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Il gruppo della Sil ha letto “Metà di un sole giallo” di Chimamanda Ngozi Adichie: il cameriere che diventa un soldato bambino, la borghese nigeriana alle prese con i suoi problemi familiari, lo storico inglese che studia gli Igbo, l’etnia che viene massacrata nella guerra civile. Tre voci per raccontare un’altra Africa

Di Mariapia Achiardi Lessi

Nella discussione su “Metà di un sole giallo” di Chimamanda Ngozi Adichie «per la prima volta questo libro ha suscitato il partire da sé in maniera più forte rispetto agli altri incontri del gruppo di lettura, ci ha fatto piombare in una guerra con un genocidio, come sta accadendo anche oggi. Questo libro ha suscitato storie personali ed è stato per me particolarmente bello, ascoltarci prendendo spunto e occasione da un testo. Ci siamo collegate direttamente a quello che succede, mai come oggi mi sono sentita una bianca coloniale». (Gisella Modica).
Faccio mio il commento di Gisella, per esprimere la soddisfazione per il lavoro del gruppo di lettura che è cresciuto in questi mesi.
Avevo conosciuto Chimamanda Ngozi Adichi attraverso il TED Talk “The Danger of a Single Story” per il lavoro che con l’Associazione Evelina de Magistris proponiamo da anni nelle scuole contro stereotipi e pregiudizi e ho ritrovato la sua attenzione a #altrestorie in “Metà di un sole giallo”, in cui dà voce a chi è stato spesso ridotto a silenzio. Come ci ricorda Chimamanda Ngozi Adichie nel suo celebre intervento “The Danger of a Single Story”, il rischio di una narrazione unica è quello di appiattire le esperienze complesse di intere comunità, privandole della loro umanità.
Questo romanzo sfugge alla trappola della ‘storia unica’ sulla guerra del Biafra, e ci mostra oltre il conflitto dei leader politici e delle truppe, le vite che si sfilacciano e si ricompongono tra le macerie, sfidando la rappresentazione tradizionale dell’Africa. «Nella prima parte del romanzo ho fatto fatica a sentirmi in Africa, perché non c’è la solita immagine stereotipata dell’Africa delle carestie, della fame, delle malattie, ma è soprattutto l’Africa dei salotti borghesi, degli ambienti universitari» (Rita Lopez). L’autrice tiene «a far vedere che c’è un’altra Nigeria, le persone che hanno studiato, e condividono esperienze che lo stato coloniale non si aspetta». (Antonella Ippolito).
Questa Africa intellettuale e cosmopolita sfugge ai cliché occidentali e presenta una società complessa, attraversata da tensioni etniche ma anche da aspirazioni universali di progresso e giustizia. Attraverso gli occhi di Olanna, Richard e Ugwu, che si avvicendano come voci narranti dei diversi capitoli, Adichie ci restituisce lo sguardo delle donne e dei bambini che, in guerra, diventano insieme oggetto di violenza e testimoni, fragili e resilienti. Le donne in particolare offrono una resistenza silenziosa ma tenace: sono madri che proteggono, amanti che tradiscono e perdonano, intellettuali che cercano di dare un senso al caos mentre i bambini, come la piccola Baby, vedono la loro innocenza scontrarsi con l’assurdità della violenza. La loro prospettiva—cruda, a volte inconsapevole—ci ricorda che la guerra non è solo una questione di frontiere o ideologie, ma di corpi che soffrono e di sogni spezzati.
Ci siamo trovate immerse nella guerra del Biafra, che molte di noi avevano conosciuto da bambine attraverso il monito moralistico «Non ti vergogni? Pensa ai bambini del Biafra» (Rita Lopez) o alle “scatoline per l’elemosina” (Antonella Bontae). Per comprendere meglio il contesto storico che fece da sfondo alla tragedia del Biafra, «sono andata a rivedere la storia di quel 1966. C’erano appena state le elezioni presidenziali, seguite dal solito strascico di reciproche accuse di brogli. Fu per questo che alcuni reparti dell’esercito nigeriano, nella maggioranza ufficiali di etnia Igbo, per mettere fine alle polemiche e ai disordini, organizzarono un colpo di Stato. Alla fine di luglio dello stesso anno, dal Nord del Paese partì un contro-colpo di Stato, che portò alla guida della Nigeria Gowon e gli Islamisti. Il successivo tentativo di secessione da parte della comunità Igbo costò la vita a oltre un milione di persone, per lo più bambini, lasciati letteralmente morire di fame, a causa di un blocco economico durato più di tre anni. Inoltre, in tutto il Paese si scatenò l’inferno, che provocò il massacro di minoranze Igbo di religione cristiana. Il governo centrale nigeriano mise in atto un accerchiamento severissimo attorno alla regione che aspirava all’autonomia. Nel giro di un anno, con la famigerata operazione “festa delle locuste”, le truppe governative nigeriane circondarono il Biafra, uccisero, stuprarono, razziarono, distrussero città e villaggi, si impossessarono degli impianti petroliferi. La capitale Enogu venne devastata. L’intenzione di sterminare un intero gruppo etnico appare chiara. Fu un vero e proprio strangolamento, perché venne fin da subito impedito l’arrivo nella regione anche del minimo necessario alla sopravvivenza della popolazione. Nel 1970 la Repubblica del Biafra non esisteva più. Fu cancellato anche il nome: oggi quella regione si chiama Golfo di Bonny». (Rita Lopez)

