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La creatrice, insieme al marito, del premio Strega, scrisse due celebri romanzi in cui sono protagoniste Lucrezia Borgia e Isabella d’Este, ma non trascurò la vita di Gaspara Stampa, Andrea Mantegna o di molti dei Gonzaga. Amica di molte scrittrici del suo tempo, scrisse a “La Stampa”: «Io vorrei, caro Direttore, che diventasse regola di civiltà rispettare il lavoro delle donne. Noi che scriviamo siamo avvezze ad essere fraintese, e sappiamo che capire chi non ci capisce deve essere uno dei nostri esercizi di pazienza»

di Paola Meneganti

«Quanta fatica sostenere i fatti storici, le intenzioni
e la realtà a uno stesso grado di calore inventivo e rappresentativo” (Diario)

«E’ un enigma degli studi letterari la scarsa considerazione che la critica ha avuto nei confronti di Maria Bellonci, la capostipite del romanzo storico delle donne»: sono parole di Monica Farnetti. Una questione cruciale, quella del romanzo storico delle donne, che, declinato dalle scrittrici, ha disseppellito vite femminili, sempre secondo Farnetti.
Maria Bellonci (nata nel 1902 e scomparsa nel 1986) è stata la prima a voler dare questa luce, con attente ricerche su quel che giaceva negli archivi e su quello che la storia tace, una luce che si proietta su figure di donne che sono figure di libertà, di forza, di grande ingegno. Una forza che deriva dal desiderare ardentemente qualcosa.
I suoi testi sono intessuti di una partecipe attenzione al destino delle donne. Già nel 1929 apparve un suo articolo sul “Popolo” di Roma, intitolato “Letture di fanciulle”: il primo di una serie di pezzi, pubblicati due volte al mese nella rubrica “L’altra metà”, in cui Bellonci parlava della donna nella storia e nella vita sociale, e del «fermento grandissimo che agita le anime femminili», «teso a cercare una forma di vita inedita».
Scrivendo, come vedremo, alcune pagine su Andrea Mantegna dirà, della moglie del pittore Nicolosia Bellini (figlia di Iacopo e sorella di Gentile e Giovanni Bellini): «piacerebbe avere di Nicolosia qualche briciola di notizie personali […] I magri documenti su Nicolosia ci dicono soltanto che ella visse col marito in un accordo che non abbiamo ragione di credere solo apparente; morì prima di lui e allevò alcuni figli, ragazzi operosi e mediocri pittori».
Non per caso, nel Piccolo libro delle consolazioni segrete, un diario tenuto fra 1936 e 1937, Bellonci testimonia la nascita di un’amicizia profonda, segnata dall’interesse comune per i destini delle donne, e in particolare per il loro diritto all’affermazione intellettuale, con Anna Banti, autrice di quell’Artemisia che avrebbe restituito verità storica e comprensione profonda alla pittrice Artemisia Gentileschi.
Dalle lettere di Banti conservate nell’archivio Bellonci (della corrispondenza fra le due scrittrici restano solo le sue lettere, poiché Banti distrusse quelle di Bellonci con molti altri documenti verso la fine della vita), come anche dal Diario breve 1938-1943 (conservato anch’esso presso la Fondazione Bellonci) emerge che, ricevute dall’editore le bozze del libro su Lucrezia Borgia nel 1938, Bellonci ebbe frequenti scambi attenti e partecipi con l’amica. Sembra fra il 1969 e il 1970, il rapporto tra le due autrici si interruppe.
Occorre notare che tra il 1931 e il 1937 uscirono Un filo di brezza di Gianna Manzini, Monte Ignoso e Periferia di Paola Masino, Cortile a Cleopatra di Fausta Cialente, Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes, i racconti presenti in Angelici dolori di Anna Maria Ortese, Itinerario di Paolina di Anna Banti. Opere di scrittrici che, secondo Massimo Onofri: «tennero vivo tra loro una specie di “dialogo silenzioso”, come ha notato Laura Fortini nel II tomo del IV volume delle Opere della Letteratura italiana curata da Asor Rosa, in un saggio dedicato alla de Céspedes».
Non ha forse giovato al giusto riconoscimento del valore della scrittrice il fatto che avesse sposato Goffredo Bellonci, italianista e critico letterario, a cui – lui già uomo maturo (nato nel 1882) – la giovane Maria, nata Villavecchia, si rivolge, nel 1922, sottoponendogli un suo primo scritto, il romanzo Clio o le amazzoni. Bellonci lo giudicò promettente, ma la invitò a studiare e ad approfondire. Iniziò la loro frequentazione: si sposeranno nel 1928. Nei suoi diari, Maria Bellonci parla spesso del marito in termini di grande amore. «La mia gioia è andar via con Goffredo per le strade e per le piazze, e sentirmi non legata da nulla che non sia vero amore. Il resto non ha importanza». Goffredo Bellonci morirà nel 1964.
A titolo di esempio, voglio citare Margherita Ganeri che scrive, parlando di Elsa Morante: «come già per la Banti e la Bellonci, anche la Morante doveva il suo ruolo socialmente riconosciuto, almeno inizialmente, al prestigio del marito Alberto Moravia» e denuncia, riguardo a tutte e tre, il loro far parte di un ambiente profondamente borghese.
Su Maria Bellonci ha anche pesato l’aura di mondanità in cui l’aveva collocata la creazione del premio Strega. Già nel 1944, alcuni amici letterati iniziarono ad incontrarsi dai Bellonci, in viale Liegi a Roma. «L’idea di radunarsi era per me legata all’idea di una festa ornata di rami verdi e di fiori, forse un ricordo di collegio, o meglio un riferimento umanistico come la festa di Virgilio a Pietole che avevo ricreato e vissuto con i personaggi delle mie storie». Si costituirà un gruppo di “amici della domenica” (Bontempelli, Paola Masino, Piovene, Savinio, Palma Bucarelli; si aggiungeranno man mano Silone, Alba De Cèspedes, Gianna Manzini, Gadda, Longhi e Anna Banti, Flaiano, Pannunzio, Sibilla Aleramo, Ungaretti, Carlo Levi, Moravia e Morante…) che avrebbe dato vita al premio Strega, così chiamato perché finanziato dal produttore del liquore Strega, Guido Alberti, la cui prima edizione si sarebbe svolta nel 1947.
L’idea di Maria Bellonci era di istituire un premio che, dopo gli orrori della guerra, fosse di concreto aiuto alla rinascente letteratura italiana. «Emersi da un’avventura così tragica con tanti spaventi ancora sottopelle e le lancinanti brutalità della guerra tuttora vicine e presenti, ci sorprendevamo a ridere spesso per rifarci degli anni angosciati […] Stando insieme, come eravamo stati negli anni clandestini, sentivamo però di medicarci e avevamo l’intuizione, non del tutto chiara, che potevamo rassicurarci gli uni con gli altri; sentivamo le nostre radici immerse nel comune dolore ansioso, esigente, e qualche volta ambiguo della Resistenza».
Scrive Valeria P. Babini nel suo bellissimo Parole armate, riferendosi ad un articolo di Bellonci dal titolo Frammento di confessione apparso sulla rivista “Mercurio”, diretta da Alba de Céspedes, nel dicembre del 1944: «[…] la scrittrice ritornava con il pensiero alla difficoltà vissuta dalle donne durante quel lungo e doloroso periodo della guerra di Liberazione. Riconosceva che essere donne era stato più che mai difficile, ma bisognava dimenticarsene e accettare le cose così come stavano: fidarsi dell’intuizione secondo cui l’esperienza che le aveva coinvolte appariva “misteriosamente giusta in tutti i suoi episodi”. Svelava poi che per le donne portare nascosti in tasca giornali clandestini, mettere in collegamento uomini che dovevano stare rinchiusi in casa, preparare per loro un rifugio, avvertire gente minacciata, occuparsi degli altri era stato in quel caso un sollievo. Non era stato più un atto naturale, una missione iscritta nel loro corpo, bensì una partecipazione sociale e politica alla guerra di Liberazione. L’agire semplice e generoso delle donne significava che cominciavano davvero a “uscire dalla palude femminile d’inettitudine e di pigrizia spirituale” e a meritare quel sentimento grave e fin religioso che avvertivano dentro i loro cuori alle parole verità e giustizia: “Ecco perché”, concludeva, “quando Paola (Masino, n.d.r.), scendendo una scala ripida mi disse intensamente: “Mai più tornerà un tempo così pieno per noi” mi prese un momento di vertigine, ma potei acconsentire».
