Anna Maria Crispino, protagonista della cultura femminista italiana

Silvia Ricci Lempen, 9 dicembre 2021

Un’intervista di Ricci Lempen alla direttrice di Leggendaria che racconta la sua passione per i libri, per le idee, per la condivisione e la trasmissione

Sul numero 40/2-2021 della rivista francofona internazionale Nouvelles Questions Féministes (Éditions Antipodes, Losanna, Svizzera) dal titolo “Androcène” è stato pubblicato un lungo dialogo tra la scrittrice e giornalista Silvia Ricci Lempen e Anna Maria Crispino, direttrice della rivista Leggendaria. I temi trattati, oltre alla traiettoria biografica, politica a culturale di Crispino, sono il femminismo italiano, la Società Italiana delle Letterate e Leggendaria.

Ringraziamo NQF e l’editore Antipodes per l’autorizzazione a riproporla qui nella traduzione in italiano di Giuliana Misserville.

www.nouvellesquestionsfeministes.ch

Di Silvia Ricci Lempen

Giornalista, critica letteraria, traduttrice, saggista, editrice, Anna Maria Crispino è una delle figure di spicco della comunità intellettuale femminista italiana. La rivista culturale femminista Leggendaria, da lei creata nel 1996 e diretta tuttora con la stessa passione, quest’anno festeggia il suo venticinquesimo anniversario: un’occasione per ripercorrere con lei il suo denso itinerario, all’insegna dell’amore per i libri e le idee, ma anche fatto di condivisione e trasmissione.

Nata a Napoli nel 1951, Anna Maria Crispino si è impegnata giovanissima nel femminismo e ha partecipato all’intera storia del movimento così come si sviluppava nel contesto italiano, dove il “pensiero della differenza sessuale” divenne presto il riferimento teorico dominante. Ripercorrere il suo itinerario è entrare anche in un universo intellettuale femminista non sempre completamente conosciuto fuori dai confini italiani.

Il suo elenco di pubblicazioni è impressionante e illustra la ricchezza dei suoi interessi, per quanto riguarda la produzione culturale delle donne e la valenza politica del femminismo, con in particolare un interesse marcato verso la questione esplosiva del rapporto tra femminismo e partiti politici di sinistra. Negli ultimi anni ha curato o co-curato opere collettive su temi diversi come l’invecchiamento o la presenza delle donne nel mondo della comicità. Anna Maria Crispino ha tradotto anche in italiano (dall’inglese) alcune delle principali opere della filosofa femminista postmoderna Rosi Braidotti.

Il suo campo preferito è quello della scrittura femminile, come testimoniano non solo innumerevoli testi critici, ma anche le iniziative concrete che ha lanciato. Così, oltre alla rivista Leggendaria, è stata cofondatrice e, per alcuni anni, presidente della Società italiana delle letterate, associazione volta alla valorizzazione delle scrittrici del passato e del presente. Oggi è direttrice editoriale di Iacobelli, una casa editrice molto attiva in particolare nella pubblicazione di saggi femministi.

Leggendaria è una rivista letteraria, che presenta in ogni numero molte recensioni di libri, ma non solo. Grazie a un comitato di redazione molto nutrito, composto da una trentina di donne con forti competenze diverse, la rivista si interessa, da una prospettiva femminista, a tutti i tipi di produzioni artistiche, facendo sempre da collegamento tra estetica e politica. Vi si possono trovare anche dossier approfonditi su problematiche sociali, reportage in Italia o all’estero, approcci storici o ritratti di donne. È una rivista che vale la pena tenere tra le mani, di grande formato, con una grafica accurata e creativa e una carta opaca “scelta per il piacere tattile della lettura”, come afferma nel numero dell’anniversario di gennaio 2021 un grafico che vi ha lavorato.

Conosco Anna Maria Crispino da molto tempo. Mi aveva fatto da guida nei meandri del femminismo italiano in occasione di un reportage che avevo realizzato nella seconda metà degli anni ’80 e, da allora, ha generosamente condiviso con me, in molte occasioni, le sue conoscenze, competenze e connessioni nel mondo letterario italiano. La nostra forte amicizia ha reso più facile realizzare questa intervista per iscritto, come imponeva la situazione sanitaria. Ci siamo scritte in italiano ed io mi sono occupata della traduzione.

