Testimonianze al tempo del virus 3/ Vendere libri da indipendenti

Cecilia Arcidiacono

Prima di diventare una libraia, cosa che è accaduta circa due anni fa, pensavo che dietro al bancone di una libreria il tempo passasse tra infinite letture e piacevoli chiacchiere con lettrici e lettori affezionati. Forse questa idea ancora risentiva dell’immagine dei temerari librai nel paese in cui sono cresciuta che, a parte qualche sparuto lettore/trice o qualche ragazzino come me in cerca dell’ultimo volume di Harry Potter, non dovevano avere un gran da fare tra quegli scaffali pieni di classici, che respiravano polvere da anni.

Prima di diventare una libraia, non immaginavo di non aver letto così tanti libri, nonostante quelli che credevo dovessi leggere erano già tanti.

Prima di diventare una libraia non mi ero mai sentita attribuire l’aggettivo “coraggiosa” così tante volte – è pur vero che in vita mia non ho dato grandi prove di essere un cuor di leone.

Poi ho realizzato il perché di questo aggettivo, di quello che deve fare una libraia per continuare a fare la libraia quando si rende conto che i costi sono tanti e il margine che guadagna dai libri è altrettanto limitato. Soprattutto, prima di diventare una libraia non mi era così chiaro che, ancora prima dei libri, c’è una fitta rete di relazioni, contatti, idee da nutrire e coltivare per fare la libraia.

La vita di una libreria indipendente si nutre, infatti, delle trame di relazioni che la attraversano, che in qualche modo la plasmano e se ne lasciano plasmare in un continuo e benefico ciclo vitale.

Me ne accorgo in questi giorni in cui osservo dalla mia stanza quella quotidianità, ora spezzata dall’isolamento, che si univa al pulsare di una strada non ancora trasformata dal flusso del turismo che ha cambiato il volto del centro di Napoli negli ultimi anni. Ora quando penso alle mie giornate in libreria i colori delle immagini si fanno più vividi, più accesi e in contrasto al grigio opaco che, anche nelle giornate di sole, mi suscitano le strade, il quartiere, le serrande abbassate e quell’atroce silenzio che urla dai balconi.

Tamu, la libreria che ho aperto insieme al mio amico e socio Fabiano due anni fa, attinge al catalogo di molte case editrici indipendenti, con uno sguardo rivolto alla narrativa di autori e autrici provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, così come da altri sud come il nostro. Abbiamo anche uno sguardo rivolto alle questioni contemporanee, ai femminismi, alle migrazioni, alle questioni coloniali e postcoloniali, all’illustrazione, alle autoproduzioni eccetera. È una libreria frequentata da studenti, studiosi, persone curiose, engagé(é)s, talvolta turisti, pochi bambini e nonni.

Tra le cose che più amo di questo mestiere è scoprire nuove realtà editoriali, sbirciare tra i cataloghi, scegliere uno a uno i libri che si uniscono al mosaico di titoli e autori che parlano sicuramente delle nostre sensibilità e dei nostri interessi. È un esercizio di libertà che forse pochi mestieri possono permettersi e ne sono grata.

Ma ritorniamo al principio, cioè all’idea romantica del libraio e della libraia, seduti a leggere dietro il bancone di legno.

Sarebbe una falsità dire che quello della libraia sia un lavoro stancante – ce ne sono di ben più estenuanti ovviamente – mi preme però confessarvi che le ore dietro il bancone, più che dalle letture, sono scandite perlopiù da queste attività: rispondere alle mail, gestire i rapporti con case editrici e i distributori, fare ordini, rendicontare i libri venduti, pagare le fatture, ampliare il catalogo, organizzare le presentazioni dei libri e gli incontri, i gruppi di lettura, tenere attive le pagine sui social, organizzare i laboratori, creare contenuti e organizzare corsi di scrittura, quindi contattare autori e autrici, partecipare alle iniziative cittadine con banchetti di libri, oltre a gestire noiose faccende burocratiche. Ah, anche consigliare e vendere libri ovviamente!

In librerie indipendenti come la nostra, quel che i libri innescano, oltre alla lettura, è un continuo veicolo di relazioni e incontri. Lo dimostrano le iniziative organizzate in questi giorni da molti librai, così come dalle case editrici: incontri streaming, letture on line anche per bambini, giochi letterari. Un lavoro culturale importante in un momento in cui il bisogno di altre narrazioni, ma anche di riflessione sul presente, è più forte che mai.

Mi fa piacere notare come le librerie siano spesso citate come esempio di presidi culturali sul territorio, anche se non mi sembra che venga fatto molto per proteggerle dalle distorsioni economiche su cui la filiera del libro poggia, che va a tutto vantaggio delle librerie di catena e delle grandi piattaforme e-commerce.

