Che cosa scatta nella mente dei più quando si parla di leadership politica di una donna? Letteratura e serie tv ci fanno capire che cosa sta maturando oggi nell’immaginario collettivo. Da “Borgen” al romanzo “Quando nascesti tu stella lucente” di Nadia Tarantini.
di Giuliana Misserville
Sull’onda delle nomine del Governo Draghi, che ben pochi posti ha riservato alle donne presenti negli schieramenti politici soprattutto di sinistra (e poco importa la nomina tardiva di alcune a sottosegretarie che ha avuto più il sapore di una toppa che di una reale riconsiderazione della questione), potrebbe ricavarsi l’idea che, in Italia soprattutto, il potere politico non si addica alle donne. Brave a fare rete se si tratta di dibattere, meno brave a spalleggiarsi e sostenersi nella scalata ai vertici di un partito o delle cariche istituzionali. E in questi giorni molti sono stati gli interventi e le discussioni su donne, politica e potere, mentre si affaccia all’orizzonte l’idea di una vicesegreteria femminile (ma passerà e soprattutto basterà a rovesciare la situazione?) del Partito democratico.
Per capire che cosa scatta nella mente dei più quando si parla di leadership a proposito di donne credo sia interessante andare a guardare come la questione sia stata raccontata dalla letteratura perché questo ci dice molto di che cosa oggi sta maturando nell’immaginario collettivo. Non è forse un caso che la leadership femminile si rappresenti il più delle volte nei romanzi e anche nella serialità televisiva all’interno di un ventaglio che prevede ai suoi estremi la pazzia da un lato e dall’altro il sadismo: segnale chiarissimo – se ne avessimo avuto bisogno – di quanto la misoginia sia intrinseca al pensare all’incrocio di donne e potere. E se di recente abbiamo potuto goderci l’ascesa caduta e resurrezione di Birgitte Nyborg nella serie tv “Borgen” (Il potere), le personagge di Tolkien e Martin hanno ben altra sorte.
Anche in campo femminista il potere è qualcosa che viene maneggiato con fatica e circospezione anche se con esiti fecondi. Nella discussione del 23 febbraio scorso promossa dalla rivista “Leggendaria”, è emersa una sorta di contrapposizione tra la metafora della piramide (rappresentazione del potere verticistico cui si deve dare la scalata) e quella della rete ritenuta (a torto, secondo me, ma la discussione andrebbe approfondita) orizzontale e egualitaria.
Difficile trovare il modo di amalgamare rete e piramide e tuttavia a volte la narrativa aiuta a intravedere destini, come mi sembra suggeriscano alcune pagine (che potete leggere qui sotto) tratte dal mio saggio “Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi”, e in particolare quelle dedicate al romanzo di Nadia Tarantini “Quando nascesti tu, stella lucente”. Perché Nadia racconta la presa del potere da parte di una donna, Amina la reggente dei tre regni, che appunto si pone come figura che riesce ad assimilare in sé, con e attraverso la sua leadership, la metafora della piramide e quella della rete. Rileggendo quanto avevo scritto, mi è venuto da pensare che una personalità come quella di Amina ora ci farebbe assai comodo e sarebbe una soddisfazione non da poco vederla prevalere sulle varie correnti di un partito e portare a compimento l’idea di una società più giusta e inclusiva.
Certo fare politica, coniugando la ricerca di soluzioni dei problemi reali con gli infiniti compromessi connessi alla compresenza delle diverse istanze che provengono dalla società e dalle diverse visioni o interessi, non è cosa per spalle deboli o stomaci delicati e a chi, donna, vi si avventura va il mio massimo rispetto. Tuttavia lo iato tra letteratura e mondo reale non impedisce di sperare che qualche volta la narrativa possa essere in grado di intercettare e anticipare la realtà.
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Da “Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi” (Mimesis, 2020) un estratto del capitolo “Corpi che contano: Nadia Tarantini”.
