Il 23 Marzo ci ha lasciate Mirella Bentivoglio (Klagenfurt 1922-Roma 2017) poeta, artista visiva e inesauribile promotrice di cultura che per più di cinquant’anni ci ha parlato, con il suo lavoro, dell’impronta femminile del mondo. Anche il suo impegno critico e curatoriale, infatti, volto alla ricerca e alla valorizzazione della produzione estetica delle donne, ha accompagnato fin dagli anni ’70 la sua produzione artistica, in un percorso chiaramente segnato dal femminismo.
Siamo lontane, tuttavia, da un’idea di arte portatrice di messaggi ideologici o dalla mera rivendicazione di una maggiore presenza femminile nel mondo dell’arte; piuttosto il suo lavoro -curatoriale ed artistico- ha gettato luce, in modi nuovi ed originali, su questioni politiche ed estetiche che, a partire da quegli anni, hanno attraversato in particolar modo l’arte delle donne e di cui l’artista, nel corso del suo lungo impegno intellettuale, è stata espressione.
Nasce poeta, tuttavia, Mirella che nel 1943 pubblica il suo primo libro di poesie1, ma presto sente l’urgenza di un’espressione diversa, polimorfa, capace di andare oltre la parola, verso la visualizzazione del linguaggio.
Questo percorso ha inizio nella seconda metà degli anni ’60, quando l’artista comincia a giocare con le parole staccandole dalla frase, isolando sillabe e lettere, per poi combinare lettere dell’alfabeto, parole, immagini e oggetti in un gioco sapiente di correlazione fra linguaggi -verbale ed iconico- che si completano in una dimensione simbolica.
I primi lavori, a partire dal 1966, sono solitamente collocati nell’ambito della Poesia Concreta2 ma in breve la ricerca di Bentivoglio porterà sempre più in primo piano la dimensione visuale incrociando il cammino intrapreso, già dalla metà degli anni ’60, dal movimento fiorentino della Poesia visiva3. In quegli stessi anni l’artista andrà elaborando le sue forme personali di poesie-oggetto e di libri-oggetto per poi passare alla performance, alla poesia-azione, alla poesia-ambiente.
Fin dagli inizi giocosità e sensibilità poetica costituiscono la dimensione prevalente dell’arte di Mirella. Dalla riflessione sul linguaggio, facendo leva su accostamenti mentali inediti e slittamenti di senso, prendono forma un’infinità di giochi di parole-immagini di grande gradevolezza e arguzia. E’ il caso, ma sono solo alcuni esempi, della cartella Monumento del 1968, realizzata con Annalisa Alloatti, in cui l’artista scompone il Monumento ricombinando le lettere che formano la parola e trovando altri termini che contribuiscono a minarne l’identità, fino alla sua completa decostruzione; o del gioco di Amputazione (1971) della lettera finale e che trasforma il piacere -in tedesco Freude- in Freud; o ancora -e siamo già nel 1997- della Perdita di senso che si realizza per la rottura a metà di un cartello stradale che indica il “senso unico”.
L’opera di Bentivoglio, tuttavia, sembra resistere a ogni facile assimilazione. Ricordando come l’artista stessa abbia sempre «rivendicato per sé una libertà totale di mosse», Renato Barilli la definisce infatti «concreta e visiva allo stesso tempo, … [la sua opera] supera entrambe le fasi verso un effetto totalizzante, pronto a valersi di ogni mezzo, ma per inseguire un fine fortemente unitario».4 E giustamente il critico propone di evitare la contrapposizione concreto/visivo mettendo l’accento su «una parola di antichissima origine … simbolo … portentoso convertitore tra la sfera dei significanti e quella dei significati».5
L’uovo, l’albero, il libro saranno i simboli intorno ai quali l’esperienza estetica di Bentivoglio ruoterà sempre, ma dove si colloca/da dove trae origine la sua libertà totale di mosse?
È Mirella a svelarci che la sua attenzione per il linguaggio cambia con la maternità e la nascita delle sue figlie. È il rapporto con le bambine che la porta a scoprire da un lato una nuova qualità di un linguaggio verbale privo di sintassi ma ricco d’immagini, dall’altro una nuova valenza di quello visivo, grazie all’osservazione dei disegni delle figlie. L’intero processo linguistico è, quindi, sottoposto a riesame, per verificare la fisicità della parola, ripartendo da zero e riconnettendo parola/segno/immagine. Dice infatti l’artista in un’intervista: «Avevo completamente perso un buon rapporto con il linguaggio codificato. Sentivo il bisogno di dilatare qualcosa e di contrarre altro … di dare meno spazio alla parola e più al significato. Ma non sapevo come … era come camminare sulla luna … non avevo modelli da seguire. Per fortuna le mie bambine mi hanno guidata: mi hanno aiutata a trovare la strada».6 E ancora: «lo ho tre figlie e se sono diventata artista lo devo proprio alla maternità. Infatti tutta la problematica del linguaggio – cosi importante nel mio lavoro – è una scoperta che mi deriva da quella comunicazione particolare che una madre stabilisce con i figli».
