La giovane scrittrice Lorena Spampinato ci racconta cosa è successo quando si è lamentata pubblicamente per la scarsa presenza delle donne nel futuro Catania Book festival, aprendo il confronto su un tema che sembra usurato ma è in realtà sempre motivo di riflessione.
A settembre apro il giornale e scopro con sorpresa che Catania ospiterà per tre mesi i Catania Book Days, una rassegna culturale che anticipa il Catania Book Festival, il primo festival del libro nella città etnea previsto dal 7 al 9 maggio 2020.
Bellissimo, ho pensato. Finalmente la mia città – da sempre patria di scrittori, poeti e artisti – ha il suo festival letterario. Non solo: leggo che il festival prevede per il suo lancio un ciclo di incontri con scrittori e personaggi illustri della scena culturale italiana.
Entusiasmata dall’idea vado subito a vedere il programma. La copertina è la prima cosa che salta all’occhio: lo spazio è dominato da foto maschili. Affino la vista, la trovo: una sola donna.
Ci risiamo. Tra i dodici autori invitati, undici di questi sono maschi.
Risentita, corro a scrivere agli organizzatori. Perché – chiedo – questa sottorappresentazione di un genere? È vero che nella letteratura e negli ambienti culturali contano le idee, ma possibile che queste idee le abbiano soprattutto gli uomini? Che il pensiero e la cultura siano di esclusivo appannaggio maschile? Oppure la statistica è frutto di un’incomprensione – di una dimenticanza?
La risposta degli organizzatori non tarda ad arrivare. Si scusano per la mancanza di autrici nella rassegna. Dicono che è stato fatto tutto di fretta, che alcuni impedimenti non hanno permesso la presenza delle scrittrici invitate, che per garantire la completezza del programma si è preferito chiedere ad alcuni contatti personali che in pochissime ore hanno confermato la partecipazione.
Poi accade ciò che non mi aspettavo: vengo invitata a partecipare a una riunione con l’intero staff organizzativo del festival. Per la rassegna di lancio è – ahimè – troppo tardi, ma vogliono che offra loro qualche idea, qualche spunto, per il festival di maggio. Nasce una collaborazione: io propongo alcune autrici, loro stilano un nuovo programma per il festival, questa volta ricco di scrittrici talentuose e voci autorevoli di donne del panorama letterario italiano. Non ci voleva poi molto.
Nel frattempo li conosco. Sono giovani, appassionati, ragazze e ragazzi neanche trentenni con il sogno condiviso di avvicinare la nostra città alla cultura. Capisco che davvero hanno fatto le cose di fretta, che l’intento è genuino. La colpa non è loro.
La colpa è di un sistema che vede ancora le donne come una sottocategoria socioculturale e la loro presenza a questi eventi un’eccezione tollerata, una concessione.
È il riflesso di una cultura che ancora esclude le donne, e se le include lo fa per avere l’opportunità di agganciare quella fetta di pubblico solo femminile fatta di donne che parlano di donne. È il frutto di una lunga serie di scelte politiche e sociali che continuano a impedire la distruzione di un modello atavico in cui l’autorevolezza culturale è un dono collegato al solo genere maschile. È l’immagine che viene fuori da programmi scolastici che hanno reso invisibile non solo la scrittura femminile, ma l’estro e il talento di un intero genere, lasciando fuori dalla nostra formazione artiste, scienziate e premi Nobel.
Un’immagine ingiusta, discriminatoria, anacronistica, eppure percepita come naturale.
Il problema della disparità di genere all’interno dei festival è reale, e lo è tanto di più quando questa sottorappresentazione non è neanche avvertita.
Non è retorica, è un fatto: le donne hanno meno spazi di evidenza pubblica, e se li hanno si tratta spesso di un’apertura forzata. La voce femminile, inoltre, fatica maggiormente a trovare attenzione e ascolto, cosa che non accade invece alla controparte maschile. Quando si fa sentire viene guardata con sospetto, non è presa sul serio, oppure è osteggiata in modi diversi.
Il risultato è uno squilibrio, un’asimmetria che pesa su ogni nostra possibilità di crescita e di cambiamento.
Anche per questo il lavoro che hanno fatto i festival femminili come la tre giorni di inQuiete – Festival di scrittrici a Roma è prezioso, perché mette in scena un’alternativa, un mondo possibile: un universo equo, femminista, antipatriarcale, dove le tante donne che scrivono e pubblicano nel nostro Paese hanno lo spazio e il tempo di farsi sentire non in quanto donne, ma in qualità di professioniste talentuose.
Non sono un caso il grande successo di pubblico e di critica e i numeri record. Questi luoghi di decostruzione e ricomposizione del femminile ci aiutano ad aggirare gli stereotipi e a costruirci uno sguardo multiforme e plurale che si affranchi una volta per tutte dal pensiero unico maschile.
È questo di cui abbiamo bisogno. Alla cultura non servono quote rosa, ma spazi liberi da pregiudizi e idiosincrasie, visioni differenziate, eccezioni alle regole, azioni di resistenza, apertura alla complessità. Il sistema cambia solo quando il problema si avverte, entra nel dibattito pubblico, politico, filosofico; si manifesta nel vivere sociale, e non per gentile concessione di una parte. Quando queste donne rese mute – annientate, dimenticate – trovano il modo di svelare il soffitto di cristallo e tracciare nuovi scenari, produrre visioni a cui non siamo abituati.
Le donne di talento che scrivono e pubblicano in Italia sono moltissime e soprattutto hanno tanto da dire. Non facciamole sparire dai giornali, dalle antologie, dagli eventi culturali. I festival letterari servono proprio a questo: a raccontare il mondo attraverso la letteratura. Eliminare le donne dai programmi vuol dire dimenticare una parte importantissima della narrazione.

Lorena Spampinato

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