Vi sarà successo di rileggere a distanza di tempo il vostro diario, amico prediletto, e che questo vi appaia “incolore” e persino “retorico”, e vi sarà successo, a me sì, di sorridere considerando che in fondo, quando lo scrivevate, avevate solo 15 anni.
La stessa considerazione, dettata dalla consapevolezza della propria fragilità dovuta alla giovane età, seguita dall’invito “ad aver pazienza” rivolta a futuri lettori immaginari, diventa spiazzante, fino alla commozione, se la leggiamo sul diario scritto “in fretta, con un mozzicone di matita, con cinque minuti di tempo alla volta”, durante “un viaggio verso l’ignoto”, da una ragazzina di 15 anni strappata con la forza dalla famiglia e deportata per lavoro coatto, col suo vestitino estivo e i sandali, in un paese lontano miglia e miglia dal suo. Il luogo, un lager, le è talmente sconosciuto, da riportarlo nel diario ortograficamente sbagliato: l’agher.
La ragazza si chiama Magda Minciotti, e appartiene a una famiglia antifascista di Chiaravalle. E’ stata presa per rappresaglia al posto del fratello maggiore insieme al quale, malgrado la sua giovane età, ha disinnescato le mine su un ponte per favorire l’arrivo degli alleati; il luogo “ignoto” a cui è destinata è una fabbrica bellica della Siemens a Norimberga; l’anno è il 1944, mese di luglio, e l’invito ad aver pazienza lo annota, tornata a casa, nell’agosto del ’45, ricopiando il diario scritto inizialmente sul retro di un blocchetto di ricevute scadute, trovate per caso in una baracca.
Sono passati solo 15 giorni dalla deportazione, e sul diario, leggiamo: “la Magda scettica, vivace, timida nello stesso tempo, è diventata una donna … scorgendo per la prima volta gli abissi della vita”. L’aiuterà a non perdersi e a non farsi “toccare dalle bassezze” “quella corazza di acciaio” che la tiene “ai ceppi” e il pensiero costante alla madre, alla quale vuole talmente bene da “non saper dire quanto”.
Malgrado la paura, il freddo, la fame, la miseria umana e materiale che la circonda, Magda non riesce a sottrarsi all’emozione che l’assale durante il viaggio che la condurrà nella “città dei giocattoli”, “nello scorgere in lontananza le Prealpi”. E più avanti in quei foglietti, con una calligrafia minuta per occupare meno spazio possibile, confesserà di non riuscire a odiare quella terra sconosciuta perché le ha insegnato “ad amare l’inverno, il freddo, il ghiaccio”. E’ persino certa che ne conserverà un ricordo caro quando tornerà “nell’umido e soffocante calore del meridione”.
Giunta a Norimberga la mettono a lavorare “al trapano”, e lei si fa coraggio pensando che quando si sarà abituata le piacerà, fino a dichiararsi “orgogliosa” quando riceve i suoi primi 39 marchi per tre settimane di lavoro a 11 ore al giorno. E’ disposta a sopportare tutto, anche la schiavitù, ma non i pidocchi, di cui si vergogna. E poi, ai suoi capelli corvini raccolti in due lunghe trecce tiene moltissimo, e per salvarli è pronta a vendere il suo amato, fedele orologio in cambio del petrolio col quale disinfestarsi la testa. Se fosse costretta a tagliarli, scrive, “la mamma ne piangerebbe”.
Per superare l’orrore e la nostalgia della casa che la sera si fa insopportabile, s’immagina “di essere protagonista di qualche romanzo” e in questa veste si lascia accarezzare la mano da Franz, un giovane innamorato. Affolla le pagine del diario dei nomi e delle storie di ragazze con le quali intreccia relazioni, e che le fanno compagnia, seppure i continui spostamenti non glielo permettano. Sono “francesi russe slave: per scambiarci una parola adoperiamo il tedesco”, scrive. E poi ci sono le italiane: “Laura, testarda e di gran cuore”; Amelia che “vive di filosofia e di illusioni”; Rosina che vuole farle credere di essere agiata e invece è arrivata “senza scarpe e vestita men che alla buona”; “la Gina, bionda e bruttina”.