Arrivata tardi alla fantascienza, Nadia Tarantini pubblica il suo primo romanzo nel 2017. “Quando nascesti tu, stella lucente”, come ribattezzato per decisione editoriale (titolo originale e più efficace era invece “La diciottesima vita”), è un lavoro assai complesso, sospeso com’è tra racconto di fantascienza e romanzo fantasy, che riesce a imbrigliare la storia di una lotta di potere complicatissima tra gruppi diversi per il governo di una società sopravvissuta al Grande Disastro e formata da alcune migliaia di persone rifugiatesi a vivere sotto la Calotta. Sono molti i temi attraversati da Tarantini ma due più di altri assumono rilevanza nelle sue pagine e si collegano intimamente. Il primo riguarda la questione della memoria, che inserisce il romanzo nella fantascienza che sul nesso memoria e identità si interroga. Non è un caso che l’obiettivo principale del governo della Calotta immaginato da Tarantini sia gestire le emozioni degli umani e anzi impedirle, in modo da rendere i cittadini più felici e soprattutto totalmente governabili. Meglio l’oblio dei ricordi. Gli umani passano indenni attraverso il tempo, di vita in vita, tramite cicli di ibernazione fino alla diciottesima quando sono posti davanti alla scelta se mantenere la propria forma e materia biologica (accettando la morte) oppure decidere di trasferire la propria mente in un “cubo”, assicurandosi l’eternità ma perdendo il corpo e quello che dal corpo viene: emozioni, sentimenti e piacere. Sembra risuonare di nuovo l’interrogativo di Octavia Butler su ciò che ci caratterizza come umani. E il tempo è il gancio a cui tutti siamo appesi.
Il secondo tema riguarda la questione di che cosa sia il potere per le donne, non il potere dei rapporti interpersonali ma quello vasto che permette di conquistare regni e imperi. Per capire come il fantastico si proponga come un luogo privilegiato per ragionarne, dobbiamo partire da un romanzo che l’americana Marion Zimmer Bradley pubblicò nel 1982, “Le nebbie di Avalon”.
Maghe e sacerdotesse
Come sottolinea Michela Murgia la vera intuizione che sta dietro a “Le nebbie di Avalon” è che il tema dominante delle donne arturiane sia il potere. Viviana, Morgana e Morgause “sono impegnate tutto il tempo ad acquisire potere, a legittimarlo, a esercitarlo e a garantire la sua continuità” (Murgia). Ginevra invece, malgrado abbia un ruolo più stereotipato divisa com’è tra Artù e Lancillotto, sarà l’unica a riuscire durevolmente a influire sugli equilibri di corte favorendo l’affermarsi del cristianesimo nel regno di Britannia. La linea che percorre tutto il romanzo di Zimmer Bradley è infatti il confronto tra il preesistente politeismo e il monoteismo emergente, confronto che acquista mano a mano il profilo sempre più marcato di un conflitto anche di genere che arriva a mettere in crisi l’alleanza tra druidi e sacerdotesse. (…)
Murgia ha individuato benissimo il senso profondo della resistenza di Viviana e delle altre sacerdotesse. E con un volo acrobatico potremmo interpretare tale resistenza anche come una metafora della resistenza delle scrittrici del fantastico nei confronti dei loro omologhi saldamente attestati in un canone quasi tutto al maschile. Insomma parlare delle sacerdotesse del ciclo arturiano può essere stato per Zimmer Bradley un modo per attirare l’attenzione anche sulla necessità e fatica relativa alla difesa del proprio lavoro di autrice fantastica. Ursula Le Guin, con la seconda trilogia di Earthsea, assai sottilmente, vira le questioni attinenti alla mancanza di potere da parte delle donne (una situazione che affonda le proprie radici nella storia dell’occidente) sui territori della magia: il loro “Potere non era addestrato, era una forza priva di arte e conoscenza, per metà superficiale, per l’altra metà pericolosa”: “Come Le Guin ha sempre compreso alla perfezione, la magia è intimamente connessa al potere. Da qui derivano le sue aporie: nella prima trilogia la magia era il potere dei maghi sulla natura (esercitato, a loro dire, per il bene di tutta l’umanità), ma era sempre concatenata al potere sulla natura umana, e nella seconda trilogia si è rivelata come un potere in gran parte maschile teso al dominio sulla natura intesa come femminile, e sulle donne in quanto esseri naturali” (Darko Suvin).
