Dirsi poeta non è operazione semplice e farsi poeta è parte di un laboratorio esistenziale permanente e solitario per lo più. Vuol dire cercare di continuo le parole di scarto, per scansare i luoghi comuni e le ovvietà banali. Significa scavare dentro se stessi in un perenne monologo interiore, in un dialogo tra le parti che ci compongono e ci fanno persona. Vuol dire saper guardare le cose e il mondo da un punto di vista diverso e divergente, sottratto alle logiche del mercato e del tornaconto tra gli umani. Scegliere la poesia è di per sé voler far parte di un esercito di perdenti e di invisibili. Esercito di coraggiosi, malgrado tutto.
In questa prima silloge di Lina Sanniti è evidente una maturità e una sensibilità nella scrittura non certo acerba. L’autrice tocca inizialmente la sua capacità di fermarsi a osservare una realtà metropolitana, che l’accoglie e la respinge con amara dolcezza.
La mia città ancora si arrende al mistero
del ‘corpo a corpo’ di due fugaci amanti
lei, la gloriosa, l’incompresa, la profanata,
si fa passione per un attimo che resta eterno.
I versi registrano con amarezza assorta le cose che gli occhi vedono. Sembra una passeggiata solitaria di chi è avvezzo a meditare, per trovare la giusta distanza e contenere con garbo, attraverso la parola, il disagio e il dolore che ricava dal mondo circostante.
Le strade hanno passi di sangue
impronte cieche, pesanti, silenziose.
Corpi di donne che grondano colpe
ignare di un destino che cuce le bocche
Tra le strofe emerge il “noi”, come la fotografia istintiva di una coralità a volte di tutti e a volte più femminile. Lo sguardo si fissa in alto a cercare risposte oppure in basso a sentire l’umanità che si addestra dolorosamente alla vita, vita precaria e squallida delle periferie meridionali, oppure piena di pathos umano negli abbracci e negli incontri rubati alla fretta del giorno.
Le palazzine ci accolsero trine
con le loro ringhiose teste di Cerbero
che mangiavano quel ritaglio di cielo
protese le braccia a ferro di cavallo.
Emerge nei versi una pietas moderna che tocca e accarezza le cose e gli uomini, fermando la realtà in fotogrammi immobili, che esaltano il bianco e nero di una sommessa tenerezza. A volte nella raccolta di Lina Sanniti affiorano ricordi. Memoria autobiografica di affetti passati, che viene riportata alla luce con un tono perfetto. Così delicate e soffuse sono le ombre intorno alle persone care. Nella scelta dei vocaboli si registra una serietà, una sobrietà e una cura, per non cadere mai nel retorico melenso, cercando accostamenti formali originali. “L’alveare di case” riporta al significato allargato dell’oikos materno che accoglie e include vecchi e bambini, in una prossimità fisica e affettiva.
Nell’alveare delle nostre nuove case
mi mancava più di tutto lo sgabello della nonna
sul quale sapevo saltare e cantare felice.
La figura paterna è oggetto di varie strofe. La conta delle percezioni sonore e olfattive come indizi del suo passaggio. La persona è pensata nella sua assenza, con una malinconia leggera. Le cose tracciano ciò che ancora persiste e fa male. Il dolore della perdita è canto silenzioso e pieno di riserbo, mai ostentato. C’è un decoro antico che non congela le emozioni ma le richiama, senza gridarle. Nell’intera silloge poi si può evidenziare la sapienza della donna e la sua sensualità, coniugata in modo aspro e dolente alla condizione mai appagante della solitudine e della nostalgia per qualcosa che si è vissuto e perso.
Senza mai usale la parola “amore”, Lina Sanniti esplora questo sentimento nel prima e nel dopo di ogni incontro mancato. Esamina, con il bisturi chirurgico del verso, gli effetti devastanti dell’incomunicabilità tra i sessi. Senza condannare nessuno, senza ideologismi, marcando la consapevolezza di una fuga senza ritorno tra le persone che si toccano appena.
Sono stata l’arrotino che prepara il fuso
per scucirti la mia trama fitta dalla pelle
e dei nostri corpi tracciare la distanza
Un umanesimo sofferto e l’esistenzialismo postmoderno possono essere i parametri filosofici e letterari in cui inserire la poetica che emerge in questi versi. Ogni testo si lega al precedente per una coerenza di immagini e di atmosfere, dove il linguaggio lirico diventa testimonianza di una fatica del vivere, che accompagna e unisce. Emerge la considerazione della parola come strategia di sopravvivenza e di ricerca del sé, la poesia come scelta espressiva e fondativa, pur nella consapevolezza del tempo che fa da tiranno.
e il grido prende il posto delle parole
ma il tempo non dissolve, non risolve.
Essere quindi madri di se stesse e della parola, essere consapevoli di questa centralità germinativa, che rende protagoniste sofferte e stoiche della propria esistenza.
Lina Sanniti, Madre Di Parole, Decomporre 2017
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Floriana Coppola
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