PERSONAGGE: Figlia dell’aria

Mimma Stornanti, 25 novembre 2020

Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!

Figlia dell’aria

Di Mimma Stornanti

 

“Scinni! Giacoma, scinni, A mamma sta gghiamannu.”

“Ora scinnu. Chi sunnu bidditti! ‘Na meravigghia! Tu ne voi vidiri? Cchiana puru tu.”

“No, ne vogghiu vidiri. Ama nnari a casa. A mamma ni mmazza a tutti dui.”

Stava in cima all’albero in mezzo al cortile: aveva visto un nido e sentito dei pigolii di uccellini e non ci aveva pensato due volte e si era arrampicata. Mamma ci aveva vietato di salire sugli alberi, a me non importava del divieto, non ero interessata invece lei ai richiami non resisteva e i divieti non li teneva in conto.

Questa sorella mi ha dato problemi da quando è nata. Mi hanno messa a farle da angelo custode per i miseri due anni in più che avevo e per il mio carattere calmo e posato. I miei genitori si sentivano tranquilli e invece io impazzivo dietro a lei.

Era un animaletto, si muoveva nell’aria come fosse la sua casa, leggera, libera. Sorella degli alberi, le pianticelle dell’orto, i cespugli di margherite, le rumorose galline del pollaio, il vecchio cane di famiglia e i gatti che cullava come fossero le bambole che non avevamo.

I miei genitori erano all’antica, rigidi, seri: mia madre non le strappavi un sorriso neanche se la pregavi, era un armadio di legno duro, provate ad averci a che fare con un armadio. Mio padre una colonna di cui non vedevi la cima, muto e imperscrutabile. Erano la mia famiglia ma non sembravano quella di Giacoma, figlia dell’aria.

Difese come poté la sua natura: rifiutò di imparare tutte le attività da piccola donna, senza fare scene, con allegria fuggiva verso fuori verso il suo elemento. La scuola le fece scoprire un’altra passione, quella per le parole, la chiesa le spiegò che per essere voluti bene da Gesù era indispensabile fare quello che i genitori volevano. E lei, che voleva essere amata da Gesù e dai genitori, si obbligò all’obbedienza e alla compostezza rimanendo allegra, ingenua e sognante.

Divenne una ragazza attraente. Aveva lineamenti delicati, il corpo flessuoso e soprattutto, un sorriso dolce. Quando attraversavamo il paese per andare in chiesa molti sguardi si puntavano su di lei e parecchi giovani la chiesero a mio padre. Giacoma si scherniva, rideva, nessuno le interessava.

Fu la bellezza a farla capitolare: Ciccio veniva da un paese poco distante, si riforniva nel magazzino all’ingrosso di nostro padre e quando entrava accadeva qualcosa nell’aria, uno spostamento percepibile, gli occhi di tutti erano richiamati alla sua faccia da attore da fotoromanzo. Bruno alto forte lui, chiara esile aggraziata lei: si attrassero irresistibilmente.

Non si incontravano da soli. Ciccio era un fidanzato senza regole, senza orari. Certe sere arrivava quando noi eravamo già tutti in pigiama e ci dovevamo rivestire precipitosamente per ritornare nella camera da pranzo a presenziare il loro incontro. Portava cioccolatini e fiori come era uso. A Giacoma questi pensieri piacevano molto, a casa nostra i vezzeggiamenti erano considerati uno spreco.  Qualche volta lui le metteva il braccio intorno alle spalle e la mia mobile sorella improvvisamente si irrigidiva, sorrideva timidamente e diventava un palo. Quell’uomo le piaceva ed era contenta di piacere a lui ma in sua presenza diventava impacciata e muta. Lui a volte la sollecitava a essere più affettuosa ma lo faceva davanti a tutti e lei arrossiva violentemente.

Non sapevo che pensare: per me era normale che una ragazza fosse riservata e passiva con gli uomini, ma Giacoma quando era con Ciccio perdeva tutte quelle che io consideravo le sue qualità, quelle che la distinguevano da me, la vivacità, l’allegria, la spontaneità. Quando eravamo da sole non mi parlava di lui, avevo l’impressione che qualcosa la preoccupasse ma non volesse o non riuscisse a parlarne. Aveva dei dubbi? Aveva scoperto qualcosa di lui o di se stessa che la impensieriva? Aveva timore a confessare ai miei che non era più sicura di volersi sposare? Niente, non una volta fu messa in discussione la scelta. Nessuno di noi le chiese: “Giacoma, sei sicura?”. Eppure io sono convinta che anche i miei genitori si erano accorti che era cambiata.

Le cucii dei bei vestiti estivi (si dovevano sposare a giugno) e l’aiutai a completare il corredo di nozze già quasi del tutto pronto. In questi preparativi tornò allegra e scherzosa, quasi si sforzasse di considerare il matrimonio una eccitante avventura.

Ho davanti agli occhi il sorriso pieno che aveva mentre usciva dalla chiesa appoggiata al braccio di lui. Era come se davanti a sé splendesse una luce.