Silvia Ricci Lempen – Sei nata a Napoli all’inizio degli anni Cinquanta, nel momento in cui la grande scrittrice napoletana Anna-Maria Ortese era sul punto di pubblicare Il mare non bagna Napoli1, un libro doloroso sullo stato di questa città nel dopoguerra; e oggi dichiari di essere una lettrice entusiasta di Elena Ferrante, grazie alla quale si parla di Napoli nel mondo intero. Che cosa significa per te essere una donna di origini napoletane? Quale è la cultura che senti di portarti dentro? Come reagisci a tutti i luoghi comuni che circolano su questa città?

Anna Maria Crispino – Più vivo lontana dalla mia città, più mi sembra che Napoli sia una città-mondo. Ci sono, e ci sono sempre state, tante Napoli differenti – tutto dipende da dove sei nata, dove sei cresciuta, da quale punto di vista si guarda alla città. Per Ortese, quello che caratterizzava Napoli era quella “plebe” che non vedeva mai il mare, perché viveva nel buio dei vicoli fatiscenti del centro storico, o in un entroterra lasciato in abbandono; io, invece, sono nata di fronte al mare. Ferrante racconta straordinariamente bene quanto questo fosse un privilegio – un privilegio di cui sono diventata consapevole solo col tempo. Il fatto è che a Napoli, quella che viene chiamata classe media, la borghesia collocata tra la plebe e l’aristocrazia, è sempre minoritaria e comunque recente.

La divisione tra le classi alte e quelle basse è simbolica, ma anche fisica. Da un lato i bei quartieri, dall’altro le periferie sovraffollate, e in mezzo il centro storico, da dove non si vede il mare – un enorme conglomerato stratificato nel tempo: i Greci, i Romani, i Normanni, gli Spagnoli, i Francesi… Gli storici dell’urbanistica ci raccontano come i poveri occupassero gli interstizi tra i palazzi della nobiltà, i piani interrati, i mezzanini, le cantine, i magazzini. Ebbene, un giorno, quando ero adolescente, ho attraversato, per caso, la linea immaginaria che separava il mio quartiere sul lungomare dal centro cittadino, ed è lì che ho visto una Napoli che non conoscevo, di cui forse non immaginavo nemmeno l’esistenza. Ho visto un corteo di disoccupati, ho visto l’ingiustizia, ho visto la dignità di chi lottava.

Da allora ho cercato, indagato, studiato e porto dentro di me questa storia senza esserne l’erede. Porto dentro di me, anche, la cultura dell’Illuminismo, la Rivoluzione del 1799, la musica, le arti, l’amara allegria e la testardaggine nel sopravvivere di una città che non si è mai arresa. Reagisco malissimo agli stereotipi denigratori su Napoli. Per me è una città eccellente, magnifica, eccessiva, straordinaria nel meglio come nel peggio. E la creatività dei napoletani è… leggendaria!2

Silvia Ricci Lempen – Come è cominciato per te il femminismo? Sei diventata femminista attraverso un impegno politico di sinistra, come è avvenuto per tante militanti degli anni ’70, in Italia e altrove, oppure ti sei accorta subito che il principale avversario era il patriarcato? E poi puoi spiegarci perché ti sei sposata a 19 anni, diventando madre molto presto, quando a quell’età ti eri già decisamente allontanata dal modello di famiglia tradizionale come esisteva soprattutto nell’Italia del sud?

Anna Maria Crispino – La mia formazione politica si è svolta nell’ambito del movimento studentesco del 1968, poi de Il manifesto, una rivista ideata da un gruppo di persone che erano state espulse dal PCI (Partito Comunista Italiano). Quella rivista è divenuta poi un quotidiano e ha dato il nome ad un gruppo politico della sinistra extraparlamentare. Ma il femminismo è arrivato molto in fretta. Sposandomi prima del mio diciannovesimo compleanno, avevo l’impressione di compiere un atto rivoluzionario. Mio padre era morto, i rapporti con mia madre erano pessimi e, siccome la maggiore età all’epoca erano i 21 anni, sposarsi sembrava un compromesso onorevole per uscire di casa. Volevo dimostrare a quella tiranna di mia madre che “un’altra famiglia era possibile”. Ma avere un figlio quasi subito, e forse non a caso, mi ha messo in una posizione scomoda. Dovevo prendermi cura della mia famiglia e allo stesso tempo dei miei studi, mentre allora le mie giornate erano scandite dall’impegno politico.

