Nuna – un ritratto intimo di Livia De Stefani

Maddalena e Livia Signorini, 11 settembre 2021

Nostra nonna si faceva chiamare Nuna dalle sue tre nipoti, e Muma dai suoi tre figli. Mamma e Nonna erano termini troppo ordinari: si sentiva rara e lo era.

Della scrittrice che pochi oggi ricordano, del suo mondo letterario e salottiero noi abbiamo visto poco finché l’abbiamo frequentata; è morta nei nostri vent’anni. Di quel suo mondo parlava poco o niente con noi, al contrario ricordiamo con precisione una sua frase sardonica: “nessuno ti riconosce meno come artista dei tuoi familiari”. A noi bambine lei piaceva moltissimo per altre ragioni. Innanzitutto era bella. Di una bellezza un po’ imbarazzante, una nonna fata. E poi era giovane, si era sposata a sedici anni per fuggire la claustrofobia di una Palermo provinciale. Una nonna fata dall’ovale perfetto incorniciato da capelli già candidi a soli quarant’anni, e due occhi scuri al centro. Una nonna fata, poco più vecchia di nostro padre, che pur avendo cose molto più interessanti da fare adorava passare del tempo con noi. E di tutto il tempo passato insieme a lei preferiamo ricordare quello delle gite nei fine settimana alla sua casetta di campagna. Da un tipo selvatico e spartano di nome Ferruccio, che conosceva chissà come, si era comprata per due lire una casetta tutta di legno non lontano da Roma, una specie di dacia con un patio coperto. Si partiva il venerdì mattina sulla sua già per allora antiquata Fiat 1100 color canna da zucchero: odiava le macchine e ha tenuto la stessa fino a che ha guidato. La 1100 aveva un largo volante d’osso bianco che lei accarezzava ritmicamente con i pollici guidando pensierosa. Con il portabagagli zeppo di vivande squisite e di libri che doveva leggere per lavoro, si inoltrava per strade di campagna poco battute, spesso in un silenzio contemplativo. E noi osservavamo quel silenzio sprofondate nel sedile posteriore di pelle marrone fissandole la schiena, i capelli sempre ben aggiustati e gli occhi dal taglio particolare riflessi nello specchietto retrovisore. Anche lei ci guardava a tratti dallo specchietto e ci faceva domande, da noi spesso giudicate imbarazzanti perché troppo dirette. Guidava malissimo e dopo un’ora e passa arrivava con tutta flemma a uno stretto sentierino sterrato, cinto da edere e rovi. Con la teatralità che dominava ogni suo gesto scendeva dalla macchina e apriva i molti catenacci che chiudevano un cancello di legno sbilenco. Il retro della casetta era fronteggiato da cespugli di rose che lei amava piantare ovunque, spesso estorcendo talee ad amici: questa me l’ha regalata tale, questa talaltro, e tale e talaltro erano magari la Bellonci o Levi, chi si ricorda più.

Il fronte della casetta poggiava su una base di cemento e aveva una piccola veranda abbellita da un glicine e delle gran corna di bue appartenenti al proprietario precedente; le aveva lasciate perché le ricordavano il lato primitivo di lui. Un selvaggio, un selvaggio. Sotto la veranda, una sorta di cantina aperta ai lati, scorrazzavano grossi topi e, quando sedevamo sopra in silenzio, si potevano sentire le loro zampine grattare il ciarpame lasciato in eredità dal selvaggio Ferruccio.

Davanti alla veranda, da cui si godeva il panorama della zona, declinava un terreno con diversi alberi da frutta; un ciliegio, un cachi, un melo cotogno, altri cespugli di rose, un pozzo bordato da anemoni e un orto. L’orto e il piccolo terreno erano accuditi da Attilio, un contadino del posto a cui lei, professionista dell’esaltazione di ogni aspetto della propria avventura sulla terra, attribuiva saggezze inestimabili. Nella realtà, sempre distante da quella sua personale versione epica dei fatti, Attilio era un rozzo vecchietto in canottiera e cappello che spesso sorprendevamo immerso nella lettura di riviste pornografiche – un sorriso a evidenziare i suoi denti radi – in quell’orto che produceva soprattutto prodigiose zucchine lunghe un metro. Le zucchine erano la base dei nostri pasti, vuoi sotto forma di frittata che come condimento per delle paste sempre magnifiche: Nuna era una cuoca formidabile e noi due mangiatrici di vaglia.