Essere artista ed essere madre sembrano, dunque, sostenersi a vicenda; stringendo la relazione fra espressione artistica e vita personale, Bentivoglio cancella la distanza tra vita e lavoro, un atteggiamento comune, in quegli anni, anche ad altre artiste (e a qualche critica) che, seppure con scelte linguistiche diverse, condividevano analoghe istanze. Con il linguaggio della politica delle donne potremmo parlare di “partire da sé”, della connessione fra “personale” e “politico”: il neo femminismo degli anni ’60-’70 portava, infatti, nuove parole che anche le artiste avvertivano la necessità di pronunciare.
A differenza di altre, tuttavia, per Mirella Bentivoglio non si tratta di aderire esplicitamente al movimento, sebbene inizi proprio in quegli anni il lavoro critico con le artiste definito, dalla stessa Mirella «la lunga avventura dei censimenti annuali»7: quelle esposizioni di sole donne, spesso definite, in termini negativi, “mostre – ghetto” e che, a partire dal 1972 con la prima mostra al Centro Tool di Milano, avrebbero costituito un appuntamento ricorrente non solo per promuovere il lavoro di altre donne ma anche per una vera e propria ricerca di senso.
L’esplorazione della scrittura e la ridefinizione del linguaggio, una tematica che in quegli anni coinvolgeva anche artisti, sarebbero diventate per Mirella il campo specifico in cui cominciare ad individuare «alcune costanti dipendenti dal particolare approccio della creatività femminile nei confronti del linguaggio-immagine»8, il luogo in cui ricercare i segni di un’altra creatività: “Credo, per toccare un aspetto che mi sta molto a cuore, che il primo libro-oggetto sia di una donna … Tra il ’12 ed il ’14 risale il primo libro-oggetto con un bottone cucito sulla copertina e tra i collaboratori c’è la Rozanova. Tu credi che l’idea di attaccare un bottone possa essere venuta ad un uomo?»9 avrebbe ricordato in un’intervista del 1994.
Fondamentale in tal senso è stata l’esposizione Materializzazione del linguaggio, curata da Bentivoglio come evento a latere alla Biennale di Venezia del ’78, con in mostra 80 artiste del ‘900 -italiane e straniere- tra cui la stessa Mirella. Partendo dagli esperimenti verbo-visivi di alcune delle protagoniste delle avanguardie storiche, passando per l’esposizione di materiali appartenenti alla “produzione anonima” delle donne, fino ai lavori delle contemporanee, Bentivoglio metteva a fuoco il rapporto linguaggio-oggetto e linguaggio-immagine nell’esperienza artistica femminile e rendeva visibile la «continuità simbolica con le donne che ci hanno preceduto».10
Cercare la donna tra linguaggio e immagine implicava, tuttavia, esaminare anche l’incontro con l’uomo, il confronto fra il mondo maschile del logos -linguaggio e legge- e quello femminile della mater, madre e materia, non a caso il termine materializzazione, usato nel titolo della mostra allude nel suo tema radicale ad entrambe le dimensioni. Bentivoglio legge il rapporto delle donne con la parola e il linguaggio come esperienza originaria, personale e profonda, estranea al formalismo dei significati regolamentati dal maschile11, riscontrando nelle pieghe di alcuni lavori delle artiste una contrapposizione tra significati “codificati” -l’idea astratta dell’oggetto- e i significanti -le qualità fisiche dell’oggetto stesso. Ecco allora che nella «ricerca di un varco auto-espressivo, che contrabbandi mater (il mondo originario, la matrice; il referente silenzioso, il vecchio significante) attraverso l’ubbidienza a pater (i significati codificati; i dogmi vigenti nella società patriarcale)»12, Bentivoglio trova l’esistenza di alcuni fattori costanti nell’espressione poetica femminile. Li definisce in termini di scelte, «specularità, circolarità, complementarietà, primarizzazione sottile o violenta»13, e di procedimenti -«svuotamento e semplificazione»14, identificando, infine, la qualità della comunicazione poetica femminile nella combinazione di segno linguistico ed immagine della materia: «e in questa mostra il linguaggio, trasformandosi in fili di materia o d’inchiostro, diviene ciò che esso è prima di tutto: suono».15
Come evento collaterale alla Biennale, l’esposizione ha grande eco e l’anno successivo, il 1979, il “censimento” di Bentivoglio approda alla Columbia University di New York con la mostra From Page to Space. In seguito Mirella avrebbe scritto che «le mostre-ghetto degli anni ’70 hanno portato frutto. Hanno permesso di far concretamente conoscere la qualità del lavoro femminile e hanno attivato scambi d’informazione. Forse l’espressione derisoria con cui questo tipo d’esposizioni venne battezzato si codificherà in segno positivo proprio come le definizioni Impressionismo e Cubismo che, nate da ironizzazioni critiche, entrarono a pieno diritto nel nobilitante vocabolario della storia dell’arte».16
Agli inizi del suo impegno critico, anche la stessa presenza di Bentivoglio sulla scena dell’arte era piuttosto recente. Mirella, infatti, aveva appena cominciato a costruire il suo lavoro con il linguaggio usando come immagine la parola, una per volta, se non addirittura solo alcune lettere/forma, poche ma virtualmente capaci di grande potenzialità comunicativa a livello simbolico. E’ il momento del lavoro con le lettere O, E ed H ognuna portatrice di un significato preciso.