Andò a vivere nel paese di lui, a poca distanza dalla casa dei suoceri. Ci incontravamo la domenica quando insieme venivano a trovarci, me e i miei genitori. Visite brevi, lui fremeva perché aveva sempre qualcosa di importante da fare, lei vivace si rassicurava che fossimo in buona salute e non avessimo preoccupazioni per lei: i suoceri le volevano bene, i fratelli di Ciccio la trovavano simpatica, la sorella l’aiutava a fare il pane, la casa era piccola ma aveva un terrazzo e un giardino. Non si sentiva straniera in quel posto nuovo, era fra gente affettuosa e anche se a casa sua non arrivava il profumo del mare che amava era contenta lo stesso. Sorrideva. Di lui parlava poco: sta tutto il giorno fuori, torna tardi, lavora. Nel giro di due mesi si trovò incinta e assunse subito un’aria di attesa sognante.

Io mi ero messa a cucire per estranei, conquistandomi la fama di sarta rifinita. Le mie quotazioni si alzarono e presto arrivarono le richieste di matrimonio. Tentennai a lungo, nessun uomo mi sembrava attraente, mi piaceva la mia vita in casa piena di occupazioni ma rilassata. Temevo le responsabilità, avevo presenti gli inconvenienti dello stare con un uomo. Non ero avventata come mia sorella. I miei genitori non si davano pace: che avevo in testa? volevo restare zitella? si era sposata la matta e io che non avevo dato problemi volevo cominciare ora? Sorprendendo persino me stessa non cedetti alle loro pressioni. Un’inquietudine mi prendeva ogni volta che pensavo a Giacoma. Sentivo fortemente la sua mancanza, in modo quasi fisico. Mi sembrava che fosse in pericolo e non mi spiegavo questa sensazione. L’avrei capita molto tempo dopo.

Il travaglio durò un giorno e una notte. Io mi ero trasferita a casa sua alle prime avvisaglie e fu un tormento ascoltare le sue grida e i lamenti per un tempo che mi sembrò infinito. La bambina nacque maltrattata, la testa deforme per il lungo incanalamento. Lei appena ripresa, la guardò come se avesse una visione e infatti disse: “Che bella. Sembra un angelo”.

Mi fermai alcuni giorni per dare una mano, non avevo esperienza di bambini e più di tanto non potevo fare. Giacoma non era impacciata con la bimba, entusiasta lanciava gridolini di gioia a ogni sua espressione strana. In quei giorni ebbi modo di vedere che tutta la famiglia di Ciccio, compresa la suocera, era un po’innamorata di lei. Non si può dire che la coccolassero perché proprio non era nella loro indole ma non la lasciavano mai sola e la prendevano in giro affettuosamente.

Quello che non le faceva una carezza, un sorriso, non rispondeva ai suoi inviti a guardare le smorfie di Melina, il nome della nonna, era suo marito. Ciccio sembrava non sapere che fare con la neonata, aveva un atteggiamento imbarazzato e lo sguardo rabbuiato.

Nei giorni che trascorsi con loro anche il mio umore si rabbuiò: vedevo un uomo sgarbato, ostile e una giovane donna disarmata di fronte a un’ostilità incomprensibile. Mi feci l’idea che un tarlo rodesse la mente di Ciccio, le sue reazioni non avevano ai miei occhi alcuna spiegazione se non una mente disturbata. Tornai a casa dei miei molto pensierosa.

Poco tempo dopo i genitori di Ciccio vennero a trovarci. Con evidente difficoltà, cercando parole che non trovavano ci fecero capire che le cose tra Giacoma e Ciccio non andavano bene, lui aveva cominciato a essere violento con lei e a trattare male anche Melina. Loro volevano bene a Giacoma, sapevano che era una brava ragazza, che non lo provocava e che il problema stava nel carattere di lui che aveva cominciato a mostrare lati oscuri. Temevano per lei e per la bambina. Conclusero rivolti a mio padre: “Cumpari, è megghiu se viniti a ripigghiarivilla”.

I miei genitori non ritenevano fosse una buona idea: erano dispiaciuti, certo, ma riprendersi in casa una figlia sposata con una bambina era un concetto che la loro mente rifiutava. Per senso del dovere mandarono me a parlare con Giacoma, che indagassi su quale fosse la vera situazione, quali fossero le sue intenzioni.

Le chiesi come stava, se era vero che Ciccio era violento con lei e gridava alla bambina, se pensava di voler tornare a casa. Giacoma, come sempre, sorrise e guardando la sua bambina che dormiva dentro la culla, rispose: “Vai tranquilla e tranquillizza u patri e a matri. Jo sugnu a me casa. Idda è a me casa”.

 


 

Incontrarsi a distanza tramite la scrittura

di Nadia Terranova

 

“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.

[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]

 

Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.

Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.

Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.

Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.

Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.

Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.

Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.

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Mimma Stornanti

Siciliana di Messina. Classe 1958. Laurea in Scienze politiche. Trentatré anni di lavoro nel servizio pubblico iniziando dalla biblioteca e dagli uffici comunali del paese natale, Saponara, passando per l’Azienda Provinciale del turismo di Messina, tornando tra i libri presso la Biblioteca regionale Universitaria “Giacomo Longo” di Messina. In pensione dal 2011 si è dedicata alla promozione di libri e lettura per bambini e adulti, operando all’interno dell’associazione “Intervolumina”. In questi anni si è formata presso la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari e si è dedicata alla ideazione e conduzione di laboratori di scrittura autobiografica rivolti ad alunni della scuola secondaria inferiore e ad adulti. Il suo ultimo laboratorio, ispirato al libro “Casalinghitudine” di Clara Sereni, è stato bloccato dal lockdown e aspetta che passi la bufera per essere riproposto. Ha partecipato a corsi di scrittura condotti da Nadia Terranova.

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