Quel periodo è stato davvero molto duro, con pochissimi soldi e un marito-compagno (in senso politico, ma non solo) che non è stato all’altezza. Lì, la contraddizione è diventata evidente: lui continuava la sua vita senza ostacoli; io dovevo occuparmi di tutto. Era di nuovo lo schema della famiglia tradizionale. A partire da me – come ho fatto in gruppo di autocoscienza – non potevo che finire nel femminismo. Ma il passaggio non è avvenuto attraverso la critica del patriarcato, ma attraverso le teorie marxiste sullo sfruttamento.

All’inizio degli anni ’70, all’Università di Trento c’era un collettivo di donne sociologhe che riflettevano su queste teorie, di cui si occupava anche, da un altro punto di vista, un gruppo di Padova sulla retribuzione del lavoro domestico. Abbiamo fatto una lettura collettiva di un testo prodotto a Trento nel 1972, La coscienza di sfruttata, e questo ci ha permesso di riformulare in modo diverso la “questione delle donne”, come veniva presentata dalla sinistra tradizionale, vale a dire solo in termini di “emancipazione”3. A quel tempo usavamo tra noi l’espressione “Il disagio della donna emancipata”. Sì, noi, figlie del ‘68, lo eravamo certamente emancipate – soprattutto grazie al massiccio accesso all’istruzione superiore, che ci ha dato la possibilità di guadagnarci da vivere ed essere indipendenti -, ma nello stesso tempo soffrivamo nel constatare che, in quello che contava realmente non era proprio cambiato nulla: le relazioni con gli uomini, le forme di democrazia e della rappresentanza politica, insomma i rapporti di potere.

Silvia Ricci Lempen – Dopo aver fatto buona parte dei tuoi studi a Napoli, hai ottenuto una borsa di studio che ti ha permesso di terminare l’università a Londra, e poi grazie a un’altra hai potuto frequentare una specializzazione in Scozia. Come te la sei cavata con tuo figlio? E come è stato il tuo debutto nel mondo professionale?

Anna Maria Crispino – Ho dovuto destreggiarmi, come si suol dire! Era stato concordato che mio figlio avrebbe passato parte del suo tempo con il padre (e con mia suocera), e ho potuto anche contare su mia “zia”, un’amica di mia nonna che era stata molto presente nella mia stessa infanzia e che mi amava moltissimo. Mi sono organizzata in modo da lasciare mio figlio in buone mani. Ma i miei spostamenti a Londra e successivamente ad Aberdeen sono stati calcolati al minuto!

Amavo studiare e speravo di poter rimanere all’Università come ricercatrice presso il Dipartimento di Lingue e Letterature dell’Europa Occidentale; ma non ho potuto candidarmi in tempo per un concorso grazie al quale molte persone furono assunte, e avrei dovuto aspettare anni per il successivo. Io dovevo guadagnarmi uno stipendio e, in mancanza di meglio, ho accettato un posto di insegnante. Ho capito subito che non era quello che volevo fare. Mi era sempre piaciuto scrivere e allora…

Silvia Ricci Lempen – E così ti sei rivolta al giornalismo, una professione con la quale ti sei guadagnata da vivere come dipendente dagli anni ’80 fino al 2006. Com’è andata? Quali ostacoli hai incontrato come donna, come femminista, come intellettuale? Cosa ti ha portato

questa professione, che cosa hai imparato lì?

Anna Maria Crispino – È stato un cammino a dir poco accidentato. Durante gli anni in cui insegnavo, avevo iniziato a collaborare con delle riviste e con il quotidiano di Napoli, Il Mattino. Ma avevo un bambino ancora molto piccolo, lavoravo a scuola una parte della giornata, non avevo il tempo di fare quello che occorreva allora per sperare di trovare un giorno un lavoro in un quotidiano: mettersi a completa disposizione del datore di lavoro, spesso a titolo gratuito. Infatti, a Napoli, le possibilità di guadagnarsi da vivere come giornalista erano molto limitate. Nel 1980 ci fu il terremoto4, che in qualche modo ha congelato la città per un anno. Una classe di politici rapaci e corrotti è arrivata al potere, attirata dai fondi per la ricostruzione. Il clima politico è diventato molto pesante, e dato che stavo già collaborando un po’ con il quotidiano Il manifesto e con il canale culturale della RAI5, ho deciso di andare a stabilirmi a Roma, dove le possibilità di lavoro erano molto maggiori.