Ho il presentimento che queste distorsioni saranno ancora più evidenti dopo il periodo di epidemia, che sta facendo emergere ancora più chiaramente le linee di classe, genere e colore insieme a varie forme di privilegio che dividono le nostre esistenze, che ampliano il divario tra chi il privilegio ce l’ha e chi no.

Nel settore del libro c’è il rischio che saranno gli anelli più deboli della catena a pagare le conseguenze economiche dell’emergenza e quindi proprio le piccole librerie e che potrebbero essere lasciate senza le condizioni adeguate per potersi riprendere dalla crisi.

Nei giorni che hanno preceduto le misure di isolamento forzato e di chiusura di buona parte delle attività commerciali, abbiamo cercato di adattarci alla situazione offrendo consegne a domicilio e Amuchina ai pochi temerari che passavano dalla libreria. Poi, con l’aggravarsi delle misure e il cambio repentino delle clausole dei decreti, abbiamo chiuso e iniziato a fare spedizioni. Mi ha lasciato un po’ perplessa la decisione di considerare i libri non come beni di necessità in un momento in cui nutrire la mente e il pensiero critico è di vitale importanza. Per non mettere a rischio corrieri e facchini, abbiamo deciso di vendere solo i libri già presenti in libreria, continuando così a spedirli alle poste.

Sono molti i lettori e le lettrici che ci hanno sostenuto in questo periodo, chiedendoci anche di acquistare i libri in anticipo e di recapitarli dopo il periodo di emergenza per evitare di farci esporre a situazioni a rischio di contagio. Ci è sembrato un atto di cura che testimonia ancora una volta come le relazioni siano la linfa delle piccole librerie.

In questo clima di isolamento, che per i privilegiati può essere un’occasione di raccoglimento, riflessione e talvolta, di paralisi, abbiamo stretto i contatti con altre tre librerie del centro storico, con cui nei mesi precedenti avevamo dato vita alla rete L.I.Re. (Librerie Indipendenti in Relazione) per organizzare una rassegna di tre giorni che si sarebbe svolta a fine aprile, con un fitto programma di incontri con autori e autrici, presentazioni di libri, tavole rotonde, passeggiate letterarie, laboratori, concerti. La rassegna verrà rimandata, ma intanto la rete in questi giorni è stata una risorsa vitale per non sentire i legami sfaldarsi e per resistere all’immobilismo o all’atomizzazione.

Per sostenerci, con gli altri librai stiamo collaborando alle spedizioni, condividendo i cataloghi e la rete di lettori e lettrici delle singole librerie. Abbiamo anche messo a disposizione alcuni titoli scelti dai nostri cataloghi, editi da case editrici indipendenti, il cui acquisto andrà a sostenere una cassa comune per far fronte all’emergenza.

Un’iniziativa che è stata accolta con calore da molti, sono arrivati già diversi ordini e manifestazioni di affetto e di incoraggiamento.

Creare e consolidare reti significa anche immaginare nuovi scenari proprio a partire da quelle vulnerabilità che in questo periodo di emergenza si fanno sempre più vivide e più difficili da ignorare. Mi risuonano spesso in mente in questi giorni le parole di bell hooks, femminista afroamericana, che definisce la marginalità come “luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza.”

Riferendosi all’esperienza della comunità afroamericana, ma anche all’esperienza di chi è scarto nella narrazione del mondo dominante, bell hooks intravede nel margine “un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi”.

È da queste possibilità del margine che mi piacerebbe ripartire adesso. Come libraia indipendente che si muove in un mercato del libro che ingrossa solo gli anelli già forti della catena. Come chi sceglie di stare al “margine” dell’industria culturale mainstream che appiattisce significati e parole. Come persona che pur godendo di molto privilegi rispetto ad altre, non può godere del privilegio del non lavorare per affrontare le spese vive come l’affitto.

Da questo margine voglio partire, per quando i colori saranno meno opachi e il silenzio avrà smesso di urlare e il distanziamento sociale sarà una questione di scelta.

(Prima di diventare una libraia non avevo mai letto bell hooks e solo per questo motivo, se tornassi indietro, sceglierei di diventare una libraia senza pensarci un attimo.)

 

bell hooks, Elogio del margine di, Feltrinelli 1998.

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Cecilia Arcidiacono

Cecilia Arcidiacono ha 28 anni, ha studiato Cooperazione Internazionale a Bologna e dopo erranze più e meno lunghe al di là del Mediterraneo, ha scelto Napoli come approdo. Qui due anni fa, insieme al suo socio Fabiano, ha dato vita alla libreria Tamu, dedicata alla letteratura dai sud e a saggistica con uno sguardo rivolto a temi di attualità.

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