Se hai sposato l’orrore, o ne sei stata la segretaria

di Melita Richter, 5 marzo 2016

Una buona moglie (Dobra žena), miglior film al Tff 2017

Grandi protagoniste, attrici straordinarie, enigmatiche figure femminili al Trieste Film Festival che, arrivato alla 28-a edizione, si é concluso a fine gennaio confermando la sua straordinaria vitalità accompagnata dal crescente interesse di pubblico, sempre più internazionale, Una vera fucina culturale.

Protagoniste come  l’attrice slovacca Suzana Mauréry nel film “The Teacher” (Učitel’ka), del regista ceco Jan Hrebejk in sezione Eventi Speciali. La trama ci porta in Cecoslovacchia negli anni ’80 e attraverso la figura di un’ambigua maestra della scuola elementare delinea la parabola della società corrotta che mantiene il potere utilizzando il dominio del partito e il ricatto sociale. Un subdolo ricatto che coinvolgerà i genitori degli alunni ai quali la donna chiederà favori di vario tipo, dalla riparazione della lavatrice al fare la fila al mercato, o a trasportare illegalmente dei dolcetti ai parenti a Mosca. L’atmosfera di paura, l’opportunismo e la subordinazione al potere circoscritti all’ambito scolastico non sarebbero sufficientemente convincenti senza la magistrale interpretazione della Mauréry che crea il suo personaggio sul filo del rasoio in modo che “non si capisca davvero se sia buona o cattiva, se siamo nella commedia o nel dramma”.

 

Per la sua interpretazione Suzana Mauréry ha vinto il premio di miglior attrice al Festival di Karlovy Vary nel luglio 2016.

 

Il Trieste Film Festival ha sempre dedicato una particolare attenzione alla produzione dei paesi dell’Europa Centrale e Orientale, e in modo particolare agli autori dell’area ex jugoslava. Anche quest’anno a registi di confermata fama si sono affiancate nuove presenze, che indagano su linee di ricerca innovative, spostando il tema della guerra in diretta ai periodi postbellici, alle società in trasformazione e alla difficile elaborazione del trauma che affligge la società civile al suo interno, all’interno delle famiglie, esaminando le coscienze di singoli. Spesso dividendo i membri di famiglie miste che cercano di ricostruire la propria vita in tempo di una pace ancora fredda.

I due lungometraggi che in modo speculare affrontano questo tema giungono a Trieste da Zagabria e da Belgrado. Il primo è Sone strane (Dall’altra parte), un thriller drammatico del regista croato Zrinko Ogresta; il secondo, Dobra žena (Una brava moglie) di Mirjana Karanović, nota attrice che con questo film esordisce da regista. In entrambe le opere la svolta sociale accompagnata da travagliate riflessioni etiche poggia sulla figura femminile, mentre i mariti, coinvolti negli orrendi crimini di guerra, pur incidendo diversamente sul destino delle donne e sui figli, contribuiranno allo stesso esito: la distruzione dell’ambito familiare, delle relazioni ed emozioni condivise.

Se in Dall’altra parte il marito al ritorno dalla prigionia in seguito alla condanna del Tribunale dell’Aia, assente da lunghi anni dalla vita della donna (la bravissima Ksenija Marinković, soprannominata la Maryl Streep croata) cerca di ricucire il rapporto – e al pubblico si schiuderanno diverse vie di pensiero sull’identità dell’uomo apparso soltanto nella comunicazione telefonica -, giocando sui tasti di una storia d’amore andata in frantumi a causa della guerra e delle diverse appartenenze etniche, nell’altro, in Una brava moglie, il marito è presente e assicura alla donna e alla famiglia un’esistenza che trascorre in un’atmosfera di quasi dorata quotidianità tra momenti di sfrenate feste alla Kusturica e l’autentica spiritualità ortodossa. Ma il mimetismo di apparente normalità nasconde il passato criminale dell’uomo. Tra pezzi dell’uniforme mimetica dismessa che la donna sposta durante una radicale pulizia di casa, salterà fuori una casetta VHS con le riprese di uccisioni di civili bosniaci da parte delle milizie serbe tra le quali è riconoscibile il marito assieme ai compagni che formano la cerchia di quotidiane frequentazioni della coppia. Lo shock che colpisce la protagonista avviene in contemporanea al tumore alla mammella che le viene diagnosticato e la prospettiva di una radicale operazione. Due colpi deflagranti che lei non ha con chi spartire. La sua angoscia non si disperde col tempo ma piuttosto aumenta nei silenzi divisi tra le compagne di camerati dell’orrore del marito.