Uno dei primi prodotti è l’opera grafica del 1966 HO=gabbia , che visualizza l’idea di possesso, la prima persona singolare del verbo avere, come una prigione. La H infatti è qui usata come forma grafica per definire una struttura chiusa, una gabbia appunto di cui la O si configura però come l’apertura. Dal punto di vista visivo, infatti, la lettera muta si presenta come «il segno dell’astrazione, della separazione, della ripetitività e dell’organizzazione» mentre la O appare «sfuggente, fisica, sonora, unica, il segreto della manifestazione universale».17
Il lavoro con le E si presenta invece, fin dall’inizio, come l’esatto opposto: E=congiunzione (fig.3), la serigrafia del 1973, esprime visivamente, nella concatenazione delle forme che si incastrano l’una nell’altra, l’idea della connessione, dell’unione, del legame necessario con l’altro. Non solo vocali ma, in italiano, pure parole, O ed E divengono, per Bentivoglio, anche modello di relazioni umane: la E in quanto elemento di congiunzione, di rapporto, di società18, la O di alternativa, di esclusione, di individualità.
Ed è dal tentativo, fallito, di tradurre in forma scultorea E=congiunzione (glielo aveva richiesto il direttore del MAC di San Paolo nonché curatore della Biennale del 1973 dove la serigrafia era stata esposta e acquistata dallo stesso museo) che deriveranno le successive combinazioni di E in disegno e in piccole forme tridimensionali in legno attraverso le quali, nelle diverse composizioni proposte, l’artista metaforizzerà differenti situazioni di rapporti umani, di coppia e sociali, rapporti non solo felici ma anche sbagliati, mancati, di predominio. Nascono così, a partire dal 1973, le Variazioni sulle E: Congiunzione felice, Scontro frontale, Mutilazione per accentuazione ed altre da cui si svilupperanno, nel decennio successivo, anche alcune installazioni ambientali, a definire intriganti “paesaggi alfabetici” (Il predominio sull’altro, 1977 a Gubbio nel 1981).
Negli anni ’70, Bentivoglio svilupperà il percorso esplorativo sulle potenzialità comunicative a livello simbolico della O, sempre più forma aperta a significati plurimi, portatrice di altri sensi e concetti: l’idea dell’origine, la rappresentazione dello zero, le coppie oppositive di vuoto/pieno, nulla/tutto. E da qui approderà alla forma ovale, all’immagine dell’uovo, simbolo universale e sacro, da sempre, nella storia dell’arte, una delle strutture originarie che hanno connesso civiltà e culture anche molto distanti fra loro, archetipo che ha dato espressione visiva ai miti cosmogonici sull’origine dell’universo, al concetto simbolico della rigenerazione e della rinascita, all’idea stessa della creazione artistica.
Da allora l’uovo costituirà una costante della produzione visiva di Bentivoglio.
Nelle prime opere, la forma-uovo ora evoca il potere creativo dell’inconscio (Uovo e portauovo, genesi e cultura, 1971), ora interagisce con la parola per giocare con ironia sulla condizione umana nella cultura dei consumi (Il consumatore consumato uomo à la coque, 1974) (fig.4) o ancora si libera della materia per ridursi al segno matematico dello zero, da cui si immagina derivino gli altri numeri e che costituisce espressione insieme di «regressione e potenzialità»19 (Zero al quadrato, zero tagliato, 1974).
Intanto, l’artista ha già iniziato ad impiegare la pietra, in particolare nella forma del libro, altro elemento ricorrente e ulteriore figura archetipica, segno specifico della dimensione intellettuale, della cultura. Così il libro/scrittura si fa vero e proprio materiale da costruzione della cultura, come si legge nel libro fatto di laterizi. E sono davvero tanti gli esempi cui la straordinaria capacità inventiva di Bentivoglio darà origine; fra questi: l’Ultima poesia al cielo (1975) dove l’artista gioca con la venatura dell’onice che diventa nuvola, il libro del 1983 A Edgar Allan , in cui scherza con la parola Poem (poesia) dalla quale cancella la m generando così Poe, il cognome dello scrittore cui è dedicato il libro, o ancora I due silenzi del 1986 che allude alla parola come segno che accomuna il libro e il labbro, anch’esso in marmo, che vi si sovrappone.
Il libro di pietra si presenta, dunque, come espressione sintetica della contrapposizione tra natura e cultura, natura e scrittura: un’immagine fuori dal tempo, nel richiamo alle tavole della Legge20 e ancora nel riferimento alla pietra tombale, un’immagine che, in questo senso, costituisce l’opposto della forma ovale, visualizzando l’antitesi vita/morte.