Ma la vera svolta, l’ho avuta facendomi assumere nella redazione di Noi donne, l’organo dell’UDI (Unione delle donne italiane) che era appena diventato un mensile dopo essere stato un settimanale. L’UDI era un’organizzazione femminile di sinistra, che cominciava allora a prendere le distanze dai partiti della sinistra tradizionale (comunista e socialista) per avvicinarsi al femminismo. Naturalmente guadagnavo pochissimo, ma quegli anni di lavoro a Noi donne mi hanno permesso di presentarmi al concorso per diventare una giornalista professionista. È stata un’esaltante esperienza di lavoro in una redazione composta da sole donne, anche se le mie colleghe avevano un percorso diverso dal mio.

Alcune redattrici provenivano da una sinistra che conoscevo poco. Pensavano in termini di parità, che era qualcosa di diverso dal femminismo a cui io facevo riferimento. In quel luogo problematico e pieno di contraddizioni, non solo ho imparato il mestiere, ma ho imparato anche a scoprire mondi che non conoscevo – le operaie, le mondine6, le partigiane, le militanti, le sindacaliste. Credo che questo mi abbia dato maggiore profondità come intellettuale, in quello che pensavo, in quello che scrivevo. Oggi, a posteriori, vorrei dire che il lavoro nella redazione di Noi donne è stato per me un vero allenamento alla complessità.

Silvia Ricci Lempen – Arriviamo dunque al femminismo. Se guardiamo il tuo itinerario e le decine di pubblicazioni che hai al tuo attivo, anche senza entrare nei dettagli, salta agli occhi che l’impegno intellettuale nel femminismo è il filo conduttore della tua vita. Puoi darci un’idea del paesaggio del femminismo italiano nella seconda metà del XX secolo, in particolare sul piano teorico?

Anna Maria Crispino – Credo che per tratteggiare il complesso panorama dei movimenti femminili e femministi italiani a partire dagli anni ’60 -’70, dobbiamo tener conto di due dati fondamentali. Da un lato il PCI era il più importante di tutti i partiti comunisti occidentali; d’altra parte, in Italia, l’impegno associativo delle donne aveva una ricca e lunga storia, radicata nell’antifascismo e nella Resistenza. Noi donne nasceva nel 1937 come pubblicazione clandestina di esiliate antifasciste (in Francia e altrove), e divenne poi l’organo dei Gruppi di difesa delle donne, con un forte radicamento, in particolare al centro e al nord d’Italia (anche se le prime edizioni clandestine di Noi donne furono stampate a Napoli). L’UDI era allora una vera e propria organizzazione di massa, con milioni di iscritte, e godeva di una certa autonomia – di azione, ma anche di pensiero – rispetto ai partiti di sinistra a cui era vicina. Fu Noi donne a pubblicare la prima indagine sul lavoro domestico, così come un altro sondaggio sugli uomini di sinistra, che suscitò un grande scandalo perché puntava il dito contro il loro persistente maschilismo.

Il femminismo che iniziò ad emergere a partire dalla metà degli anni ’60 era in parte importato dagli Stati Uniti, ma proveniva anche dai movimenti sessantottini ed extraparlamentari, critici verso le posizioni troppo riformiste del Partito Comunista (il Partito socialista era già all’epoca integrato nel governo). Così, nei primi anni ’70, abbiamo assistito a tutta una fioritura di gruppi femministi che riflettevano posizioni teoriche diverse, ma che avevano come punto comune il separatismo (esclusione degli uomini) e il rifiuto della nozione di emancipazione a favore di quella della liberazione. Nasce così il Movimento di liberazione della donna (MLD), creato da attiviste del Partito Radicale7. Contemporaneamente, a Milano, donne ispirate dal collettivo francese Psych&Po si concentravano sulla “pratica dell’inconscio”; è da lì che si è sviluppato il pensiero della differenza sessuale, con la traduzione dei libri di Luce Irigaray, e poi la fondazione, a Verona, della Comunità filosofica Diotima.

Questi gruppi avevano basi teoriche diverse da quelle su cui si fondava l’interpretazione della questione femminile dell’Unione delle donne italiane e della sinistra tradizionale, e questo ha causato delle tensioni per tutti gli anni ’70. Va ricordato che, negli stessi anni, gli scontri tra la sinistra extraparlamentare e il Partito Comunista hanno funzionato anche da terreno fertile per lo sviluppo del terrorismo degli anni di piombo.

Silvia Ricci Lempen – Come si spiega, secondo te, che il “femminismo della differenza” abbia avuto una tale presa sulla formazione del pensiero femminista italiano, mentre in Francia o in Svizzera è rimasta una corrente minoritaria? E come descriveresti questa corrente di pensiero, nella sua versione specificamente italiana?