Il film è tratto da eventi realmente accaduti nel 1995 e in seguito alla scoperta documentata delle esecuzioni mostrate pubblicamente in Serbia molti anni dopo. La regista dirà: “Sebbene il film si ispiri a questo caso, il crimine è usato più come elemento catalizzatore… Il film non si occupa né della guerra, né di crimini contro i civili, ma piuttosto osserva le famiglie disfunzionali delle persone che hanno commesso questi crimini” (M. Karanovic)[1].

Nel film di Ogresta il concetto di perdono viene contemplato come elemento valoriale aggiunto alla riflessione sull’accaduto. In effetti il regista dirà: “Anche se la tragedia che ha colpito questa parte dell’Europa una ventina di anni fa viene spesso trattata nei film, penso che sia passato abbastanza tempo da quegli anni sfortunati. E in questo senso ho raggiunto una sorta di catarsi personale. Ecco perché in questo film ho cercato non di giudicare, ma di capire. Sia chi sta da questa, che chi sta dall’altra parte”. Nel film della Karanović, questo non è (ancora) possibile. Perché è l’intera società serba – in parte ancora negazionista – che ha a che fare, prima di tutto con l’accettare il fatto che il crimine è stato commesso, per poi prendere le distanze da chi lo ha fatto e a nome di chi. E’ un processo tuttora in corso.

Le figure femminili sulle quali poggiano i due film, il loro coraggio di denuncia e la quotidiana fatica nel richiudere le ferite e ricucire i fili delle relazioni sfilacciate, sono elaborate da due registi come colonne portanti del cambiamento delle società colpite da guerre. Sono le donne i cardini del cambiamento inteso non come svolta superficiale incalzata dal tempo e priva dell’indispensabile interrogarsi sul ruolo del singolo individuo, ma come ricerca della responsabilità personale nella storia con la ’S’ maiuscola (anche se e quando vergognosa).

Il premio per il miglior lungometraggio della 28.a edizione del TFf è stato assegnato a “Una brava moglie,” (Dobra žena).

Nella sezione documentari, tra undici ottime proposte in gara e tre fuori concorso, trovo doveroso segnalare il film che ha lasciato un indelebile impatto sul pubblico. Si tratta di “La segretaria di Goebbels” (Ein Deutsches Leben) diretto da quattro registi, tre austriaci, Christian Kröner, Roland Schrotthofer, Florian Weigensamer, e un tedesco, Olaf S. Müller.

Il documento raccoglie l’intervista a Brunhilde Pomsel, stenografa e dattilografa di Joseph Goebbels. All’epoca delle riprese la donna aveva 103 anni. È mancata tre giorni dopo la prima italiana, il 27 gennaio 2017 a 106 anni. E’ stata l’ultima diretta testimone dell’epoca nazista ancora in vita. Ha vissuto al fianco di Goebbels, uno dei peggiori criminali della storia, ha lavorando al Ministero della Propaganda nazista, ma non si accorgeva di cosa stava succedendo fuori dalle stanze del gerarca. Ricorda piuttosto la sua eleganza, i suoi abiti eseguiti in sartorie di classe e sempre nelle migliori stoffe, la cura dei dettagli, l’amorevole rapporto con i figli, l’adorazione del cane… Con il senno di poi, Pomsel intercala il suo racconto con frasi: “Ero così stupida, così superficiale. Pensavo solo a me stessa”.

Ed è proprio il pensare a se stessa che la porta a inseguire la carriera, forse mai guidata da un vero interesse politico o ideologico, ma piuttosto da un ‘normale’ istinto prussiano, interiorizzato già nella prima infanzia che la impegnerà a svolgere il proprio dovere, a farlo bene, a rispettare i superiori, a non mettere in discussione le loro direttive, figuriamoci i valori, a non cedere alle insane ‘curiosità’ che l’avrebbero potuta portare a scoprire cosa contenevano quei fascicoli ai quali le era stato proibito l’accesso. Un quadro perfetto della genesi della banalità del Male di cui questo film è un perfetto testimone.