L’integrazione di uovo e pietra è, infatti, spiegata da Bentivoglio proprio come necessità di ricomporre la contraddizione fra «inizio e fine, materia e logos, genesi e cultura, fragilità e fossilizzazione … Ho concepito uno di questi lavori in cui l’uovo si combina con la pietra per un luogo che ha un forte significato simbolico».21
Si tratta dell’Ovo di Gubbio, una grande struttura in frammenti di pietra elaborata per la Biennale che si svolse nella città umbra nel 1976 e poi donata alla città.
E’ la stessa artista a delineare i diversi riferimenti tematici esterni all’opera e a guidarne l’interpretazione22. Da un lato c’è la leggenda dell’incontro a Gubbio fra San Francesco e il lupo, identificato, a partire da una ricerca iconografica condotta dall’etnologo Giancarlo Gaggiotti, con una lupa, termine che in latino significa prostituta. San Francesco avrebbe dunque parlato ad una prostituta, figura che nella cultura patriarcale, evidenzia Bentivoglio, delinea la donna-oggetto per eccellenza. A un primo livello di analisi allora, l’Ovo di Gubbio rappresenta simbolicamente «un accordo di pace fra uomo e donna nel segno dell’uguaglianza».23
Un secondo rimando è alla festa dei Ceri che si svolge a Gubbio ogni anno a metà maggio, secondo una tradizione che affonda le sue origini nelle celebrazioni pre-cristiane della fertilità. L’ovvio richiamo alla forma fallica dei ceri attesta la natura, tutta maschile, della festa. È per questo che Bentivoglio sceglie di collocare il suo ovo in un piccolo slargo lungo il percorso della processione dei ceri, ad evidenziare «il primo inserimento di un segno femminile in luoghi tradizionali di cerimonie della fertilità, finora considerate riti esclusivamente maschili».24
L’ultimo riferimento riguarda il rivestimento, in frammenti di pietra, dell’ovo; uno di questi porta l’iscrizione All’adultera lapidata, ad esplicitare la combinazione fra l’uovo, simbolo di vita, e la pietra, arma di morte nella pratica patriarcale della lapidazione.
Tanti piani di significazione, diversi livelli di senso caratterizzano, dunque, un’opera con la quale per la prima volta in Italia, il paesaggio urbano è stato contrassegnato da un’immagine potentemente simbolica del femminile e da un discorso chiaramente segnato dal femminismo25.
Nello stesso momento e sempre a Gubbio, l’elaborazione poetica di Bentivoglio mostra ulteriori sviluppi nell’ottica della ridefinizione di un rapporto fra arte e pubblico che punta ad estendersi oltre i confini dei luoghi solitamente tradizionali dell’esposizione.
La performance Gubbio 76 Poesia all’albero costituisce, infatti, il primo intervento che segna il territorio. Orientata da un’intenzione politica ed ecologica -salvare dallo sradicamento gli alberi usati a sostegno delle vigne- l’azione si è sviluppata a partire dalla collocazione di uno di questi olmi, ormai morto, al centro di una piazza cittadina, con lo scopo di farlo rivivere grazie al gesto dei passanti chiamati a scrivere il proprio parere sulla vicenda in foglietti da appendere all’albero, a sostituire le foglie cadute: il foglio come foglia, la scrittura come nervatura.
L’azione sarebbe stata completata tre anni dopo, nel ’79, quando l’albero, del tipo potato a candelabro, veniva privato del tronco e capovolto, a formare una sorta di cupola sotto la quale Bentivoglio avviava, insieme al pubblico, la lettura della poesia collettiva costruita, dall’artista, ordinando i foglietti dei pensieri in modo tale da «iniziare con parole di sorpresa e di gioia e man mano arrivare, attraverso espressioni di pietà, al rifiuto e all’insulto. L’evento della lettura ha rovesciato l’ordine dei versi così come aveva rovesciato l’albero: da rimpianto alla presenza, rigenerata dalla parola. In tal modo la poesia, intesa specularmente nei due ordini, è diventata anch’essa una realtà circolare».26 L’Albero Capovolto del 1979 sarebbe poi diventato nel 1984 Logos, una fusione in bronzo dell’elemento naturale, dando forma perenne all’archetipo dell’albero della conoscenza.
Ma è l’Operazione Orfeo del 1982 che ripropone l’immagine-emblema della vita con la quale Bentivoglio mostra l’origine femminile del mondo: l’artista infatti feconda una profonda caverna del Monte Cucco, in Umbria, collocandovi una grande scultura-uovo in cemento. E l’archetipo si legherà ancora alla storia delle forme dell’ambiente storicamente costruito nella terra dei trulli, la Valle d’Itria. Nel 1979, infatti, Mirella elabora per Martina Franca il progetto dell’Uovo-trullo che purtroppo non sarà realizzato. Rivestito con le pietre dei trulli, il grande uovo «dedicato alla matrice della casa» intendeva trasformare la forma patriarcale del mezzo uovo, caratteristica della costruzione tradizionale, nell’uovo totale che, collocato in via Perla vicino ad una fontana, avrebbe ulteriormente sottolineato, nell’associazione con l’acqua, il riferimento al simbolico della nascita e del femminile.