Portatrici di luce e regine illuminate
In un certo senso la seconda trilogia di Ursula Le Guin si pone in contrapposizione, o meglio supera, la rappresentazione del potere data da J.R.R. Tolkien. O forse sarebbe meglio parlare della rappresentazione dello scarso potere che le figure femminili detengono nella saga de “Il signore degli anelli”. In un saggio del 1973, Ursula Le Guin racconta di come fosse arrivata tardi alla lettura di J. R. R. Tolkien: “Mi chiedo che cosa sarebbe successo se fossi nata nel 1939 invece che nel 1929, e avessi letto Tolkien per la prima volta quando ero adolescente, invece che dopo i vent’anni. L’impresa avrebbe potuto sopraffarmi. Sono contenta di aver avuto un certo senso della direzione in cui mi muovevo, prima di leggere Tolkien”.
Si ritiene comunemente che ne la saga de “Il signore degli anelli” le donne siano unicamente una presenza ancillare (Wu Ming 4), totalmente funzionale all’azione maschile. Alcune studiose hanno declinato diversamente le presenze femminili nella saga assegnando loro il ruolo di portatrici di luce e di vita. La visione di Tolkien, intrisa di una concezione profondamente biblica e cristiana, ritaglierebbe per le donne un ruolo spirituale: “in nulla i personaggi femminili risultano inferiori ai loro complementari maschili, né sono passivi nei loro confronti. Piuttosto agiscono su un piano “diverso” rispetto ai loro compagni: una dimensione più spiccatamente spirituale, di guida e di consiglio, di preveggenza e lungimiranza, mentre la componente maschile interviene sul piano materiale, fisico e guerriero” (Nejrotti). Ora “agire su un piano ‘diverso’” è espressione che ci fa misurare tutta la distanza rispetto a un agire totalmente autonomo. Inoltre nella saga di Tolkien trova largo spazio l’idea, ripresa dalla tradizione celtica, che sia la donna a conferire la sovranità sulla terra. (…) Anche se la regina non andava conquistata con la forza o con l’inganno ma meritata grazie al proprio valore, ciò non toglie che il ruolo riservato alle regine ridiventava così qualcosa di totalmente sottoposto e funzionale unicamente a stabilire la sovranità maschile.
Certamente più contemporanea – il primo romanzo della saga di Tolkien, “Lo Hobbit”, fu pubblicato nel 1937 – è la contrapposizione che “Le cronache di ghiaccio e di fuoco” di George R. R. Martin mettono in scena tra la regina bianca Daenerys e la regina total-black Cersei con una storia densissima di personaggi e avvenimenti che registrano assai più sovrani di quanti siano i troni (sette per la precisione) a disposizione nel continente di Westeros. La saga di Martin ha avuto una trasposizione televisiva con la serie “Games of Thrones”, che è andata oltre gli sviluppi narrativi previsti da Martin nelle sue Cronache. Nella settima stagione di “Games of Thrones”, la maggior parte dei regni è in mano alle donne, figlie e sorelle di coloro che sono stati ammazzati nelle stagioni precedenti: argomento assai poco femminista per avvalorare il diritto delle donne a regnare anche se loro quel diritto non lo hanno ricevuto passivamente ma lo hanno per così dire incoraggiato e sostenuto con una dose fortissima di autostima, con il dispiegarsi di una rete di intrighi infiniti e con una determinazione di acciaio. Il discorso vale per tutte anche se è vero che Cersei e Daenerys giocano in un girone a parte. Il ciclo di Martin e la relativa serie tv mantengono gli elementi fantastici ai margini della storia, e se non fosse per la minaccia incombente degli Estranei, i non morti, che premono sulla barriera di ghiaccio con l’intenzione di invadere Grande Inverno e poi tutta Westeros, non basterebbero i voli dei tre draghi di Daenerys a mantenere la narrazione nell’ambito del fantastico. In tutto ciò i percorsi delle due regine per arrivare al potere sono diversissimi. Cersei sfrutta tutti gli avvenimenti e le persone che ha attorno per aumentare prima la sua influenza sul giovanissimo figlio, re Joffrey; e poi per arrivare al trono da cui governare come regina incontrastata servendosi