Anna Maria Crispino – L’Italia è un Paese caratterizzato dalla compresenza di mentalità molto arretrate e forme molto incisive di progressismo. Prima accennavo all’ingombrante presenza del Partito Comunista, che si aggiungeva all’influenza tradizionalmente molto forte della Chiesa cattolica. Il femminismo italiano si è sviluppato in questo contesto storico originale e contrastato.

Secondo me, l’idea alla base della teoria della differenza sessuale come si è sviluppata in Italia, è quella della potenza delle donne, legata in particolare alla riscoperta di una genealogia (di pensatrici, di scrittrici, ecc.) che erano state ignorate e su cui le donne potevano oramai appoggiarsi. E questa riscoperta ha portato a un’intensa valorizzazione della figura materna e del materno come veicolo di trasmissione. L’idea non è quella di una superiorità delle donne rispetto agli uomini, ma piuttosto quella della capacità che hanno le donne di pensare se stesse senza fare riferimento al soggetto unico apparentemente neutrale della tradizione filosofica maschile. Le donne sono autosufficienti, in una dimensione verticale grazie alla genealogia, e in una dimensione orizzontale grazie ai rapporti con le loro simili.

In questo ambito la nozione di autosufficienza ha davvero giocato un ruolo centrale. Si trattava di fare un passo di lato per uscire dall’egemonia della cultura patriarcale rispetto al dilemma irrisolto tra emancipazione e liberazione. Autosufficienza esistenziale, libertà di essere – autosufficienza teorica, libertà di pensiero. È questa nozione che risuona nello slogan “il personale è politico”, dove troviamo una ridefinizione di ciò che è politico: non più solo la sfera pubblica e collettiva, ma anche quella soggettiva, privata, individuale.

Partiamo da noi stesse per lottare assieme alle altre donne (e non per loro). Il “noi” chiamato in causa si basa direttamente su una relazione tra donne, senza passare per il riferimento a strutture collettive create da uomini, come i partiti. Mi riferisco in particolare al Partito Comunista, secondo il quale la questione delle donne era secondaria rispetto alla lotta di classe e poteva aspettare sine die. Da cui la riluttanza del femminismo della differenza a denunciare le discriminazioni come venivano definite dalla retorica di sinistra che si presumeva egualitaria. L’idea alla base era: le donne non sono vittime, sono forti. Come affermava la grande femminista italiana, Carla Lonzi, le donne sono “soggetti imprevisti”, in contrapposizione all’egemonia del soggetto maschile. Soggetti imprevisti perché esclusi fin dall’inizio del patto tra fratelli (senza le sorelle) che è alla base della democrazia.

Questa forza di autoaffermazione delle donne, le femministe italiane che ora hanno 30 o 40 anni l’hanno ereditata pur senza volerla sempre riconoscere. Assistiamo ora in Italia a un nuovo slancio del femminismo, all’insegna delle teorie dell’intersezionalità, che mettono in rilievo le ingiustizie di classe o le discriminazioni razziali; e la mia impressione è che le protagoniste di questo nuovo slancio, di fronte all’attuale contesto di precarietà economica e incertezza sul futuro, attingano a questa forza per condurre le loro lotte.

Silvia Ricci Lempen – L’anno 1996 è da segnare con una pietra miliare, per te e per la cultura femminista italiana. Sei stata la principale promotrice di due grandi avventure, la creazione della Società italiana delle letterate (SIL) e quella della rivista Leggendaria. I due progetti sono collegati, ma iniziamo con la SIL. Un’associazione di donne letterate … di che si trattava?

Anna Maria Crispino – Un po’ di storia. All’inizio degli anni ’70, le femministe scrivevano testi e lanciavano dibattiti nella sfera pubblica, ma gli anni di piombo, il cui evento culminante fu il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro8 nel 1978, sembrava averle messe a tacere. Negli anni ’80, d’altra parte, abbiamo assistito ad un fiorire di studi e ricerche in tutti i campi: letteratura, storia, scienze, arti visive. Tutto questo all’insegna del femminismo della differenza, di cui la Libreria delle donne di Milano era la punta di diamante. Ed è stato anche in quel periodo che si è sviluppato il dibattito sulla necessità di creare dei Women’s Studies nelle università.