Il primo protagonista è Ugwu, il ragazzo di villaggio diventato domestico, poi soldato bambino. La sua innocenza spezzata dalla violenza è uno degli sguardi più strazianti: Adichie usa la sua voce per mostrare come la guerra violi e traumatizzi l’infanzia e l’evoluzione di Ugwu da servo fedele a vittima-carnefice è un ritratto crudo della disumanizzazione bellica.
Unanimemente, lo abbiamo riconosciuto come  la figura più significativa del romanzo, «l’unica forma di riscatto in queste pagine che descrivono il fallimento di un sogno comune» (Rita Lopez ) Il suo percorso da domestico assunto da Odenigbo all’età di appena 13 anni a scrittore che testimonia la tragedia rappresenta la possibilità di trasformare il trauma in narrazione, la sofferenza in arte; «di umili origini, crede negli spiriti, ma si riscatta con l’intelligenza e la volontà di imparare: diventerà l’autore del testo». (Antonella Bontae). E’ lui che scrive il libro, e infatti nella chiusa finale: “il mondo taceva …dedica per padrone mio buon amico” si prospetta una possibile rinascita dei rapporti, delle relazioni, una riconciliazione (Licia Ugo).
Segue Olanna, la donna nigeriana colta e privilegiata, che accetta di crescere la figlia nata da una relazione occasionale del marito, anche se attraversa il dolore e il costo emotivo del tradimento. Figlia dell’élite urbana, sceglie di seguire l’amore e la causa biafrana, ma scopre l’ipocrisia della sua classe e la fragilità delle sue certezze. Adichie usa il suo personaggio per esplorare le contraddizioni interne alla Nigeria postcoloniale, dove la soggettività è un campo di battaglia culturale prima ancora che politico.  «Il tema della bellezza è un refrain del testo, la personaggia ne è consapevole, a differenza dell’ossuta sorella Kainene, a cui però invidia la sicurezza e il carattere deciso». (Antonella Bontae) e «Sarebbe da approfondire il rapporto fra le due sorelle, e questa grande libertà sessuale. Sessualità agita liberamente da donne e uomini» (Loredana Magazzeni)
Infine Richard, il britannico innamorato dell’Africa, sensibile e idealista, è l’osservatore straniero che smaschera i cliché sull’”esotismo” africano. La sua impotenza di fronte al conflitto riflette la complessità del rapporto Europa-Africa: non più colonizzatore, ma nemmeno veramente parte della storia che vuole raccontare. «Richard, biondo con occhi azzurri, tipico prototipo dell’uomo bianco, che non è di stampo colonialista, ma è uno studioso dell’arte igbo e un inconcludente scrittore» (Antonella Bontae)
Adichie, come nei suoi discorsi, dà voce a chi la Storia lo subisce: i bambini soldato, le donne tradite dai mariti patrioti, gli intellettuali disillusi. Il titolo stesso – “Metà del sole giallo” – viene dal simbolo della bandiera del Biafra, ma anche dalla fragilità di un sole che non splende più su nessuno.
La scrittrice nigeriana ci ricorda che la guerra non ha un unico volto: è fame, è amore tradito, è propaganda, è un bambino soldato che diventa stupratore. E soprattutto, è una storia che l’Occidente ha spesso ridotto a “tragedia africana”, mentre Adichie la restituisce come storia universale di resistenza, fragilità e sopravvivenza.

“La storia non è solo quella dei vincitori, ma anche quella di chi l’ha vissuta con gli occhi pieni di domande”