La casetta, una quarantina di metri quadri divisi fra una stanza con letti singoli sparsi a destra e a manca, un cucinino essenziale e un piccolo bagno, era arredata con mobili di fortuna, sgabelli, stoffe fiorate, frutta e tovaglie in plastica e grandi pannelli a collage di sua mano resi splendidi più dal suo entusiasmo che dal loro effettivo pregio.

Un odore di merda di topo, legno putrescente e muffa aggiungevano un tocco lirico e intrigante al tutto. La casa era a tutti gli effetti una baracca senza luce, acqua, gas: usavamo lampade a gasolio per leggere, una bombola per cucinare e quel minimo di acqua necessario al breve soggiorno era fornito da un’autoclave rumorosa che attingeva dal pozzo. Non che ci si lavasse, era quello il bello, per tutte e tre. Era quello il gioco, la casetta e come viverci; e quel gioco, in fondo pericoloso per una nonna e due bambine in una casetta isolata in una radura, una casetta da tre porcellini, lo guidava lei. Appena entrate bisognava aprire le finestre togliendo dei pesanti pannelli in ferro che erano stati fissati con delle noiose viti dopo certe incursioni vandaliche, ispezionare se ci fossero topi e nel caso cacciarli inveendo contro i veleni moderni, accendere una stufa a carbone al centro della stanza, sistemare le provviste. Gironzolavamo esclamando la frase che non si stancava mai di sentirci ripetere: “Nuna, in questa casetta c’è tutto!” Poi si veniva incitate ad andare in giardino per intraprendere il più intelligente e degno dei passatempi: sconfiggere la tenacia della gramigna strappandola con furia e livore per ore. L’odio per la gramigna ci riscaldava. Arrivato il tramonto si cenava su un tavolino traballante, illuminato a stento; non mancava mai una sontuosa torta di mele, che andava lodata e applaudita. E poi magari un giro a scarabeo dove Nuna barava in modo plateale, raggirandoci con parole inesistenti. Esiste esiste, diceva, non ho qui il dizionario ma lo posso giurare.

Arrivava l’ora più temuta, quella di entrare a letto. Armate di lume e barattolo si esploravano le lenzuola, in cerca di ragni pelosi e scorpioni. Qui il gioco diventava duro: l’insetto doveva essere raccolto nel barattolo e gettato nel gabinetto, dove sguazzante sul fondo veniva immediatamente oltraggiato con un getto di pipì improvvisata. Arrivata la notte, dai letti ripuliti dagli scorpioni la osservavamo leggere pile di libri di autori italiani, che commentava ad alta voce prima di addormentarsi di schianto.

La domenica veniva spesso da Roma qualche suo amico interessante e allora si allestiva di nuovo il tavolino con l’incerata a fiori, questa volta sulla veranda, mangiando per lo più pollo arrosto con patate: “piace a tutti”, diceva, oppure “un’eccellente” pasta alle solite zucchine.

Al calare della sera si rimettevano i pannelli alle finestre e si lasciava il campo, sino alla volta seguente, a topi e scorpioni.

Il viaggio di ritorno era persino più silenzioso di quello d’andata anche perché l’oscurità rendeva più incerta la guida della Nuna che aveva bisogno di maggiore concentrazione. Una volta, notando al lato della strada una serie di donne con i falò accesi le chiedemmo chi fossero e cosa facessero: “Sono delle signore molto tristi” fu la sibillina risposta che per anni rotolò nei nostri cervelli in cerca di una soluzione.

Alla morte della Nuna abbiamo ereditato la casetta, ma non potendola tenere l’abbiamo venduta. Poco prima del rogito è stata incendiata; bruciati i topi le bisce gli scorpioni le poche cose rimaste. Nuove costruzioni sono sorte intorno al terreno, dove ora giace una villetta come tante, con luce, gas e acqua corrente.

Ma la dacia rimane nei nostri sogni, temibile e incantevole come Nuna.

 

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Maddalena e Livia Signorini

Livia Signorini è nata e vive a Roma. Collabora con la casa editrice Adelphi e lavora come artista visiva. Maddalena Signorini è nata e vive a Roma. Insegna Paleografia latina presso l'Università di Roma Tor Vergata.

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