Attive nel movimento, tante docenti universitarie praticavano una sorta di dentro/fuori tra le lezioni accademiche che tenevano nelle proprie istituzioni e corsi o seminari autogestiti in cui potevano impegnarsi senza alcun vincolo istituzionale, nel quadro di strutture femministe indipendenti (ad esempio il Centro Culturale Virginia Woolf, creato all’interno della Casa Internazionale delle donne di Roma). Pubblicavano inoltre le loro ricerche in case editrici femministe o comunque non collegate al mondo accademico.

Successivamente, alcune di loro hanno introdotto la ricerca femminista all’interno delle università, ma si trattava di iniziative individuali, con forme e statuti diversi. L’idea che finalmente prevaleva era che i saperi delle donne non dovevano essere istituzionalizzati, per non correre il rischio che venissero svuotati dei loro contenuti.

Detto questo, si affermò la necessità di avere luoghi di coordinamento e di scambio. Nel 1989 viene fondata la Società italiana delle storiche (SIS), ma in campo letterario stabilire un dialogo tra “ricercatrici” e “appassionate”, non collegate ad una istituzione, fu più difficile, a causa della fortissima resistenza da parte del mondo accademico. Va ricordato che all’epoca gli studi letterari erano la roccaforte di baroni gelosi delle loro prerogative. Ci siamo comunque arrivate, facendo interagire docenti e ricercatrici collocate su due assi di lavoro, che erano anche assi geografici: l’asse Firenze-Bologna, piuttosto accademica, e l’asse Roma-Napoli, che favoriva la critica e la creatività.

Nacque così la Società italiana delle letterate, i cui inizi furono piuttosto complicati, dato che si trattava di fare lavorare assieme figure professionali diverse. Ma ora la bambina è cresciuta e va per la sua strada, con la partecipazione di tante giovani donne!

Silvia Ricci Lempen – E poi, più o meno nello stesso periodo, è nata tua figlia, Leggendaria! Una rivista assolutamente originale nel panorama culturale italiano, e che allo stesso tempo, mi sembra, si inserisce in una forte tradizione italiana di legame tra cultura e politica.

Anna Maria Crispino – Sì, Leggendaria è stato il frutto del mio impegno e della mia furiosa passione per i libri, all’insegna della convinzione espressa da Carla Lonzi (che ho già citato), secondo cui “la cultura è già politica”. Volevo creare una rivista in cui questa connessione fosse ben in evidenza, che trattasse di libri, ma anche di opere d’arte, di film, anche di serie televisive, ecc., con un accento su come questi prodotti culturali riconfigurano il senso degli universi entro i quali noi evolviamo e facciamo le nostre scelte. E volevo anche che la scrittura critica praticata dalla rivista fosse allo stesso tempo curata e accogliente, in modo che la lettrice potesse sentirsi a suo agio.

Bene, la rivista festeggia il suo venticinquesimo anniversario quest’anno, con una redazione ampia e intergenerazionale: francamente, mi sembra un miracolo! Il nostro funzionamento si basa su incontri (attualmente a distanza a causa della pandemia), durante i quali, come “direttora”9 , ricevo le proposte della redazione e le organizzo per dare loro coerenza. In altri casi, sono io che sollecito articoli o recensioni. Inoltre, ho sempre messo molta cura nella grafica della rivista, stando in stretto contatto permanente con i e le professioniste che ci hanno lavorato nel corso degli anni.

La rivista esce ogni due mesi, con una tiratura di circa 1000 copie. È distribuita in abbonamento, ma la si trova anche in alcune librerie. Abbiamo un nucleo fedele di abbonate all’edizione cartacea, a cui si sono aggiunte, negli ultimi anni, lettrici su pdf. I lettori maschi sembrano rappresentare meno del 5%, ma noi sospettiamo che anche molti mariti e compagni siano nostri lettori!

Se la redazione non è remunerata, tutto il resto è ovviamente a pagamento, la grafica, la stampa, la spedizione, ecc. Non abbiamo mai beneficiato di sovvenzioni pubbliche o supporto editoriale, salvo rari casi, quando abbiamo prodotto numeri bilingue per una tale o talaltra fiera internazionale. Ma possiamo contare sulle nostre madrine, lettrici mecenate che pagano di più per il loro abbonamento.

Silvia Ricci Lempen – Qual è per te il significato simbolico del titolo Leggendaria? Come spiegheresti l’associazione tra la lettura, che è l’attività centrale attorno al quale ruota la rivista, e la nozione di legenda contenuta nel suo titolo? Puoi dirci qualcosa in più sulle tre parole che costituiscono il sottotitolo della rivista, Libri , Letture , Linguaggi , che iniziano tutte e tre con la lettera L, come Leggendaria?