L’operazione di svuotamento della forma-uovo prenderà, invece, corpo a partire da un’opera del 1984, Da uovo a zero, elaborazione di un’antica mappa birmana del ‘400 che rappresenta un mondo ovale che ha al vertice un piccolo “albero della conoscenza”, simbolo del Logos: fin dove arrivano le sue radici l’uovo/mondo rimane integro mentre più in là, la superficie terrestre si sgretola in tante amigdale preistoriche la cui forma ricorda le pietre che rivestivano l’Ovo di Gubbio. Ed è la stessa artista ad esplicitare il senso di questa configurazione, visualizzazione simbolica «dell’azzeramento dell’emisfero femminile che il patriarcato ha sottratto al Logos, sfera della pubblica parola, della pubblicazione, della conoscenza organizzata, lasciando la cupola sospesa senza base a custodirne il nulla».27
Sempre alla scultura eugubina, in particolare al suo scheletro ligneo, rimanda l’Hyper Ovum del 1986, una struttura di spicchi ricurvi, una gabbia-uovo in legno che custodisce al centro ancora un uovo: se questo, infatti, è segno di continuità «che cosa può contenere se non un uovo?».28
In questo gioco di richiami alla forma ovale non mancano, ovviamente, i riferimenti alla storia dell’arte29 e il dialogo, anche formale dell’Hyper Ovum con il Piero della Francesca della Pala di Brera si fa esplicito nel collage Lapide al buco nero (1987) o ancora nell’installazione in cui un uovo di terracotta bianca viene fatto pendere dall’Albero capovolto che qui assume il valore di un vero e proprio tempio.
Nel 1983 la forma-uovo è assunta anche come seme, simbolo della vita che rinasce, nell’opera Il seme di O, dove il riferimento all’ovale diventa doppio: una grande lettera O, disposta a terra, porta al suo interno il piccolo uovo-seme.30
In realtà, la grande O è già presente in una foto degli anni ’70 in cui l’artista compone un’immagine di sé in piedi e con la gamba sinistra che esce dal foro della grande lettera. Ne risulta una rappresentazione concreta del pronome io in cui Mirella non figura con la sua opera bensì è la sua opera. Quest’immagine fotografica sarà poi trasformata, nel 1979, nell’autoritratto verbo visivo Io , oggi agli Uffizi, che Bentivoglio spiega così: «Come ebbe a scrivere la filosofa francese Simone Weil, tutto ciò che ognuno di noi in realtà possiede in questo mondo è soltanto la possibilità di dire “io”. L’immagine del nostro volto non contiene la nostra consapevolezza, poiché tutto ciò che ognuno di noi può conoscere della nostra immagine è soltanto il riflesso di uno specchio, o comunque il prodotto di un diaframma esterno, come la fotografia. Perciò il vero autoritratto di un artista visivo, quale io sono, non può consistere che nella breve parola “io”. Un dittongo che, per il presente collage, ho identificato nell’immagine della mia persona. La posizione eretta di ogni homo sapiens che voglia auto pronunciarsi con una lettera alfabetica non può che assimilarlo alla forma scritta della vocale “i”. Il mio volto si è coerentemente trasformato nel punto che sovrasta questa lettera nel suo stato minuscolo, e ciò è avvenuto mediante la sovrapposizione di un uovo nero all’immagine del mio viso. … Per completare la scrittura della sillaba “io” la mia figura-lettera “i” si è unita alla forma della lettera “o”, essa stessa un ovale, appiattito e fessurata nel mezzo, come a consentire una fuoriuscita, la nascita della persona alla realtà del logos, realtà su cui si fonda la comunicazione tra gli esseri umani». 31
A partire dagli anni ’70, dunque, Mirella sviluppa una forma di auto-rappresentazione singolarmente significativa sia dal punto di vista estetico -per l’uso delle lettere e della parola come segno e come immagine- che politico, in quanto le sue argute riflessioni visive sul tema rappresentano un caso particolare in cui si articola quel rapporto fra segno – linguaggio – soggetto che caratterizza anche il lavoro di altre artiste che, in quegli anni, influenzate dal femminismo davano forma visiva, più o meno deliberatamente, ad una pratica centrale per la politica delle donne: il partire da sé. La pratica artistica era infatti per molte di loro ambito privilegiato di auto-affermazione, oltre che luogo di sperimentazione del potenziale del linguaggio sia come mezzo per comprendere ed esprimere una soggettività consapevole dell’essere donna, sia quale strumento atto a sovvertire il discorso del patriarcato32.