Tante volte abbiamo assistito alle esternazioni delle memorie miopi di persone invischiate nel regime nazista, o altri regimi dittatoriali. Frau Pomsel le supera tutte. Sembra sincera con sé stessa, non si giustifica e non giustifica, ma neppure condanna. Lei non sapeva. La sua era una ‘semplice vita tedesca’ inseguita da una frivola ragazza tedesca, come quella di milioni di concittadini che non si ponevano domande e distoglievano lo sguardo. E nel caso contrario, avevano le risposte pronte ai visibili cambiamenti della società: le improvvise partenze degli ebrei erano liquidate con lo scambio di popolazioni tedesche dai Sudeti mentre i campi di concentramento venivano immaginati come luoghi di rieducazione. Tutto quadrava.

Riflettendo sulla propria biografia immersa nella tragica notte del XX secolo – e lo fa con invidiabile lucidità e logica -, la donna si chiede se sarebbe potuto essere diversamente, se lei avrebbe fatto diversamente, se per esempio qualcuno avrebbe fatto qualcosa per salvare le vite degli ebrei. Nelle risposte, le sue certezze sono irremovibili: “Oggi molti pensano che avrebbero reagito, fatto qualcosa. Lo pensano sinceramente. Ma non l’avrebbero fatto.”

Le profonde rughe e i solchi scavati sul volto di Brunhilde Pumsel sul quale indugia la cinepresa sono impressionanti come lo è la sua storia personale. Solo raramente accennano a una lieve distensione annunciando alla possibile sfera affettiva schiacciata dal peso della storia.

Con il sapiente linguaggio filmico i registi alternano le riprese rigorosamente in bianco e nero con degli spezzoni di filmati d’archivio americano e sovietico, e sono questi ultimi elementi decisivi nel completamento della testimonianza dell’intervistata e dei momenti storici in cui i fatti avvenivano. L’effetto tra luci e ombre che indagano sul suo volto (e il rischio è che esso ci diventi familiare), in contrappunto alle visioni di morti di massa, lasciano lo spettatore sgomento e allo stesso tempo rafforzato nella convinzione dell’estrema necessità, molto attuale, a riconoscere in tempo gli “innocui” meccanismi del Male e il rischio dell’acclamazione del ‘Mondo nuovo’ in nome delle superiorità di Razza, Popolo o Nazione.

 

 

Film nominati in questo articolo:

 

Učitel’ka (The Teacher)

Regia: Jan Jan Hrebejk

Attrice: Zuzana Mauréry

Sceneggiatore: Petr Jarchovský ,

Produttori: Ľubica Orechovská, Zuzana Mistríková, Ondřej Zima

Coproduzione: Ceco-Slovacca

Anno: 2016

 

 

Dobra Žena (A Good Wife)

Regia: Mirjana Karanović,

Attori: Mirjana Karanović, Boris Isaković, Bojan Navojec

Sceneggiatura: Mirjana Karanović, Stevan Filipović, Darko Lungulov

Coproduzione Serbia – Bosnia ed Erzegovina – Croazia

Anno: 2016

 

S one strane (Dall’altro lato)

Regia: Zrinko Ogresta

Sceneggiatura: Mate Matesic, Zrinko Ogresta

Interpreti: Ksenija Marinković, Lazar Ristovski, Tihana Lazović,

Coproduzione: Croazia- Serbia

Anno: 2016

 

 

Ein Deutsches Leben (La segretaria di Goebbels)

Regia: Christian Krönes, Olaf Storm, Roland Schrotthofer, Florian Weigensamer

Attrice: Brunhilde Pomsel

Sceneggiatura: Florian Weigensamer

Fotografia: Frank Van Vught

Produzione: Austria

Anno:2016

5

[1] La citazione, come quella che segue riferendosi al discorso del regista Zrinko Ogresta, è tratta dal Catalogo del 28 Trieste Film Fetsival, ed. Alpe Adria Cinema.

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