La formazione di un’identità di genere nel secondo dopoguerra.: lo zio socialista, il nonno fascista e tutte le differenze di una famiglia anticonformista, precaria, sincera. I toni palpitanti del delicato memoir di Alessandra Marzola.
di Francesca Guidotti
Gli anni diversi di Alessandra Marzola è un memoir coinvolgente, tutto da assaporare. Scritto da una studiosa di letteratura inglese al suo esordio nella narrativa, racconta i suoi primi 13 anni di vita con un linguaggio intenso, morbido, vivacissimo, ricco di dettagli sensoriali e palpitante di emozioni. Il libro è un tuffo nel passato dell’autrice, un passato che però ci appartiene, perché è proprio lì che affondano le radici della nostra epoca, di un mondo contemporaneo attecchito, per molti versi, nell’humus culturale del secondo dopoguerra. Sullo sfondo, la Milano di allora, una città dinamica, in trasformazione e che poi sarebbe divenuta il cuore pulsante del Paese.
La protagonista, Alessandra, appartiene alla generazione di coloro che “sono stati concepiti in guerra e partoriti nella pace”. Fin da bambina, si sente “diversa”, nel suo quartiere bon-ton e nella sua scuola snob, per ricchi omologati, in netto contrasto con il guazzabuglio e il precario tenore economico della sua famiglia.
Le divergenze religiose e politiche si intrecciano e rimandano alle opere di James Joyce, care all’autrice. Vengono rievocati i diverbi tra lo zio socialista e il nonno fascista, il cui malcelato orgoglio per l’elezione del figlio al Senato della Repubblica è però una ennesima conferma del profondo affetto reciproco. Così il pranzo di Natale, in casa Marzola, è un capolavoro di diplomazia perché, per quanto possibile, va evitata ogni discussione con lo zio “mangiapreti” tanto più che, “nelle questioni religiose, tutti in famiglia [pensano] in modo diverso”.
Il senso pratico e l’istintiva saggezza prevalgono sulle posizioni di principio, come accade quando, nell’appartamento di via Mozart già abitato da un folto nucleo familiare, viene accolta anche Gabriella, la donna di stirpe ebraica reduce dalle persecuzioni razziali che Nino ha incautamente sposato e da cui avrà due figli, Giorgio e Alessandra. Bellissima figura, quella del padre Nino, un interior designer pieno di sogni e di talento, ma incapace di provvedere alla sua famiglia; un idealista che, nel bel mezzo della prima comunione della sua bambina, se ne va sbattendo la porta, disgustato dalla propaganda politica fatta dal pulpito. Quasi un eroe romanzesco, un personaggio sfaccettato con cui è imprescindibile venire a patti, ancor più dopo quella sua morte repentina che alla figlia fa varcare la sua prima soglia e che mette fine al libro.
In un mondo competitivo e spietato, pieno di atteggiamenti faziosi e ipocriti, sorprende la sostanziale sincerità dei membri di questa famiglia sui generis, consapevoli delle aspettative sociali ma mai, più di tanto, schiavi del compromesso. Forse per questo il tono della narrazione è privo di ogni cupezza: anche nei momenti più bui, il racconto mantiene sempre una levità, un fraseggio raffinato e scorrevole. Persino i due fugaci cenni scabrosi alla cupidigia maschile – malata, ma non pericolosa o scioccante – sono filtrati da uno sguardo al tempo stesso vigile e ingenuo, che suscita nel lettore un’ammirata empatia.
Tutti gli avvenimenti sono narrati a partire da una prospettiva femminile, lucidamente engagé pur senza essere succube di scuole, mode e stili di pensiero. Perché, non lo si deve dimenticare, qui si osserva la formazione di un’identità di genere, inscindibile dallo specifico familiare e contestuale. La narratrice riversa nel memoir molti indizi sul suo futuro io: il gusto per la lettura ad alta voce, l’attrazione per le lingue straniere (a cominciare dal latino), la raccolta di immagini pubbliche della famiglia reale inglese, le riflessioni sulla gestione del lutto e sulla labilità della memoria. Questi frammenti non vanno però interpretati in modo univoco, così come le fotografie riprodotte nel libro, istantanee di una vita che poi continua, e incessantemente si trasforma, anche quando sembra fedele a sé stessa.
Dopo la morte del capo famiglia, i vivi hanno il dovere di “risalire la china” e il desiderio di tornare al mare quanto prima, come Alessandra comunica alla madre nell’ultima pagina. Così, alla fine, la protagonista tredicenne si riappropria del suo nome, rifiutando l’appellativo infantile di origine toscana con cui tutti la chiamavano in famiglia: “Mimma”. Non è più una “bambina”, un essere fragile che va protetto, tenuto al riparo dalla sofferenza, come era accaduto in occasione della malattia del padre; ora la aspetta un futuro tutto suo, che potrebbe magari trovare spazio in un sequel. Ma intanto questo libro merita sicuramente un’attenta lettura, non solo per ciò che ci racconta di lei: in questa storia di donna, ciascuno può provare a rispecchiarsi.
Alessandra Marzola, “Gli anni diversi”, Iacobelli 2021
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Francesca Guidotti

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