Così, in Autoritratto emblematico (1971)Bentivoglio presenta una raffigurazione di sé che si rivela attraverso i segni che compongono la parola grovigl-io e che si concludono in una forma circolare che -quasi un volto- isola al suo interno il pronome personale che forma le ultime due lettere della parola; mentre in un’altra opera del 1972, l’artista mette ancora a fuoco il rapporto soggetto/oggetto nell’auto-rappresentazione mediante un intreccio di segni dai quali si libera il groviglio che individua l’io (Soggettivismo oggettivato). E ancora nel 1973, il pronome soggettivo diventa la firma di un collage ottenuto ritagliando da una banconota da centomila lire il proprio cognome ad eccezione delle due ultime lettere, io appunto (La firma): «Io sono chi ha mutilato il nome, messo la firma al posto dell’opera, messo la banconota dentro il nome, messo il pronome al posto della firma. Io sono l’individuo che può esprimere la sua libertà solo attraverso la contraddittorietà e rompe le regole del gioco con un lavoro che sta al gioco».33
Ancora agli anni ‘70 risalgono anche altri lavori in cui l’artista esplicita una chiara consapevolezza di genere e la ricerca di modi per rappresentare l’essere donna al di fuori dell’immaginario patriarcale. Fra questi un collage, Ti amo (1970) , dove la scritta che dà il nome all’opera è scomposta e collocata secondo una linea di forza diagonale: “ti” e “o” -opposti e scritti con un corpo più piccolo- sono posizionati in alto a sinistra e in basso a destra mentre, al centro, il gruppo “am” si trova all’interno di una bocca femminile aperta che visualizza e richiama la dimensione fonica di quelle lettere. Appare, così, evidente la sovrapposizione fra “amare” e “mangiare” sebbene le lettere “am” suggeriscano anche, in inglese, una dichiarazione di esistenza: io sono. Il femminile, allora, è qui rappresentato non più come oggetto passivo di desiderio bensì come il soggetto attivo che afferma la propria esistenza, persino un po’ minaccioso per quella bocca che insieme “ama” e divora.
Il cuore della consumatrice ubbidiente è, invece, un’opera grafica fatta da due grandi “C” rosse della Coca-Cola che, disposte specularmente, formano un cuore. Realizzato in due versioni, su carta di giornale -una pagina dei cinema con annunci di film mediocri- (1975) e una serigrafia su cartoncino omogeneo (1976), il lavoro esprime una critica manifesta alla società dei consumi ma anche ad una concezione convenzionale dell’amore, ad un tradizionale modello di donna di cui l’artista svela, al centro, la vera essenza di ‘oca’.
Di nuovo di femminile, nel suo rapporto con la natura e con la dimensione della fertilità, parla anche CICLO (1975), riproponendo l’antica associazione donna/luna con le due falci -due profili che si guardano- e che, opposte, ricompongono l’unità della forma circolare del satellite.
Nel 2013, con il nuovo libro d’artista L’altra faccia della luna, Bentivoglio ha riproposto, affiancata ad un’immagine della superficie lunare opposta alla terra, una sua poesia inedita del 1978 che riporta al clima culturale di quegli anni: un dialogo duro col mondo maschile in cui l’artista rivendica l’estraneità a quella «marziale logìa» che ha messo a rischio il «contaminato maltrattato meraviglioso rimpianto pianeta»: potrà salvarlo l’annunciato ritorno delle donne da quella luna dove sono state relegate ma dove stanno anche «felicemente nascendo»?
L’attenzione poetica alla salvaguardia e alla difesa della natura, elemento distintivo in particolare degli ultimi anni della produzione di Bentivoglio, è dunque già presente fin dagli anni ’70 oltre che con le forme dell’uovo e dell’albero, che rappresenta simbolicamente il rapporto con la terra e la natura, anche con quelle di animali quali la tartaruga o la lumaca. E’ il caso dalla Tarta/ruga del 1975, che l’artista associa all’idea della scrittura e dell’immortalità, e di cui visualizza il guscio attraverso una sequenza di T e di A disposte in forme ellittiche che si avvitano intorno ad una R posta al centro; o dell’apologia della lentezza, visualizzata in Forma lenta (1970), con la morbida spirale delle lettere ripetute che formano la parola Lumaca a simulare il ritmo lento dell’animale; fino alla recente Corrida (2011), dove le corna rovesciate del toro rimandano alla forma originaria dell’aleph, che in ebraico significa bue, ed è la prima lettera dell’alfabeto, la A presente in tanti altri alfabeti (greco, latino, arabo) e che costituisce una vera e propria lettera archetipo. Questo segno, però, è qui sovrapposto al toro e alla sua fine nella corrida, a simboleggiare la sopraffazione della cultura umana sulla natura, lo sconvolgimento del rapporto armonico tra i viventi.
Progressivamente il lavoro di Bentivoglio è stato segnato dall’utilizzazione sempre più frequente di materiali organici; la madre terra ne guida spesso la mano, come in Libro campo del 1998, fatto di terra, tornato a mescolarsi alla terra e di cui resta, appunto, solo una foto, segno di un gesto; o con il libro di legno che porta un messaggio, tratto dall’Apocalisse: «non devastate la terra, né il mare, né le piante» (Non devastate la terra, 2004), mentre l’uovo tenuto dalla grande mano ci ricorda che la possibilità di Salvare la vita (2002) sta proprio nelle nostre mani.