La storia del premio è intessuta di fasti e di crisi: e, conscia del suo aspetto mondano, la scrittrice sapeva giocare anche con la sua immagine, adornandosi di gioielli, guanti di pizzo e mantelli di velluto. Raccontò Elsa Morante che, guardando l’episodio de “I mostri” di Dino Risi, intitolato “La musa”, con Vittorio Gassman en travesti nella parodia della patronessa di un premio letterario, Maria Bellonci rise di gusto, poi si voltò e ingiunse: «Se provate a dire che quella sono io, vi denuncio!».
La scrittrice ha ricordato le edizioni dei suoi tempi in un libro del 1970, Come un racconto. Gli anni del Premio Strega, in cui emerge, già all’inizio dell’impresa, la premonizione di avviare «qualche cosa di temerario in quella invenzione che prima o poi mi sarebbe costata caro», di «avere architettato una polveriera», la cui gestione avrebbe richiesto così tante energie da comportare un «danno piuttosto grave» al suo lavoro di scrittrice.
Proprio nel 1947, Bellonci si pone il problema dei giovani autori. «Ma c’erano anche i giovanissimi; ed essi trovavano difficoltà a pubblicare i loro libri. Così mi venne l’idea di istituire un altro premio per opere inedite… alla fine si impose per alcuni racconti di una forza sapientemente aggressiva e per un potente realismo fantastico un manoscritto del tutto sconosciuto composto di tre racconti e intitolato Il fosso… scoprimmo che si trattava di una donna, Laudomia Bonanni di Aquila».
Nell’estate 2003 l’archivio privato di Maria e Goffredo Bellonci arrivò alla Biblioteca Nazionale di Roma. Conteneva anche 36 lettere di Laudomia Bonanni.
Le polemiche spesso erano feroci, le rivalità accese, gli schieramenti, anche sulla stampa dell’epoca, molto frequenti. Bellonci lo narra, pur con compostezza e senza indulgere al pettegolezzo, non senza stigmatizzare l’atteggiamento misogino di tanti. «Quell’anno [1948] entrava in gara il libro di Anna Banti Artemisia, opera che calamitava subito la stima della critica e dei lettori raffinati». Dalla prima votazione risulta quasi un testa a testa tra il poeta Vincenzo Cardarelli e Banti. «La poca differenza, pur rivelando la tendenza di dare un riconoscimento al vecchio maestro poneva in luce un libro di qualità sostenuta di una scrittrice già molto considerata. E poiché tutti i casi si dovevano presentare, quell’anno se ne presentò uno tipico che rivelava la subcosciente avversione, riducibile solo a forza di logoramento, degli uomini italiani per le donne d’ingegno. Il giornale “La Stampa”, difatti, parlò di “schieramento” indicando i due più quotati scrittori, Cardarelli e, appunto, la Banti; ma lo schieramento per lei era definito “galante”. Protestai non tanto per la Banti che non aveva bisogno di essere difesa ma per sottolineare quanto offensivo fosse questo costume anche se tradizionale; ma non mi stupii che mi si rispondesse garbatamente che si era inteso fare un complimento: la galanteria sembrando agli scriventi il massimo segno di consenso al quale una donna possa aspirare».
Bellonci scrisse quindi al direttore del quotidiano una Difesa delle scrittrici: «Io vorrei, caro Direttore, che diventasse regola di civiltà rispettare il lavoro delle donne […]. Noi donne che scriviamo siamo avezze ad essere fraintese, e sappiamo che capire chi non ci capisce deve essere uno dei nostri esercizi di pazienza».
Nelle edizioni successive, vivente Maria Bellonci, sarebbero state premiate cinque autrici.
Nel 1957, Elsa Morante, con L’isola di Arturo: «Sul tema “scrittrice al premio Strega” s’immagina facilmente quanto si sia scritto e in quali modi. I commentatori si dividono in due schiere: secondo alcuni le donne votanti (che naturalmente in certo modo io rappresenterei) da femministe quali sono favoriscono sempre le altre donne. Secondo altri, più numerosi e ottusi, figurarsi se le donne votano per le donne. In realtà le scrittrici corrono gli stessi rischi degli scrittori e forse qualcuno di più proprio per il fatto così limitativo in Italia, di essere donna […] in realtà, sono gli uomini a non votare per le scrittrici e molto spesso a non leggere i loro libri».
Nel 1963, intorno al premio Strega ancora polemiche sulle scrittrici: «facevo osservare… [che gli uomini] possono essere accusati di misoginismo mettiamo pure inconscio». Vinse Natalia Ginzburg con Lessico famigliare: «successo che consegnò alla fama più estesa e popolare una scrittrice come la Ginzburg… una storia di una finezza ironica e come complice. E nella complicità si percepiva una sottile vibrazione di tenerezza insieme affettuosa e vendicativa».
Nel 1967, la vittoria va a Anna Maria Ortese con Poveri e semplici. «Anna Maria Ortese era ed è tuttora una scrittrice nello stesso tempo nota e ignota. Il suo dolore costante d’essere una creatura umana sembra una grazia, ma a legger bene le sue pagine si sente in lei qualche cosa di teneramente sibilante che la fa in certo modo simile alla protagonista della sua fantasiosa Iguana».
Avrebbero poi vinto, prima della scomparsa, nel 1986, di Maria Bellonci, Lalla Romano, nel 1969, con Le parole tra noi leggere e Fausta Cialente, nel 1976, con Le quattro ragazze Wieselberger. A Bellonci il premio sarebbe stato conferito, postumo, per Rinascimento privato.
Bellonci si occupò anche di traduzioni (Stendhal, Dumas, Zola, Verne) e collaborò con la RAI dal 1951. Iniziò con la rubrica radiofonica Scrittori al microfono, e in seguito approdò alla televisione, prima con il programma mensile La donna e il secolo, poi con il ciclo Milano viscontea (1953), il programma Racconti di viaggio del 1955-57, fino alla rubrica Taccuino.
In seguito, il racconto Delitto di Stato sarebbe stato sceneggiato dalla Rai in due puntate, con la regia di Gianfranco De Bosio.
E ancora, Maria Bellonci spaziò nel campo della critica letteraria, scrivendo una bella introduzione alla riedizione delle Rime di Gaspara Stampa, pubblicata da Rizzoli nel 1954. Così ne scrive: «[Gaspara Stampa], la maggiore poetessa del suo tempo e a parere di molti (anche mio) la maggiore poetessa italiana in assoluto, sta sotto un segno che oggi possiamo riconoscere e circoscrivere esattamente: il segno della diffidenza dell’ostilità e della propensione magari inconscia alla condanna che accompagna ogni opera compiuta da una donna specie se si tratta di un’opera libera che ingenuamente e naturalmente esige la sua giusta collocazione». Rifiutando seccamente le congetture che per secoli erano state fatte sul suo essere stata o meno una cortigiana, Bellonci scriveva che l’unica possibile «verità vera sta nel riconoscere il valore poetico dei versi di questa giovane donna», la sola che fu capace di squarciare «il brusio dei molti petrarchisti italiani» stretti tra il Bembo e l’Aretino.
Intervistata in una trasmissione nel 1951, alla domanda sul perché scegliesse protagonisti del passato, rispose: «Ma perché il passato è un continuo presente! Non esistono personaggi immaginari come non esistono personaggi storici: esistono solo personaggi vitali e non vitali». Lo scopo dichiarato della ricerca di Bellonci era quello di offrire «non tanto una revisione storica o una ricerca d’archivio, quanto una interpretazione di tempi e di caratteri». Emerge bene dalla vera e propria dichiarazione di poetica contenuta nell’appunto di un’agenda, datato 3 agosto 1976: «Io conduco la mia stessa ricerca con tale forza di soggettività che il documento si agita di nuovo, diventa romanzo mio dei protagonisti e dunque verità per voce delle parole scritte. Questa facilità di fare del documento romanzo è solo mia ed esprime il mio temperamento di scrittore».
Lo studio rigoroso del documento, sia protocollare che privato, conduce ad una puntuale analisi dei meccanismi del potere unita all’indagine psicologica dei personaggi e delle personagge.