A più voci abbiamo rilevato l’orrore dell’attualità della guerra, nel periodo storico che stiamo vivendo «con il conflitto russo-ucraino e quello israeliano- palestinese e il genocidio dei civili» (Antonella Bontae). «Stiamo ancora alle guerre tribali. Mi sono coinvolta in maniera molto emotiva… Non è possibile non allargare la visuale ai panorami bellici attuali. La Guerra non si fa più al fronte, ma viene subita dalle popolazioni». (Stefania Cenciarelli). E ancora la riflessione su «la comunicazione di guerra che si auto riproduce con una enfasi che mi aveva colpito perché mi pare di rinvenirla nelle comunicazioni di guerra attuali degli aggressori vedi Putin vedi Netanyahu e contemporaneamente mi faceva pensare alla comunicazione di guerra esaltata falsa e fuori le righe del regime fascista all’entrata in guerra» (Leila Falà).
Rossella Caleca ha arricchito questa prospettiva con un’esperienza personale drammatica, raccontando l’incontro con Dorotea, sopravvissuta al genocidio ruandese: «Durante la mattanza degli Houtu contro i Tutsi, nel college cercavano uno per uno i Tutsi, sia dai lineamenti che dai cognomi, aprivano le stanze e ammazzavano come racconta Chimamanda». La sua conclusione è amara ma necessaria: «Ho capito allora che siamo stati noi a creare questa aberrazione, perché abbiamo disegnato sulla carta gli Stati, unendo popoli che non avevano niente a che fare».
L’elemento emotivo ha attraversato tutti gli interventi: «Commovente è l’aggettivo che ho avuto sempre in testa mentre leggevo il romanzo. Questa commozione deriva dalla consapevolezza odierna che nessuna di quelle speranze si è affermata, malgrado gli enormi progressi fatti in tanti ambiti sociali» (Stefania Cenciarelli). L’autrice è capace di «trasmettere emozioni e pathos, con uno stile abbastanza tradizionale, il romanzo te lo mostra però così bene che tu stai molto male». (Rossella Caleca). La scrittura e la capacità di coinvolgimento della scrittrice raggiungono l’apice quando ci fanno vivere con empatia l’orrore dello stupro che un bambino soldato è costretto a compiere per non essere ucciso dal branco dei suoi commilitoni.
Particolare attenzione, come sempre, alle personagge, che incarnano diverse sfaccettature della condizione femminile africana.
Antonella Ippolito nota la “contrapposizione fra le due sorelle e le figure delle madri e delle zie”, evidenziando come Adichie presenti “due ritratti femminili opposti: la donna istruita e passionale versus la madre possessiva e vampira. “Accanto a Olanna la sorella gemella, ma diversa, Kainene, manager cinica e pragmatica, l’unica che nella carestia sa trovare cibo «Ma alla fine è lei a svanire. Come se Adichie volesse dirci: anche i duri muoiono. Anche i calcoli non bastano». (Stefania Cenciarelli) E ancora, con loro,  la zia Ifeka  portatrice di saggezza femminista: «Non devi mai comportarti come se la tua vita fosse di proprietà di un uomo». (Antonella Bontae). Questo messaggio risuona attraverso tutto il romanzo, dal momento in cui Olanna si percepisce «come una donna in possesso della propria vita. Poteva essere qualunque cosa».
Ed ecco la riflessione che abbraccia passato e presente: «Vorrei un pensiero nuovo, svuotato di quello che già so e di quello che mi hanno insegnato, per poter con occhi nuovi giudicare il mondo con maggiore benevolenza, prima che smetta definitivamente di amarlo» (Stefania Cenciarelli) e la domanda finale, evocando il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari: «La campagna ‘Italia, ripensaci’ è volta a fare aderire anche il nostro Paese alla rinuncia delle armi di distruzione di massa. Ci riusciremo?» (Antonella Bontae)
Il romanzo di Adichie, attraverso le voci di questo gruppo di lettura, si è rivelato così non solo testimonianza storica, ma interrogativo urgente sul presente, i bambini del Biafra sono usciti dalla memoria compassionevole, ci hanno ricordato, con le parole di Ugwu che “il mondo taceva mentre noi morivamo” e ci siamo dette che il nostro compito è quello di non tacere più, insieme a loro.

Ringrazio tutte le Letturate, un grazie speciale a Nadia Tarantini che mi ha inoltrato i suoi appunti, attraverso i quali ho rivissuto la ricchezza e l’intensità dell’incontro.

Chimamanda Ngozi Adichie, Metà di un sole giallo, Einaudi 2022

 

 

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Maria Pia Lessi

Vivo tra Arezzo e Livorno, dove sono nata. Ho svolto l’attività di avvocata, fino al 2017, nei settori del diritto di famiglia e del lavoro, ora mi occupo di mediazione e formazione per lo studio di cui sono titolare. Dal 1998 al 2004 sono stata Difensore Civica, dal 2004 al 2010 assessora comunale nella mia città. Tra le fondatrici, nel 1984, del Centro Donna del Comune di Livorno, dal 2002, faccio parte dell’associazione femminista e antifascista Evelina De Magistris. Ho pubblicato interventi di argomento giuridico e non, faccio parte della redazione allargata di Leggendaria, sono socia della Società Italiana delle Letterate. Amo il mare, le piante, leggere, scrivere, con predilezione per fiabe, leggende e miti greci, adoro le mie nipoti.

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