
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Giuliano Capecelatro
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