Le figure femminili dei romanzi di Bellonci su cui ci concentreremo sono Lucrezia Borgia Sforza d’Aragona d’Este e Isabella d’Este Gonzaga. Profondamente diverse tra di loro, per via delle politiche dinastico-nuziali divennero cognate: Lucrezia, infatti, in terze nozze sposa il fratello di Isabella, Alfonso I d’Este.
Bellonci studia per tutta la vita, frequentando archivi e esaminando file e file di filze documentali, soprattutto le famiglie d’Este e Gonzaga, ma anche gli Sforza ed i Visconti: dal 1939, anno di uscita di Lucrezia Borgia (su cui l’autrice lavorava sin dal 1930), al 1985, quando viene pubblicato Rinascimento privato. La morte la coglie mentre ancora lavora ad un libro su Vespasiano Gonzaga. Aveva inoltre dedicato un racconto lungo, presente ne I segreti dei Gonzaga (1947), intitolato Il duca nel labirinto, a Vincenzo Gonzaga, nipote di Federico II Gonzaga, quindi bisnipote di Isabella d’Este Gonzaga: un racconto in cui spicca una donna molto famosa nella sua epoca (l’ultimo Cinquecento), Barbara Sanseverino Sanvitale, contessa di Sala, cantata da Torquato Tasso, ritratta dal Correggio e amata, appunto, dal duca Vincenzo.
Scriverà anche un bellissimo racconto su Dorotea Gonzaga, figlia di Ludovico II Gonzaga e di Barbara di Brandeburgo (personaggi centrali nella stupenda camera picta del Mantegna), ragazza immolata e umiliata sull’altare della ragion di stato, morta giovanissima. Il racconto si intitola Soccorso a Dorotea ed è presente nella raccolta Tu vipera gentile, uscita nel 1972.
Ma torniamo ai libri dedicati da Bellonci a Lucrezia e a Isabella, in cui, per citare l’autrice, assistiamo ad una «lievitazione di storie e di destini».
Libri di passioni e di ragioni, come scrisse la stessa Bellonci in una dedica a Geno Pampaloni, fine critico letterario. Libri di segreti: e la parola “segreto” ricorre spesso nella produzione di Bellonci. Segreti sono quelli dei Gonzaga. “Pubblici segreti” è il titolo della rubrica settimanale fatta di cronache letterarie, note di costume, ricordi personali, che la scrittrice tenne, prima per la rivista “Il Punto”, poi per “Il Messaggero”, dal 1958 al 1970. Rinascimento privato (in cui Isabella parla in prima persona, a differenza che in Lucrezia Borgia, scritto in terza persona) inizia con questa frase: «Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità».
Bellonci, situata in modo originale, affascinante e tuttavia rischioso, sul crinale tra il saggio, la biografia ed il romanzo, narra vite in costante dialogo e rimando con epoche e situazioni. In seguito alla lettura de Il principe di Palagonia di Giovanni Macchia, scrive in un’agenda: «Rimango sempre del parere che il protagonista è l’autore che manda avanti il suo personaggio per saggiare le sue intenzioni» (19 gennaio 1979).
Vedremo soprattutto nel libro dedicato a Isabella d’Este, Rinascimento privato, quanto sia presente il doppio movimento, ambiguo e fecondo, che porta dalla personaggia all’autrice e viceversa: un movimento interno al testo, un segreto ben mantenuto che possiamo accostare, alla luce di quanto Bellonci scrive il 17 novembre 1979: «Mi sento nervosa mi pare di stare male ma è soprattutto la responsabilità di scrivere […] Sento in me una forza segreta che aspira a venire fuori».
Di Lucrezia, di Isabella, dei suoi personaggi e personagge narra il “chi”: quella dimensione che secondo Hannah Arendt, riferendosi alla biografia, può autenticare l’individualità plurale del soggetto, il “chi si è”. Così facendo, la scrittrice narra anche il proprio “chi” altrettanto plurale: donna di/nel mondo e studiosa di archivi, amante della scrittura come esercizio fine e responsabile, e autrice di programmi mediatici per un largo pubblico.

