È l’espressione usata dalla figlia di un detenuto, ma anche il titolo di un libro che raccoglie le voci dei detenuti, della suora volontaria che lavora con loro, della direttrice del carcere di Rebibbia, di volontarie e volontari
Di Maria Pia Lessi
“Ristretti nell’indifferenza” contiene 49 testimonianze dentro e fuori dal carcere, raccolte da Emma Zordan, suora volontaria nella casa di reclusione di Rebibbia ed è il n. 96 della collana Frammenti di memoria (Iacobelli), che attraverso ricordi e narrazioni prova a ritrovare il trascorrere del tempo che dà senso alla vita.
Dopo la prefazione di Matteo Zuppi, cardinale presidente della CEI, dell’autrice e di Antonella Rasola, direttrice del carcere di Rebibbia, vengono presentate le testimonianze di 19 detenuti, 5 ergastolani, 2 persone in semilibertà, 3 in detenzione domiciliare, 2 immigrati, 4 altri detenuti ed ex detenuti, tra cui una donna, 11 voci fuori dal carcere di familiari e amici, tra cui 7 donne, quattro volontari, tra cui 2 donne e una operatrice istituzionale, la garante per i detenuti per la città di Roma, Gabriella Stramaccioni.
Sono 49 voci, con accenti e toni diversi in un’unica sinfonia dove risuonano parole ricorrenti, valide per il carcere e non solo.
Il titolo “Ristretti nell’indifferenza” è espressione usata da Chiara Spiridigliozzi, figlia di un detenuto, che Lia Scianna, altra parente di detenuto, commenta osservando che “la parola ristretti mette ansia e la parola indifferenza orrore”.
Proprio da questa parola, indifferenza, è partito il laboratorio creativo di scrittura con i detenuti del carcere di Rebibbia e con gli altri soggetti che con loro operano.
Indifferenza, che si aggiunge alla pena e che appartiene anzitutto alla politica, che, come ricorda Gabriella Stramaccioni, “preferisce non vedere il carcere” e anche recentemente ha respinto proposte volte a ridurre il cronico sovraffollamento, come quella, presentata dal coordinamento dei garanti, di allargare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata a fine pena.
Indifferenza delle istituzioni, che si esprime attraverso i silenzi e i ritardi nella risposta alle “domandine” che scandiscono ogni attimo della vita dei detenuti.
lndifferenza di alcuni operatori (sempre sotto organico), medici, psicologi, giudici di sorveglianza che trattano chi è detenuto come un numero.
Indifferenza del mondo esterno che marca l’ex detenuto che cerca di rifarsi una vita.
Indifferenza di Dio stesso che sembra non ascoltare la preghiera invocata dal carcere.
Indifferenza come opposto della misericordia per Emma Zordan, che “semina sconforto, violenza, disillusione e che è condanna della fragilità” per Matteo Zuppi.
Il grande tema che percorre tutte le testimonianze è il tempo, presente e futuro. Un tempo molto diverso per i detenuti “fine pena mai” spossessati del loro tempo dall’ergastolo, che non hanno speranza di uscire dall’inferno di una vita che è solo sopravvivenza, e per chi ha invece prospettive di semi di libertà, arresti domiciliari, reinserimento nella società.
Molti carcerati scrivono che non si sentono scarti, ma persone; se chi è condannato al fine pena mai arriva a scrivere “io sono l’ergastolo “, molti affermano “non sono il mio reato “, e trovano nell’amore per la famiglia, per i figli e per se stessi, la forza per reagire alla depressione e alla disperazione per salvarsi, migliorarsi nonostante il carcere.
E qui avviene l’incontro con i e le volontari/e che dedicano ai detenuti il loro tempo, incontro individuato a più voci come la migliore medicina contro l’indifferenza.
Se infatti per molti il carcere è cinghia di trasmissione di nuova delinquenza e dunque circolo vizioso, chi incontra operatori capaci di fare la differenza, nei laboratori teatrali, di scrittura, nelle proposte di lettura, di riprendere gli studi, si apre a nuove prospettive e può arrivare a “non sentirsi più uguale a quello che è stato”.
Tra le testimonianze emergono le storie dei diversi personaggi, Cosimo Rega, performer teatrale che dopo 40 anni di carcere, è morto poco dopo avere riacquistato la libertà, Luciano, che non ce l’ha fatta, uno dei suicidi che ogni quattro giorni avvengono in carcere, gli immigrati, che non possono tornare indietro, l’unica donna detenuta, Elena, dal carcere di Mantova, che sceglie di camminare verso la luce superando la paura.
Le parole di Emma Zargan, che ha curato il testo e di Ornella Favero, che ha curato analogo laboratorio nel carcere di Padova, danno il respiro della capacità di ascolto, di empatia, di immedesimazione nell’altro di cui chi è privato della libertà ha necessità come l’aria.
Un testo che ci tuffa senza sconti in realtà dolorose e problematiche, come emerge dalla recente divulgazione dei dati da parte di Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino: un sovraffollamento del 124%, al 30 settembre 2023, 75 detenuti per operatore educativo, 57 istituti senza direttore titolare e 15 senza neppure reggente, 43 direttori che gestiscono più di una struttura, personale sottodimensionato compresi i magistrati di sorveglianza, tanto da parlare di una crisi umanitaria di fronte alla quale occorre un cambio di approccio, considerare il carcere ultima risposta al crimine e offrire a chi ha commesso reati il supporto per evitare la spirale della marginalità e della criminalità.
I penitenziari devono servire a chi vi è rinchiuso, non contro di loro, come ha scritto Davide Dionisi.
Questo buio scenario si illumina quando si incontrano esperienze volte a far diventare persone nuove chi è caduto in errore.
In questo senso ricordo l’inaugurazione avvenuta il 25 ottobre 2023 nel carcere di Palermo della “stanza della meditazione” in cui personale e detenuti insieme potranno fruire di uno spazio dedicato alla cura di sé, a percorsi di educazione alla consapevolezza, alla responsabilità, alla libertà, progetto promosso dall’organizzazione di volontariato My life Design fondata da Daniel Lumera col supporto dalla direttrice della casa circondariale Pagliarelli Maria Luisa Malato e la messa in scena, il 9 e 10 novembre al Teatro India di Roma e successivamente in una tournée nelle carceri e Rems del Lazio, di Olympe de Gouges, tratto dal romanzo “La donna che visse per un sogno”, di Maria Rosa Cutrufelli, frutto del progetto de Le Donne del Muro Alto con le detenute e ex detenute del carcere di Rebibbia dell’Associazione Per Ananke, regista e ideatrice Francesca Tricarico.
Emma Zordan, Ristretti nell’indifferenza. Testimonianze dentro e fuori il carcere, Iacobelli, Roma 2023
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Maria Pia Lessi
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