L’attenzione per la natura, tuttavia, non la porta a dimenticare mai lo stretto legame con la cultura, anzi le forme naturali -il fiore, l’uovo, gli animali- sono spesso impiegate come simboli per leggere ed interpretare episodi e situazioni squisitamente umani. Ne è esempio Fiore Nero (1973), una delle opere più profondamente politiche e poetiche. Bentivoglio la realizza per commemorare un giovane nero ucciso dalla polizia utilizzando la foto del funerale pubblicata dai giornali, ritagliata nella sagoma di un fiore e con le parole della didascalia adattate alla forma di una croce che funge da stelo e foglie. La straripante dilatazione del nero dalla pelle al colore del lutto si estende al fiore per denunciare così «l’offesa recata dal razzismo alla natura».
Anche lavorando sulle forme del mondo vegetale, l’artista, tuttavia, sembra non tralasciare e non cancellare mai la dimensione sessuata e la consapevolezza dell’essere donna. E ancora gioca con la parola e l’immagine rendendo incinta una foglia (A leaf in a leaf – a pregnant leaf, 1990) e madre un albero, ancora ricorrendo a Piero della Francesca (1992).
Sono, invece, ancora degli anni ‘70 due lavori particolarmente significativi che sintetizzano una qualità distintiva dell’espressione estetica di Bentivoglio: il suo far ricorso all’immaginazione visiva, all’articolazione -poetica- del concetto, all’esperienza del suo mondo interiore ed esteriore.
Si tratta della serie intitolata Ab ovo, ab Eva, Ave Eva, ea (1979) e della “poetic strip” Lina e il cavaliere (1978).
Ab ovo, ab Eva, Ave Eva, ea è un lavoro in quattro cartelle che, partendo dall’uovo cioè, metaforicamente, dall’inizio, sviluppa la trasformazione di Eva, la prima donna, in ea, lei, la donna. Il processo prende forma sia attraverso il gioco linguistico, sia tramite la grafica, con la costruzione geometrica dell’intersezione della forma dell’uovo e della mela -ancora un inizio, quindi, con la scelta di Eva di mangiare la mela. Il venire al mondo della soggettività femminile ci dice quindi Bentivoglio è l’esito di un percorso che combina la dimensione organica (mela, uovo), quella razionale (geometria) e linguaggio.
Lina e il cavaliere si compone di una sequenza di otto immagini fotografiche e brevi didascalie in cui Bentivoglio gioca con una fotografia della soprano e attrice italiana Lina Cavalieri (1875-1944) realizzata da Francesco Paolo Michetti, modificandola e creando un contesto narrativo in cui sono presenti un uomo -il cavaliere-, un drappo e la stessa Lina.
Il tema è la donna e l’immagine che l’uomo ha di lei: icona creata dall’uomo, quando il drappo sottintende la tela del pittore; immagine rituale, quando il telo ne copre la figura; oggetto sessuale, quando il telo allude al lenzuolo e Lina è messa a letto dal cavaliere; ma allora Lina è solo simbolo, madonna, o solo oggetto, corpo, e il drappo è la somma delle cancellazioni diventa, infatti, nero e ne cancella la figura. Poi però il drappo torna bianco e Mirella chiosa: il cavaliere è disposto ad arrendersi alla realtà di Lina. O è Ia pagina bianca su cui Lina sta per scrivere il proprio capitolo? Ma l’ultima immagine ci consegna il punto di vista dell’artista: No! La pagina su cui Lina scriverà se stessa non può tenerla in mano che Lina. Dietro il telo ora lei si affaccia dallo spazio reale: eloquente metafora della soggettività femminile libera e indipendente dal maschile, insegnamento prezioso che con tutto il suo lavoro Mirella ci ha lasciato.
1 Mirella Bentivoglio, Giardino, Milano, Scheiwiller, 1943 cui seguirà: Calendario, Firenze, Vallecchi, 1968
2 movimento nato negli anni ’50 del ‘900 per valorizzare la componente visuale e di immagine della parola, dando dimensione e colore ai caratteri grafici e rilievo alla dimensione tipografica del segno
3movimento degli anni ’60 che relaziona immagine e parola in un incontro/scontro ironico con il linguaggio dei media per rovesciarne il senso.