Colei che dà il nome al romanzo Lucrezia Borgia, fu una nobildonna italiana (1480-1519), figlia illegittima e terzogenita di papa Alessandro VI e di Vannozza Cattanei, nonché una delle figure femminili più controverse del Rinascimento italiano.
Nel 1930, l’accademico Giulio Bertoni consegna a Maria Bellonci l’elenco dei gioielli di Lucrezia Borgia, da lui scoperto presso l’archivio di Stato di Modena, affinché ne faccia una comunicazione all’Associazione di Studi romani. Colpita in modo particolare da un’armilla che porta inciso al suo interno un distico di Pietro Bembo, Bellonci si sente chiamata a ricostruire la personalità e il mondo di Lucrezia: iniziano così molti anni di lavoro (l’inventario è pubblicato in calce ad alcune edizioni del volume su Lucrezia).
Incontrerà a Mantova lo storico Alessandro Luzio: «Entrò nel salotto, lo sguardo corrucciato sotto la papalina, e mi affrontò come un nemico: “Perché si occupa di quella stupida di Lucrezia Borgia?”’, lasciandomi senza fiato».
Il libro, assai documentato, minuziosamente volto a ristabilire la verità di Lucrezia, vide la luce nel 1939, dopo nove anni di ricerche e di studi. Edizioni successive riportano una sorta di intervista impossibile di Maria Bellonci a Lucrezia Borgia – di cui fu fatta anche una versione televisiva nel 1975. Alcune battute dell’intervista raccontano il modo con cui la scrittrice ha affrontato la storia della Borgia. Eccole:

MARIA – Tu. Tu luminosa, tu delicata, tu fuori dalla ragion di Stato (hai sempre detto che non ti occupavi di politica). E non ti sei accorta di essere spietata nell’esigere l’amore come tuo fratello Cesare Borgia era spietato nell’esigere il potere. Amore significa condividere; e tu hai mai condiviso la sorte di quelli che ti amavano? Ti fugge il marito di Pesaro (Giovanni Sforza, ndr) e tu non fuggi. Ti ammazzano crudelmente il marito aragonese (Alfonso d’Aragona, figlio illegittimo di Alfonso II di Napoli, ndr): piangi, ma non ti ribelli. Ti uccidono Ercole Strozzi, strumento dei tuoi amori, e non lo difendi … E intorno a te si muovono altre ombre indifese… Pedro Caldés, la tua donzella Pantasilea ritrovati morti nel Tevere; e il giovane prete Garzia, tuo familiare, pugnalato sotto i portici di Ferrara.
LUCREZIA – Io non sono mai stata colpevole. Io sono aliena da omicidi.
MARIA – Tu non hai tenuto conto di nessuno. Il Bembo è fuggito a tempo; e solo Isabella ha salvato l’incauto suo marito (Francesco II Gonzaga ebbe una relazione, probabilmente platonica, con Lucrezia, sposa del cognato Alfonso d’Este, ndr) e ha saputo tenere lontani i fratelli estensi da un altro delitto di famiglia.

Il libro sfata le vere e proprie calunnie che si erano addensate su Lucrezia, a lungo accusata di essere una avvelenatrice e di avere rapporti incestuosi con il padre pontefice e con il fratello Cesare, il sanguinario duca Valentino. Leggiamo, nella “Nota generale” posta al termine dell’opera, queste parole di Bellonci: «Scrivendo questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare processo ai Borgia, quanto di rappresentarli nel loro modo quotidiano, caldo e naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana di individui, non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ella è stata di tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai paladini: un vero destino da donna». E, in una lettera all’editore Mondadori: «Si tratta di un’opera alla quale lavoro da due anni assiduamente: ho voluto seguire la vita veramente straordinaria di questa donna sui documenti del tempo, numerosissimi, sparsi in tutti gli archivi d’Italia. Ho avuto la fortuna di trovare molte cose inedite che mi permettono di ricostruire questa vita con una novità di prospettiva che, credo, stupirà tanto quelli che sono avvezzi a vedere nella Borgia il simbolico fiore del male, quanto quelli che addirittura vorrebbero fare di lei un innocente fiorellino sbattuto dalla tempesta».
Bellonci parla dell’«esistenza oscillante di Lucrezia quale era imposta a lei dalle circostanze e dalle ambizioni dei suoi familiari, ma quale ella accettava e sarebbe andata sempre meglio accettando. Non nella sua debolezza, ma nella fatalità intima dei suoi assensi ognuno dei quali è una capitolazione, sta il vero dramma di Lucrezia: e, a questo lume, il suo modo di non voler conoscere e di non voler sapere quello che le accade dintorno appare una difesa femminile, nata dall’istinto, misera, ma patetica e coraggiosa. Innalzarsi tanto da giudicare il padre e i fratelli non lo potrà mai, meno per incapacità di giudizio o per tenerezza di cuore, che per una verità più violenta ed elementare: perché anche lei è una Borgia, e sente anche lei la forza di quel sangue che le fa impeto e che si dà ragione da sé, fuori da ogni morale, brutalmente e splendidamente. Solo in tempi più tardi, dal disordine della sua anima che sta fra la religione e la sensualità, fra la volontà di una vita disciplinata e l’ardente anarchia dei desideri, saprà levarsi a intraprendere contro il padre, contro il fratello o contro il suocero duca di Ferrara quelle sue ribellioni che la condurranno, sola fra i Borgia, a salvarsi».
A Ferrara, Lucrezia acquistò la fama di abile politica e accorta diplomatica. Il marito le affidava la conduzione amministrativa del ducato quando doveva assentarsi. Fu una generosa mecenate, accogliendo a corte poeti e umanisti come Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino e Ercole Strozzi. Dal 1512, iniziò a indossare il cilicio, s’iscrisse al terz’ordine francescano, si legò ai seguaci di San Bernardino da Siena e di Santa Caterina e fondò il Monte di Pietà di Ferrara per soccorrere i poveri. Morì nel 1519, a trentanove anni, sfiancata dalle tante gravidanze.

«[…] Lucrezia si era quietata, pareva stesse ormai senza capire. Eppure, laggiù dove lei giaceva, qualche cosa doveva ancora arrivare a toccarla: era il colore del cielo di Subiaco, e si sentiva in basso rotolare l’Aniene, mentre al riso carnoso di Vannozza seguivano, scoccati, i baci materni dall’odor di vaniglia. Era il rosso della porpora cardinalizia abbagliato e vinto dal bianco trionfale della veste pontificia, e il gran viso di Alessandro VI tutto aperto alla luce d’agosto. […] Roma andava vaporando in una polvere rosea, di sera, mentre la campana del Campidoglio commentava ed esaltava i fasti borgiani. Forse a questo rombo che sembra arrivare da un tempo remotissimo, da un’eternità umana, con una voce che ha tanto di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel nevoso mattino d’Epifania. E come allora sospirò appena, quando qualcuno disse che bisognava partire».