Anna Maria Crispino – In latino legenda, con una sola g, significa “cosa/come occorre leggere”, e in questo senso la rivista vuole essere una guida alla lettura; in italiano, leggenda, con due g, corrisponde alla leggenda anche in francese, parola che rimanda all’idea del meraviglioso, quel meraviglioso che la rivista invita a scoprire e assaporare.

Per quanto riguarda le tre parole del sottotitolo: i Libri sono libri delle autrici che vorremmo valorizzare, le Letture si riferiscono all’attività di lettura e interpretazione, che vogliamo promuovere perché è una porta d’ingresso alla complessità e alle connessioni che sono la materia del mondo; e infine i Linguaggi designano un’estensione del linguaggio scritto a tutti gli altri linguaggi, fatti di segni e di immagini, di cui anche si parla nella rivista: le arti, il cinema, le produzioni televisive, ecc. Aggiungo una quarta L, che non è nel sottotitolo, ma che è la chiave di volta di tutta la rivista: la Lettrice, colei alla quale parliamo e con la quale dialoghiamo, colei che costituisce, a nostro avviso, la figura centrale della trasmissione. Leggendaria non è e non intende mai essere una pubblicazione “di scuola”: ci rivolgiamo a un pubblico di donne diverse tra loro e noi, come redattrici, evitiamo di essere autoreferenziali affermando tesi e punti di vista esclusivi.

Silvia Ricci Lempen – La Società italiana delle letterate, di cui sei una delle principali fondatrici, si impegna a riscoprire le scrittrici del passato e auspica la loro integrazione nel canone letterario, ancora quasi esclusivamente maschile. Organizza inoltre seminari su scrittrici contemporanee, italiane o di altri Paesi. Ma le scrittrici italiane di oggi, in particolare le più giovani, sono davvero interessate a riconoscersi in una comunità letteraria di donne? O sono riluttanti, per lo più, a distinguersi come “donne che scrivono”?

Anna Maria Crispino – A mio avviso, qui siamo davanti ad uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni. Alcune delle grandi scrittrici della seconda metà del XX secolo, hanno scelto di prendere le distanze rispetto alla letteratura cosiddetta femminile, come Elsa Morante10, che teneva a essere chiamata “scrittore”11. Senza dubbio aveva paura di essere rinchiusa nel ghetto di una letteratura minore, quella letteratura femminile che Benedetto Croce, grande intellettuale del secolo scorso, aveva definito letteratura sentimentale (un pregiudizio che tuttora persiste). Tuttavia, ho l’impressione che questo problema non sia più rilevante per le giovani scrittrici di oggi. Alcune di loro, e non le meno importanti (ad esempio Giulia Caminito, una trentenne, nella cinquina dei finalisti del Premio Strega 202112), portano avanti il proprio lavoro creativo e al tempo stesso un lavoro di ricerca sulle scrittrici del passato, lasciate nell’ombra o completamente dimenticate non solo dal canone, ma anche dalle case editrici. Può trattarsi di autrici che hanno avuto anche molto successo mentre erano in vita, ma che non sono mai state ristampate.

La SIL si è impegnata a fondo in questa direzione. Ha pubblicato un testo collettivo intitolato Oltrecanone e ha favorito la formazione di un gruppo di docenti che promuove una maggiore presenza di scrittrici nei libri di testo scolastici. E non è certo un caso che abbiamo assistito, negli ultimi anni, alla creazione di un festival delle scrittrici, intitolato inQuiete13, nonché una Fiera dell’editoria delle donne, giunta alla sua quarta edizione.

Silvia Ricci Lempen – E tu, sempre in prima linea? Sospetto che tu non sia estranea alla creazione di queste due nuove iniziative?

Anna Maria Crispino – Il festival inQuiete è stato lanciato nel 2017 da un gruppo di giovani donne vicine alla libreria delle donne di Roma, Tuba, e al sito ingenere it. Io mi sono limitata a dare loro qualche consiglio e una mano al loro crowdfunding, perché pensavo fosse giusto che gestissero il loro progetto da sole, senza interferenze da parte delle “anziane”. D’altronde loro sono state formidabili e hanno riscosso un gran successo, anche per le due ultime edizioni, che hanno dovuto svolgersi online.

