Non avrei mai pensato di occuparmi di api perché ho timore di essere punta dalle vespe (per le conseguenti forti reazioni allergiche) e nel mio immaginario le due insette si confondono, ma, trattandosi di un libro di Barbara, non potevo non leggerlo… Da Virgilio a Neruda, da Paul Valery a Pennac, la letteratura è attraversata in vario modo dalle api, ma mancava, credo, un libro così piacevole, appassionato e appassionante fra racconto autobiografico e saggio. Solo a scorrere le pagine in cui Barbara descrive la sua attenzione nel guardare il favo e nell’ imparare a muoversi in silenzio e con cautela, e poi a distinguere le diverse api e la loro funzione (nutrici, bottinatrici esperte in cerca di fiori colorati, becchine, termoregolatrici grazie alle ali e così via), anche se – indossando “la tenuta da astronauta a terra” – “dopo diverse ore sotto il sole è come fare una sauna senza il relax di un hamman”, si rimane colpite dalla gioia nello svolgere questo mestiere, pensato dopo aver collezionato lavori precari e sottopagati, una sorta di piano B all’interno della tradizione di famiglia: l’apicoltura è anche “un privilegio, il tempo che si ferma, un’avventura in un mondo parallelo”.
In quel superorganismo di circa cinquantamila operaie e cinquecento fuchi esiste “condivisione organizzata e redistribuita” ed “il comportamento generale dell’alveare deriva dalla cooperazione e competizione fra tutte le api”, con l’organizzazione di quella che, anche da studiosi, viene chiamata mente collettiva per lo scambio continuo di informazioni e quindi di decisioni attraverso antenne e danze. Non mi convince però abbastanza questa “monarchia democratica” in cui se l’ape regina gode, forse, di una certa sessualità nel suo unico suggestivo volo nuziale, le operaie non si dilettano in nessuna attività similare e i fuchi dopo l’unione con l’ape regina muoiono, mentre trovo interessante lo spunto di riflessione – sottolineato da Barbara – per i diritti riproduttivi: l’esempio dell’ape regina e delle api nutrici avvalora la tesi che figli e figlie sono soprattutto di chi l* cresce. Il tema della maternità nell’alveare fa pensare se si considera il “senso di una collettività composta da insette libere e nomadi, decisamente aperta al meticciato, dedita alla fecondazione eterologa e financo alla poliandria della regina”.
Il libro ci fa scoprire inoltre – insieme ad un variegato universo di esperienze, storie e difficoltà con la burocrazia – l’importanza di un mestiere che si confronta con l’ambiente (senza le api, proprio per l’impollinazione, l’umanità non ha futuro), l’avventura di una generazione (molte le donne) capace di muoversi fra tradizioni e nuove sperimentazioni in un ritorno alla terra nonostante i contrastanti interessi del mondo economico. E Barbara, dopo aver sperimentato “il mondo attraverso il naso” per arrivare all’arte della degustazione, ci introduce, alla fine, con un simpatico vocabolario degli assaggi, negli odori e sapori dei numerosi mieli: sentore di muschio, caramellato, floreale, fruttato, balsamico, acidulo, molto amaro…
Credo che non mi convertirò alla apicultura, preferendo libri e piante da terrazza, ma l’immagine circolare, rappresentata nella copertina, di una danza collettiva, mi fa pensare ad alcune (non a tutte) relazioni femministe, affettive e politiche, ai corpi in piazza soprattutto di donne che protestano: “una irruenta e incruenta spinta collettiva al bene comune, all’autodeterminazione dei desideri, alla cura condivisa … di relazioni “. Non so se sia solo, come dice Barbara, una “bizzarra idea da apicoltrice entusiasta” e, aggiungerei, da femminista impegnata che continua a sognare e a praticare (fortunatamente) resistenza e dissidenza, e mi piacerebbe che offrisse suggestioni “per un pizzico di ribellione in più”!
Barbara Bonomi Romagnoli, Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apicolture, DeriveApprodi, 2016, pp. 121, euro 12,00
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Clotilde Barbarulli
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