L’8 agosto, sul diario diventato suo rifugio, annota di un tedesco “molto alto, un vero tipo nordico” – ma la cui stirpe più avanti chiamerà “di pupazzi biondi dal cuore di salice” – che “quando distrattamente lo guardo mi sorride”. Lo stesso sorriso con cui guarderà, sorridendo, un serbo che le dà un pezzo di pane: nei seguenti cinque minuti di pausa dal lavoro, scrive: “Forse lo crederete ridicolo ma questo semplice atto mi commuove”.
Quel poco della città che riesce a “intravvedere dalla minuscola finestra della baracca” le piace, la immagina in primavera e riesce a gioire di un raggio di sole che fa capolino tra le nuvole in un freddo giorno di febbraio, a Bayreuth.
Questo sguardo innocente e luminoso di Magda sul mondo che la circonda, fatto d imperio e di forza; questo sguardo che il primo dell’anno del 1945 guardando la neve illuminata da un sole debole la farà sentire “sommessamente felice” e giocherà divertita “inzuppandosi di neve fino alle ossa”, mi ha continuamente rimandato a quello amoroso e compassionevole di Violetta nella tragedia incompiuta di Simone Weil Venezia Salva. Uno sguardo che sa vedere la bellezza anche laddove è nascosta e apparentemente sepolta per sempre, che salverà Venezia, così come aiuterà Magda a mantenere una misura umana in mezzo all’orrore, contribuendo alla sua salvezza.
Il diario, che intitola “Le mie prigioni”, Magda riuscirà a riportarlo a casa e lo ricopierà “in bella” in un quaderno a quadretti nero coi bordi rossi, perché le peripezie sopportate l’hanno reso “stracciato e sporco” dell’olio della macchina su cui ha lavorato sette mesi. Lo copia soprattutto perché un giorno “bisognerà raccontare la nostra Odissea”.
Ma questo non succederà.
Magda quel diario non lo farà leggere a nessuno perché, come è successo a molte e molti deportati, si preferisce dimenticare. Per pudicizia, le donne soprattutto, per timore di essere giudicate, o di non essere credute.
Verrà consegnato settant’anni dopo dal figlio di Magda, Giorgio, grazie a “un circolo di fiducia”, ad una storica, Anna Paola Moretti, affinché lo pubblichi.
“Nessuno della famiglia era a conoscenza del diario, né mia madre parlava mai di quel periodo” dirà la figlia alla presentazione del libro che riprende nel titolo la frase di Magda Considerate che avevo quindici anni – Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione con l’illuminante introduzione di Luciana Tavernini della “Comunità di storia vivente” di Milano.
Il diario, definito da Tavernini “un esempio di resilienza femminile a situazioni di sradicamento”, ma che al contempo “ci permette di cogliere quanto ancor oggi il “libero” spostamento di migranti e profughe/i sia di fatto coatto”, si chiude a pagina 77.
Seguono ben 220 pagine nelle quali Anna Paola Moretti, che collabora con l’Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino sul tema della memoria della deportazione femminile, ci offre una ricostruzione “minuziosa e al contempo empatica” degli eventi vissuti dalla protagonista, e del contesto storico, attraverso le “tracce e cancellazioni” della stessa Resistenza marchigiana che nei documenti non cita nemmeno il nome di Magda Minciotti, il ritrovamento e la consultazione di carte private, fotografie, interviste ai sopravvissuti e viaggi nei luoghi della memoria. Ma anche attraverso un mai interrotto dialogo con se stessa, in perfetta sintonia con la Comunità di storia vivente, la cui ricerca è finalizzata a “interrogare se stesse e i nodi nascosti per portare alla luce nuove categorie per illuminare il quadro storico”.
Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni – Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, collana di ricerche storiche dell’Istituto Storia Marche, Ed. affinità elettive, pp.313, € 18,00.
Simone Weil, Venezia Salva, a cura di Cristina Campo Adelphi, 1987
PASSAPAROLA:









Gisella Modica

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