D’altra parte, la Fiera dell’editoria delle donne, intitolata “Feminism”, è stata immaginata da un gruppo di quattro donne della mia generazione, tutte impegnate nella filiera del libro e tutte vicine, in un modo o nell’altro, alla Casa internazionale delle donne di Roma14. Per me personalmente, si trattava di fare la connessione tra Leggendaria, la SIL e un’altra delle mie attività, quella di direttrice editoriale presso Iacobelli, una casa editrice piccola, ma molto impegnata in ambito femminista.

I libri, certo, bisogna pensarli, scriverli, pubblicarli, ma bisogna anche farli circolare, e questa Fiera è stato l’ingranaggio mancante. Mi sono ispirata alla Fiera Internazionale del Libro Femminista, che si è svolta in diverse città europee e a Montreal a partire dalla metà degli anni ’80, e alla quale avevano partecipato anche le italiane.

Tante opportunità per me di interagire con le rappresentanti di altri Paesi della produzione editoriale delle donne, ma anche di dialogare su questioni politiche e culturali del femminismo internazionale. Queste esperienze sono stati così intense che mi è venuta l’idea di lanciare qualcosa simile da noi. Che piacere, che felicità, mettere in vetrina, e su larga scala, la produzione della scrittura delle donne, destinata a un pubblico vasto e diversificato! E sì, devo ammetterlo, il risultato è andato oltre le aspettative più ottimistiche!

1. Gallimard, 1993 La versione originale italiana, Il mare non bagna Napoli, è apparsa nel 1953.

2. Allusione al titolo della rivista Leggendaria.

3. Durante l’intervista, Anna Maria Crispino usa ripetutamente la nozione di emancipazione e il termine emancipazionismo, che non ha traduzione in francese. Si tratta, in sostanza, di una forma di pensiero che mira a stabilire l’uguaglianza giuridica e la parità in generale, il diritto di gestire autonomamente la propria vita, per le donne come per le comunità a lungo discriminate, come la comunità ebraica.

4. Il 23 novembre 1980, il cosiddetto terremoto dell’Irpinia, che produsse danni anche a Napoli e nel resto della Campania e Basilicata (ndr).

5. La Radio-televisione pubblica italiana.

6. Questo termine si riferisce alle donne che lavoravano nella risicultura.

7. Si tratta di un partito di sinistra, libertario, non violento e transnazionale.

8. Aldo Moro, figura di spicco della Democrazia Cristiana e promotore del “compromesso storico” (riavvicinamento al Partito Comunista), fu rapito e assassinato dalle Brigate Rosse.

9. La parola direttora è un neologismo, essendo direttrice il femminile usato abitualmente per il maschile direttore.

10. Elsa Morante, nota nel mondo francofono per il suo grande romanzo La Storia (Gallimard, 1977), è una delle principali scrittrici italiane del secolo scorso.

11. In italiano la parola scrittrice è di uso comune da secoli. La scelta di chiamarsi scrittore (maschile) è quindi molto più significativa della resistenza osservata nel mondo francofono a utilizzare la parola écrivaine.

12. Uno dei più prestigiosi premi letterari italiani, a volte paragonato al Prix Goncourt. Caminito ha anche vinto il premio Campiello 2021.

13. Gioco di parole facilmente trasponibile in francese: inQuiètes.

14. La Casa Internazionale delle Donne a Roma, la cui stessa esistenza è stata a lungo minacciata da un contenzioso con il Comune, ora positivamente risolto (ndr).

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Silvia Ricci Lempen è una scrittrice italo-svizzera bilingue, nata a Roma. Vive nella Svizzera francese, dove ha completato un dottorato in filosofia, poi lavorato come giornalista per diverse testate. È stata caporedattrice della rivista femminista Femmes Suisses, prima di entrare a far parte della redazione culturale del quotidiano Le Temps. Ha pubblicato diversi romanzi, vincendo numerosi premi letterari. Con il suo ultimo romanzo, I sogni di Anna, Vita Activa, 2019 (LM La diffrazione infinita dell’autrice, di Gabriella Musetti, 20 ottobre 2020) ha realizzato un’avventura editoriale particolare, scrivendolo e pubblicandolo contemporanemente in italiano e in francese (Les Rêves d’Anna, en bas, 2019). La versione italiana ha vinto il Premio Svizzero di Letteratura 2021 e la versione francese il Prix Alice Rivaz 2021. Sono anche disponibili in italiano Una famiglia perfetta (Iacobelli, 2010), tradotto da Alessandra Quattrocchi dall’originale francese Un Homme tragique (L’Aire, 1991, Prix Michel-Dentan) e Cara Clarissa, Iacobelli 2012. https://www.silviariccilempen.ch/

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