di tutto ciò che ha a disposizione, dalla menzogna allo spergiuro fino al tradimento. All’inizio dell’ottava stagione perfino il fratello, al quale è legata da un vincolo incestuoso, la ripudierà e partirà in solitaria per affrontare gli Estranei. Daenerys compie un percorso da schiava (merce di scambio del fratello in corsa per riconquistare il trono dei Targaryen) a regina. Valerio De Felice propone un’acuta analisi della personaggia di Daenerys che oltre al carisma innato ha dalla sua anche una visione del potere diversa da quella che i vari regnanti di Westeros condividono: è una sovrana illuminata che ”vede nella liberazione degli schiavi il proprio atto originale” e che dichiara che anche una regina deve sottomettersi alla legge: “Pur caratterizzata da una volontà performante, in grado di incidere sulla realtà, plasmandola secondo i propri desideri, la regina che fu schiava sceglie di sottomettere se stessa a un’idea di legge quale ‘metro di tutte le cose’. La vicenda di Daenerys, dunque, pur ispirata a un modello archetipico di percorso dell’eroe, si emancipa dalla visione di stampo classico, della donna-Medea, irrazionale e vendicativa. Infatti, pur vivendo una sana discrasia tra lotta per il potere e lotta per il giusto, la ragazza perviene a una sintesi giuridica intuitiva, ma lucidamente rispettata” (De Felice). Tuttavia la fine televisiva della saga sembra rientrare nei ranghi del consueto sessismo dal momento che Daenerys subisce una rapidissima involuzione e da regina illuminata si trasforma in una “isterica” e crudelissima tiranna.
Le personagge fanno politica
Come abbiamo visto l’alternativa di fronte a cui erano le donne, o meglio le personagge letterarie, intenzionate a occuparsi della cosa pubblica sembrerebbe essere quella tra la magia, la religione o la pazzia. E se invece le donne, o le personagge se preferite, volessero “fare politica”?
Riandiamo per un momento a ciò che dice Michela Murgia del romanzo di Zimmer Bradley. “Per capire se davvero “Le nebbie di Avalon” introduce un cambio di paradigma nella narrativa femminile sono costretta a chiedermi di che natura sia il potere che esercitano le sue protagoniste. Non è una domanda a cui sia difficile rispondere: quelle che contano qualcosa sono tutte maghe? È una novità nella letteratura? Per niente, anzi direi che siamo nel recinto della piena tradizione: è dalla Bibbia in poi che ci viene riconosciuto l’accesso al potere magico-mistico”. Perché, spiega sempre Murgia, la magia al femminile è un “topos radicato nel corpo delle donne, più precisamente nella loro vicinanza al mistero della generazione della vita”.
Ora a me sembra che questo tratto costituito dal “ricondurre narrativamente il potere delle donne nell’ambito del corpo e dei suoi cicli” (Murgia) sia una corda sottesa anche alla scrittura di Tarantini. Potrebbe essere una trappola e invece Tarantini ne fa un punto di forza perché ne cambia la modalità grazie a una sorta di barriera costruita tra le donne – in rapporto tra loro e in reciproco affido (vedi il rapporto di Marcela con Magdalene prima e con Amina poi) – e il materno: “Forse la dea preserva alcune di noi dalle gioie della maternità per farci condividere il ‘podere’ con altre donne” (Tarantini). (…) Amina pare qui una versione meno sulfurea di Viviana ma assai più efficace dal punto di vista dei risultati della propria azione politica. Lei dialoga, convince, facendo leva sulle emozioni positive e sulla costruzione e valorizzazione di una storia (e memoria) comune. È a favore della maggiore inclusione possibile di tutti i gruppi sociali: Sepolti, Devianti, Trentenni che hanno superato le loro diciassette vite. È stata eletta all’unanimità, un risultato elettorale più appropriato a un politburo che a una reggenza illuminata. Eppure lei basa i suoi convincimenti su elementi semplici che rimandano sempre a ristabilire la connessione tra esseri umani e natura: (…). Quella di Amina è una marcia silenziosa e ineluttabile ma non solitaria perché al suo fianco marciano le altre.