Lucrezia Borgia e il suo tempo uscì nel 1939, con successo di pubblico e traduzioni in tedesco, ungherese e spagnolo. In luglio vinse il premio Viareggio ex aequo con Arnaldo Frateili e Orio Vergani.
Poi venne il libro dedicato a Isabella d’Este. «Ho capito finalmente il senso della famosa (per me) allocuzione di Ludovico il Moro ai soldati con l’esaltazione della guerra contro la cultura. Nel mondo universale dell’umanesimo, mondo di pace in quanto mondo universale di cultura, e di vivere disteso, la guerra dei barbari del nord, le armi nuove, le determinazioni di crudeltà furono una rivelazione fragorosa di una realtà di ostilità che contrasta con la vagheggiata età dell’oro dello spirito. Questa idea qui accennata appena sarà l’idea base di Isabella libro» (da un’agenda di Maria Bellonci, 19 ottobre 1976).
Nel romanzo  , Isabella d’Este Gonzaga si racconta e racconta: in un muoversi emozionale ed intellettuale si palesa il suo “chi”. Si disvela il suo segreto custodito gelosamente: «esisteva uno spazio mio segretissimo», che emerge dal contrappunto di riflessioni ed emozioni che le suscitano le lettere (dodici) che riceve dal prelato inglese Robert de la Pole, il quale però, ed è qui un grande punto di efficacia narrativa, è l’unico personaggio inventato nella moltitudine che popola il romanzo. Bellonci prende spunto dalla sua vicenda personale per inventare l’ammiratore segreto della marchesa: uno studioso del Rinascimento, André Desjardins, si scusava in una lettera indirizzata a lei di averle tenuto segreto il suo sacerdozio nel loro incontro di qualche anno prima.
L’espressione «spazio mio segretissimo», che ricorda il cuneo d’ombra della signora Ramsey di Virginia Woolf, rimanda anche ad una dimensione ambivalente del desiderio che Bellonci trova in tutte le sue personagge, sino a farci leggere, dietro le righe, una sorta di proiezione di sé.
Il romanzo, uscito nel 1985, parte da un presente fissato in un anno e in un luogo precisi: 1533, stanza degli orologi del palazzo di Mantova. Ecco l’inizio:

«Il mio segreto è una memoria che agisce a volte per terribilità. Isolata, immobile, sul punto di scattare, sto al centro di correnti vorticose che girano a spirali in questa stanza dove i miei cento orologi sgranano battiti diversi in diversi timbri. Se alzo il capo li vedo fiammeggiare, e ad ogni tocco di fuoco corrisponde un’immagine. Sempre sono trascinata fuori di me dalla tempesta di vivere. Che cosa è il tempo, e perché deve considerarsi passato? Fino a quando viviamo esiste un solo tempo, il presente. Una forza struggente mi prende alle viscere: costruttiva o devastatrice non mi è dato di sapere; è senza regola, almeno apparente».