4 Renato Barilli, “Alla ricerca del simbolo perduto”, in MIRELLA BENTIVOGLIO. Dalla parola al simbolo, Roma, De Luca Editori d’Arte, 1996, pag. 12
5 Renato Barilli, op. cit., pag. 13
6 Toti O’ Brien, “Mother is an Artist: A Profile of Visual Poet Mirella Bentivoglio”, Literary Mama, August 2014
7 Mirela Bentivoglio, “I segni del femminile”, in Ferrari Daniela (a cura di), Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al MART, Milano, Silvana editoriale, 2011, p. 15
8 Mirela Bentivoglio, op.cit., p. 16
9 Gabriella De Marco, “Una madre d’arte”, L’Unità, 29 agosto 1994
10 Mirella Bentivoglio (a cura di), Materializzazione del linguaggio, Arti visive e architettura. Venezia, 1978, p. 2
11 Più tardi avrebbe scritto: “[La donna] aveva una diversa sovranità sulla parola, totalmente privata. Dava il linguaggio ai figli. Conosceva il linguaggio come energia psichica, come spazio, materia; la burocrazia della parola le era estranea e in un certo senso nemica. Ciò rende oggi la donna estremamente idonea a un genere nuovo di comunicazione poetica, fondato sul segno linguistico mescolato all’immagine della materia”. Mirella Bentivoglio (a cura di), (S)cripturae. Le scritture segrete: artiste tra linguaggio e immagine, Padova, Edizioni Adle, 2001, p. 9
12 ibidem
13 Mirella Bentivoglio (a cura di), op. cit., p. 3
14 ibidem
15 ibidem
16 Mirella Bentivoglio, “Post scriptum”, in Anna Maria Fioravanti Baraldi (a cura di), Post Scriptum: artiste in Italia tra linguaggio e immagine negli anni ’60 e ’70, Ferrara, Siaca Arti Grafiche, 1998, p. 4
17 Mirella Bentivoglio, “Hyper Ovum”, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Mirella Bentivoglio Hyper Ovum, Milano, Fabbri, 1987, p. 15
18 Una sorta di “genesi” della E si legge in un’opera del 1978: Da H a E, da lettera muta a parola-congiunzione. Qui, infatti, dopo aver ulteriormente elaborato le sue manipolazioni sulla forma della lettera, Bentivoglio mostrerà l’analogia di struttura con la H: gli elementi lineari che costituiscono entrambe le lettere sono infatti gli stessi ma nella H danno origine ad una forma bloccata che, invece, si apre con la E.
19 Mirella Bentivoglio, “Hyper Ovum”, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), op. cit., p. 15
20 Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), op. cit.
21 Mirella Bentivoglio, All’adultera lapidata, Roma, Edikon, 1976 citato in Frances K. Pohl, “Language/Image/Object: The Work of Mirella Bentivoglio”, Woman’s Art Journal, vol. 6 n. 1, Spring-Summer 1985, p. 18
22 Mirella Bentivoglio, All’adultera lapidata op.cit
23 ibidem
24 ibidem
25 Nel 2004 dopo aver resistito a due terremoti, L’Ovo di Gubbio è parzialmente crollato: ne è risultata una foto intitolata La caduta dell’Ovo (contenuta nel libro d’artista Nascita seconda realizzato per la mostra Venezia salva – Omaggio a Simone Weil del 2009) ma l’artista non ha voluto che fosse riparato.
26 Mirella Bentivoglio, Un albero di pagine, Eidos, Mirano, 1992, p. non numerata
27 Vittoria Surian (a cura di), TERRA MADRE, San Donà di Piave, Colorama Editore, 2012, p. 61
28 Mirella Bentivoglio, “Hyper Ovum”, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), op. cit., p. 15
29 La sorpresa, 1986 da Beato Angelico; La liberazione dell’uovo di fuoco, 1983, da Raffaello.
30 L’uovo-seme compare in altre opere degli anni ’80 insieme al libro in opere come Il seme del libro (1982) e La scrittura (1984), passando per Genesi (1984) e fino al libro in travertino ROMA (2000) in cui la O è data da un uovo di pietra posto, invece che nello spazio previsto dalla lettera, al centro della piegatura tra le due pagine, sottolineando la compiuta coincidenza fra dimensione materiale e linguistica e l’impronta fondamentale impressa da Roma alla cultura occidentale.
31 Giovanna Giusti (a cura di), AUTORITRATTE. Artiste di capriccioso e destrissimo ingegno, Firenze, Edizioni Polistampa, 2010, p. 112
32 Si veda al proposito la lettura di alcune delle opere di Mirella Bentivoglio e Ketty La Rocca, accomunate dall’uso di deittici, che Leslie Cozzi interpreta, applicando il concetto di segno-indice formulato da Rosalind Krauss, per mostrare come le strategie autoreferenziali delle artiste siano finalizzate ad affermare la propria presenza come donne e come artiste e, al contempo, a sottolineare la propria distanza e la messa in discussione del segno maschile del discorso patriarcale (Leslie Cozzi, “Notes on the Index, Continued: Italian Feminism and the Art of Mirella Bentivoglio and Ketty La Rocca”, Cahiers d’études italiennes, n. 16, 2013, pp. 213-234)
33 Mirella Bentivoglio (a cura di), Mirella Bentivoglio. La poesia fatta pietra, Catalogo della mostra alla Pinacoteca Comunale di Macerata, Macerata, Coopedit, 1984, p. 16
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Mariella Pasinati

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