Zimmer Bradley con la personaggia di Morgause ci racconta che le donne non sono migliori degli uomini, come di recente ci ha ampiamente spiegato Naomi Alderman col suo “Ragazze elettriche”. Le donne del romanzo di Tarantini invece, pur non essendo oblative, sembrano essere dedite a un equilibrio superiore. Seguiamo fino in fondo le parole di Amina: “Forse la dea preserva alcune di noi dalle gioie della maternità per farci condividere il podere con altre donne; e con alcuni uomini. Anche con loro dobbiamo condividerlo. Gli uomini hanno il fuoco, che incendia il buio come fosse giorno. Noi abbiamo l’acqua con cui è connessa la terra umida”. (Tarantini). Come si vede una visione del ruolo delle donne nella società del tipo che non sarebbe dispiaciuta a Simone de Beauvoir. I ruoli prefissati rischiano però di essere un lascito ingombrante.
“Hunger games” della statunitense Suzanne Collins ci aveva mostrato, con i personaggi di Katniss e Peta, il rovesciamento dei ruoli sessuali. Al contrario della serie su Harry Potter di J.K. Rowling, in cui il ruolo delle donne non era mai di primo piano o realmente decisivo nella battaglia tra il bene e il male. Il fantasy di Licia Troisi, autrice italiana vendutissima anche all’estero, mette in scena tutta una serie di ragazze guerriere dotate di poteri che cercano di affermarsi, di vendicarsi, di trovare la propria via. E i maschi non si fanno troppi problemi a seguirle o a farsi guidare da loro. Tuttavia Troisi è una grandissima storyteller, la sua abilità di catturare chi legge e non mollarlo fino alla fine del quarto volume di ogni saga la apparenta nella mia testa a narratori come Salgari che rileggevo infinite volte da ragazzina. Ma il suo coefficiente di innovazione è scarso, le sue storie sono sapientissime miscele di storie già raccontate. Anche se questo si può dire di gran parte della narrativa di tutti i tempi.
Potere e ruoli sessuali. La soluzione di Le Guin per svincolarsi dal binarismo maschio/femmina era stata l’ermafroditismo latente de “La mano sinistra delle tenebre” del 1969. Tarantini se ne tiene lontana, preferendo affidarsi alla saggezza dei corpi, al centro da anni della sua riflessione: (…) “Vive una repulsione profonda all’idea di separarsi dal suo corpo. Benché le vite che si sono susseguite l’abbiano allontanata da una percezione fisica costante, nel corpo sente di abitare con maggior agio che nella propria mente. Quando riesce a rilassarsi dagli impegni, ama stendersi nel cubicolo e accarezzarsi. Da un lontano passato sembrano arrivare alla pelle e al sesso ondate sconosciute, sempre nuove. E da quando sa che il corpo potrebbe perderlo, quell’esperienza fisica si è approfondita” (Tarantini). Quel corpo, il corpo del vero potere, quello capace di custodire memorie private e memorie collettive, il cui destino è la morte, è stato accettato da Karol, il Patriarca dei Sepolti, custodi della storia degli umani e dei riti della natura. Come sottolineano i riti funebri presenziati da Amina, reggente oramai di tutti e tre i mondi: “Amina ha gli occhi concentrati sulla lettiga che la precede, è d’un passo avanti alle altre. Tutte portano tra le mani ciotole di diversi colori. In quella di Amina ci sono le conchiglie che metteranno attorno al corpo di Karol, simbolo di vita. Sotto la garza Marcela scorge i segni regolari dell’ocra rossa, di cui sono macchiate anche le conchiglie. Le tracce del sangue apportatore di vita e, per i morti, di una possibile rinascita. È felice di aver conosciuto qualcosa dei rituali della dea. Una esperienza spirituale che non separa la vita dalla morte. […] Le donne stringono il cerchio, si piegano tutte insieme verso il corpo del Patriarca, Amina pronuncia le parole del rito: “Torna al grembo della Madre, Karol. Torna da dove sei venuto. Porta pace per noi fra le stelle e sulla nostra Terra” (Tarantini).
Nel romanzo di Nadia Tarantini, il culto della Dea sembrerebbe in grado di portare pace, e divenire motore per l’abbattimento del regime totalitario. Mentre qui, ai nostri giorni, sul che cosa fare del materno, tra le donne il dibattito è rovente.
Bibliografia
Giuliana Misserville, “Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi”, Mimesis 2020.
Nadia Tarantini, “Quando nascesti tu, stella lucente”, L’Iguana 2017.
PASSAPAROLA:








Giuliana Misserville

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