Vi emerge la Isabella reggitrice del marchesato, colta, determinata, dotata di intelligenza fine e vivace, spesso spregiudicata, e si palesano, anche, momenti di collera, di smarrimento, di meschinità, e di sagace ironia (a Cesare Borgia che, durante laboriose trattative, mai concluse, per un matrimonio tra la propria figlia e il primogenito Gonzaga, reclamava l’assicurazione sulla dote, fa dire che non ha denaro liquido sufficiente: «ha i suoi gioielli, sì, ma un gentiluomo come potrebbe pensare a toglierglieli ora che lei è giovane e può goderseli, per riconsegnarli fra quindici anni, al matrimonio del figlio, quando sarà vecchia?».
Conscia della debolezza di Mantova, un vero e proprio vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, Isabella deve muoversi tra «le correnti francesi (il re Carlo VIII scese in Italia, dando il via ad una serie di invasioni, chiamato da Lodovico Maria Sforza detto il Moro, reggente di Milano, il quale sposò, dopo essere giunto troppo tardi per richiedere Isabella, la di lei sorella Beatrice), le correnti veneziane, quelle tedesche di Massimiliano e spagnole di Ferdinando il cattolico, e poi quelle imperiali di Carlo V; le correnti papali, e le minori, fiorentine, napoletane, tutte investivano Mantova».
In questo sottile e pericoloso giostrarsi tra alleanze, mutamenti di interessi e veri e propri tradimenti (scrive Bellonci «un giocolare asciutto e leggero nei tempi sfilacciati o sregolati, o in quelli presi d’assalto con una sùbita decisione radente il calcolo del minuto»), Isabella cercherà sempre, ricambiata, l’appoggio del fratello Alfonso I d’Este.
«Essere nata in casa d’Este», scrive Bellonci, «conterà sempre per Isabella come una ragione di restare scrupolosamente fedele a se stessa; discendere da quella superba dinastia (e per parte di madre dagli Aragona re di Napoli) le rinvigorisce la persuasione di una propria personalità forte per diritto, per diritto rispettabile; un grado più su, ammirabile». Isabella era infatti la figlia maggiore del duca di Ferrara Ercole I d’Este, detto il Tramontana, e della principessa Eleonora d’Aragona, figlia del re di Napoli Ferdinando I. Pur non potendo aspirare a divenire duchessa di Ferrara, in quanto femmina, ricevette un’educazione eccellente e incantò letteralmente la corte di Mantova quando, essendo stata promessa in sposa a Francesco II Gonzaga, erede al marchesato di Mantova, all’età di sei anni, si recò in visita alla corte gonzaghesca. Scrisse infatti la madre che «epso padre et figliolo gli portano tanto dolce amore che pare non habiano altro ochio in testa, et pare che questa sia tuto il suo bene». Isabella ammirava Francesco per la sua forza e il coraggio. Dopo i loro primi incontri, scoprì che le piaceva la sua compagnia e trascorse gli anni seguenti a conoscerlo, preparandosi a essere la marchesa di Mantova. Durante il loro corteggiamento, Isabella apprezzò le lettere, le poesie e i sonetti che le mandò in dono. La madre si premurò di ritardare il più possibile le nozze (scrisse in una lettera che la figlia era ancora «teneretta»), che ebbero luogo il 12 febbraio 1490, quando Isabella raggiunse i quindici anni e mezzo, e Francesco i ventitré.
Francesco, figlio di Federico I Gonzaga e di Margherita di Wittelsbach, sorella del duca di Baviera, che nel frattempo era diventato marchese, in seguito alla morte del padre nel 1484, si dimostrò valido soldato, ma non aveva la stoffa né del comandante, né del politico. Isabella cresce in capacità e in autorità, specie quando si fa reggitrice del marchesato durante le assenze del marito, e inizia a dimostrare una propensione a muoversi, a viaggiare («un’avida irrequietudine dei moti»), non sempre compresa dal marito, che via via mal tollererà la presenza di Isabella negli affari di stato, pur consapevole, tra l’altro, di doverle l’onore e la vita, come in occasione della prigionia a Venezia, fino a scrivere che «havemo vergogna di havere per nostra sorte una mogliere che sempre vol fare di suo cervello». E Isabella dirà, parlando di Elisabetta Gonzaga, sua cognata, sposa di Guidobaldo da Montefeltro, che ella stima, ammira e a cui vuole bene: «l’ammiravo con una commozione senza limiti; e quel mio marito forte che mi stava dinnanzi, mi fece una sorta di pena; nulla era più lontano da lui e dai suoi pari quanto l’idea che una donna possa confermarsi in una sua scelta, non per rivalsa o affermazione ambiziosa ma per naturale accordo della mente e del cuore».
Avrà un rapporto difficile anche con il figlio Federico (1500-1540), quinto marchese di Mantova dal 1519, primo duca di Mantova dal 1530, marchese di Monferrato nel 1533, che si ribellerà al disegno materno di plasmarlo secondo la ragion di stato, compresi i disegni matrimoniali (Isabella non tollerava l’amore di Federico per Isabella Boschetti, detta “la bella Boschetta”, per la quale egli fece erigere da Giulio Romano, intorno al 1525, Palazzo Te fuori dalle mura di Mantova, che divenne luogo dei suoi svaghi e di ricevimenti per ospiti illustri; e una storia a parte, incredibile e tragica, è quella dei rapporti a scopo matrimoniale con le Paleologhe, Maria e Margherita, eredi del marchesato del Monferrato).
Isabella, inoltre, si batterà per far salire al soglio cardinalizio il figlio cadetto Ercole e per favorire la carriera militare dell’altro figlio Ferrante. Non dimostrò lo stesso interesse per le tre figlie che divennero adulte: quasi che ritenesse uno spreco, in un certo senso, dedicarsi a figlie femmine che, in quanto tali, avevano un destino segnato dal convento o da un matrimonio di scambio. Parlando di Eleonora dodicenne, che sposerà un duca d’Urbino, Isabella dice che «anche per lei procedeva il destino e non c’era modo di salvarla: già sul suo capo s’intrecciavano i disegni di nozze che potevano dare onore e vantaggio al nome dei Gonzaga». Le altre due figlie si faranno monache.
Ama la bellezza e si circonda di opere d’arte e di oggetti bellissimi, soprattutto «cose antique». Inventa uno stile tutto particolare di abbigliamento e di acconciatura (la “capigliara”, formata da capelli spesso posticci e da stoffe di seta arricciate, racchiuse in una rete accompagnata spesso da pietre preziose e perle).
Scrive e colloquia con il meglio della cultura della sua epoca, il Rinascimento. È munifica mecenate per grandissimi artisti. Per lei lavorarono i più famosi del tempo, vale a dire Giovanni Bellini, Giorgione, Leonardo da Vinci, Andrea Mantegna (pittore di corte fino al 1506), Perugino, Raffaello e Tiziano, ma anche Antonio da Correggio, Lorenzo Costa (pittore di corte dal 1509), Dosso Dossi, Francesco Francia, Giulio Romano e molti altri. Il suo “studiolo” nel Palazzo Ducale di Mantova era decorato con allegorie di Mantegna, Perugino, Costa e Correggio. Contattò i più importanti scultori e medaglisti del suo tempo, vale a dire Michelangelo, Pier Jacopo Alari Bonacolsi (l’Antico), Gian Cristoforo Romano e Tullio Lombardo, e raccolse antica arte romana. Nelle discipline umanistiche, Isabella ebbe rapporti con Pietro Aretino, Ludovico Ariosto (dal quale ricevette la prima copia dell’”Orlando furioso”), Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Mario Equicola, Gian Giorgio Trissino. In musica sovvenzionò i compositori Bartolomeo Tromboncino e Marco Cara e suonava il liuto lei stessa. Impiegò le donne come cantanti professionisti alla sua corte, tra cui Giovanna Moreschi, moglie di Marchetto Cara.
Pagine straordinarie di Rinascimento privato sono quelle che descrivono lo scisma di Enrico VIII (1534) ed il ritrovamento, a Roma, della statua del “Laocoonte”: a veder lo scavo accorrono, tra gli altri, Michelangelo e Giuliano da Sangallo. Vivide e drammatiche sono quelle dedicate al sacco di Roma del 1527 da parte dei Lanzichenecchi, in cui Isabella, che lì si trovava, riesce a sopravvivere e a salvare diverse persone, anche se in modo chiacchierato e controverso.
In conclusione, il fascino della narrazione di Bellonci sta in una continua tensione tra spazio pubblico e spazio privato, tra il dentro e il fuori, tra appartenenza e desiderio di fuga. Dice Isabella: «A volte vengo di umore tanto bizzarro che mi divido in due: una parla e agisce, l’altra freddamente guarda e giudica tutto, me compresa». E ancora: «I moti subitanei non sono consentiti a noi circondate da gente che ci può esporre ad ogni sospetto».
Isabella, scrive Bellonci «sdegna le calde esigenze del cuore»: è sovrana anche dei propri sentimenti. Non implorerà mai nessuno, neppure quando il figlio Federico la confinerà fuori dal governo, lei che per anni aveva assai validamente retto il marchesato di Mantova nei periodi in cui il marito era lontano o prigioniero, o, dopo la sua morte nel 1519, in attesa della maggiore età del figlio: una «di quelle donne del Cinquecento che ebbero il coraggio d’affermare il diritto ad una propria personalità, e si scelsero liberamente glorie e mortificazioni». Scrive ancora Bellonci: “Il segno di Isabella d’Este a Mantova è un segno di movimento […] è il segreto di un’intelligenza calata in un corpo femminile e rimastavi incandescente, destinando la donna a sconfitte inusitate».
Un segreto caratterizza anche gli ultimi anni di vita di Isabella d’Este: la pratica di buon governo nel suo occuparsi del paese di Solarolo, vicino a Mantova ma in Romagna. «Qui, intera e valorosa, un po’ aggravata alle spalle, ma non curva, Isabella è una donna che ha ragione di non arrendersi […] Fra tutto ciò che ci preme addosso, presenze, avvenimenti, destini, ha saputo che occorre scegliere la nostra parte e superarla (altri dirà ‘patirla’): e il valore del tempo intenderlo fuori dal conteggio degli anni, nella sua pura durata».

Bibliografia
Opere di Maria Bellonci
• Lucrezia Borgia
• Segreti dei Gonzaga
• Isabella tra i Gonzaga
• Segni sul muro
• Tu, vipera gentile (Delitto di stato, Soccorso a Dorotea, Tu vipera gentile),
• Rinascimento privato
ora in Opere, Vol. I, Introduzione di Ernesto Ferrero, a cura di Gabriella Leto, Collana I Meridiani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994; Opere, Vol. II, Introduzione di Massimo Onofri, saggio di Valeria Della Valle, a cura di Gabriella Leto, Note di E. Ferrero, Collana I Meridiani, Milano, Mondadori, 1997
• Come un racconto. Gli anni del Premio Strega, Milano, Club degli Editori, 1969.
• Pubblici segreti e Pubblici segreti n. 2, Milano, A. Mondadori, 1989.
• Mantegna, Skira, Milano 2003.
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• Anna Banti, “I pubblici segreti. Appunti”, in Paragone, XVI (1965), ottobre, pp. 137-139
• Giuseppe Antonelli, “La voce dei documenti nella scrittura di Maria Bellonci,” in Narrare la storia: dal documento al racconto, a cura di T. De Mauro – N. Fusini, Milano 2006, pp. 95-112
• Luisa Avellini, Gli orologi di Isabella. Il Rinascimento di Maria Bellonci, Bologna, I libri di Emil, 2011
• Valeria P. Babini, Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, Milano, La Tartaruga/Baldini&Castoldi, 2018
• Oana Boşca-Mălin, Cinquant’anni di attività letteraria stregata. Appunti sulle epistole ricevute da Maria Bellonci sul Premio Strega, https://unibuc.academia.edu/OanaBoscaMalin
• Daniela Pizzagalli, La signora del Rinascimento. Vita e splendori di Isabella d’Este alla corte di Mantova, Milano, Rizzoli 2001
• Alessandra Necci, Isabella e Lucrezia, le due cognate. Donne di potere e di corte nell’Italia del Rinascimento, Venezia, Marsilio, 2017

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Paola Meneganti

Sono nata e vivo a Livorno. Laureata in filosofia e in scienze archivistiche e biblioteconomiche, ho diretto per anni un servizio della Provincia, e ora sono in pensione. Ho contribuito a fondare, nel 1984, il Centro Donna di Livorno e, nel 2002, ho dato vita, con altre, all’associazione femminista Evelina De Magistris, che è tuttora gioiosa pietra miliare per la mia esistenza. Noi Eveline operiamo cercando di essere fedeli ad alcune pratiche politiche che caratterizzano il femminismo: la pratica della relazione e la pratica del partire da sé, che pensiamo possano vivificare la politica e il desiderio che molte e molti hanno di agire nel mondo, ma che non riescono ad esprimere in una realtà ossificata e bloccata. Ho scritto saggi di argomento filosofico e di teoria femminista, pubblicati in volumi collettanei, interventi, recensioni, e ho curato svariate pubblicazioni. Sono socia della Società Italiana delle Letterate, studio le filosofe e le pensatrici, sono una lettrice appassionata e privilegio la narrativa e la poesia scritte da donne. Infine, posso dire, con Carla Lonzi, che il femminismo è stata la mia festa.

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