Cos’è un memoir se non il racconto sincero di frammenti autobiografici? Tra i molti pubblicati, scegliamo “Nessuno esca piangendo”, il memoir toccante di Marta Verna, pediatra oncologica che racconta il percorso di malattia dei suoi giovanissimi pazienti e la propria, contemporanea, disperata ricerca di maternità
Elvira Federici
Negli ultimi anni – è un fenomeno che meriterebbe di essere studiato- i libri che possono essere classificati o comunque così sono presentati da autrici o autori, come memoir sono diventati sempre più numerosi. Cos’è esattamente un memoir? Non un’autobiografia, piuttosto un frammento di essa, tra documento e meditazione, tra scandaglio dell’esperienza e confessione, tra sapere di sé e confronto con il mondo. Tra due facce della realtà che – dentro fuori – non è detto che si diano significato reciprocamente. Scritture, non sempre e non solo letterarie, che restando pericolosamente attaccate all’esperienza, in apparenza senza la mediazione della finzione – sempre che raccontare qualcosa della propria vita per il tramite della lingua non sia già una finzione – portano chi legge a confrontarsi con quanto di più indicibile può capitare alle nostre vite.
A queste esperienze narrate sull’orlo dell’abisso siamo grate e grati, quando ci imbattiamo in libri come quelli di Pia Pera o di Severino Cesari, che hanno raccontato la propria malattia e l’avvicinarsi della morte. Chi scrive ha fatto, per sé, ma anche per noi, un duplice attraversamento: nel dolore e nelle parole con cui ce lo consegna. Che cosa ci tocca in questo tipo di narrazioni? Non solo l’autenticità, che non può mancare neppure in un’opera di finzione, piuttosto: la scrittura. La scrittura che lascia avvicinare o che mette in lontananza il nucleo bruciante, la ferita indelebile e ne fa visione. Una scrittura che senza neppure la pretesa epistemologica della distanza riesce a mettere in prospettiva gli accadimenti in modo da innestarsi sulla nostra stessa esperienza, a parlarci, a farci pensare.
Marta Verna è una pediatra, un’oncologa che combatte quotidianamente per salvare vite infantili, di questo ci parla con una scrittura nuda e tersa, di bambine e bambini e madri e padri che sopportano e combattono l’insensatezza della malattia e – spesso- della morte con infiniti minuti accorgimenti di sorrisi, giochi e cura che affiancano inimmaginabili, spesso invasive terapie. Ma non solo: Marta intreccia questo racconto già così forte con quello della sua maternità mancata e del suo desiderio che la porta a sottoporsi a procedure e tecniche altrettanto invasive per arrivare al concepimento. Esperienza che nel suo fallire si porta dietro, forse, il fallimento della relazione con il suo compagno. Esperienza che vive fianco a fianco con quella ospedaliera, dove è ancora e sempre il desiderio – il fluire di zoe, direbbe Rosi Braidotti – a tenere insieme chi combatte per vivere- madri, padri, giovani degenti – e chi, come Marta, cerca la vita fin dal proprio grembo.
Sono almeno due le forze che ci attraggono in questo libro: la qualità della scrittura asciutta, contenuta in 16 brevi capitoli dai titoli evocativi e sintetici come in poesia; la particolare significatività dell’esperienza narrata. Passa quest’ultima per una duplice strettoia: quella della guarigione e della morte dei piccoli malati oncologici, quella della vita che ogni donna sente di poter dare; che spesso desidera poter dare. Ed a questo dilemma, tra il desiderio che è libero e infinito e l’ombra del “destino” disegnato dalla natura e dalla cultura, Marta si accosta con attrazione – l’esperienza dell’amore incondizionato ricevuto da sua madre – e ripulsa:“ davvero pensi che la femmina possa realizzarsi appieno solo nella maternità?”. Accanto a questi, altri sentimenti ambivalenti: il senso occludente di non poter scegliere di essere madre – quindi di una libertà negata – e quello oscuro ma non eluso, dell’invidia per le altre donne, forse non necessariamente libere ma certo nella possibilità di esserlo.
Tutto il portato dell’educazione moderna che avevo ricevuto” e del “mondo emancipato e aperto che avevo frequentato” non basta a mettere ordine nel bisogno di dare senso a quello che accade. C’è un alternarsi simile al respiro tra il racconto degli incontri in corsia o in sala operatoria (con bambine e bambini segnati dalla malattia, indomabili e resilienti; infinitamente saggi e disposti al gioco e all’invenzione; capaci infine di capire, in un modo per noi grandi incomprensibile, quando lasciar andare) e la confessione radicale della propria ossessione, la riflessione implacabile su come questa consumi la relazione e ne sia al tempo stesso il movente.
Marta scandaglia il misterioso desiderio di essere madre ad ogni costo, fin quasi a soccombere al dolore di fronte al fallimento. Sono così vicine vita e morte nelle corsie ospedaliere che frequenta; così come prossima e irraggiungibile è la felicità con Fabio che il racconto diventa cifra della complessità del vivere e del conoscersi per ciascuna, ciascuno di noi. La resistenza e la resa non sono così distanti di fronte al compito di vivere, al desiderio di amare, al bisogno di capire. Scrivere fa accadere qualcosa. Non solo nella storia dunque, ma grazie alla storia – alla scrittura – brilla un possibile cambiamento di prospettiva. Dove nonostante tutto, non solo di fallimento si tratta ma di un attraversamento nel corso del quale l’esperienza viene riconosciuta come un luogo dove la sabbia del dolore sedimenta, tantoché, guardando indietro, nella prospettiva degli anni, possiamo dire che, senza saperlo, siamo davvero stati felici.
Marta Verna, Nessuno esca piangendo, Utet 2017
Marta Verna (Treviso, 1978) si è laureata in Medicina e Chirurgia e ha completato la scuola di Specializzazione in Pediatria presso l’Università di Parma. Ha conseguito un Master di secondo livello in Oncologia pediatrica all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e sta completando il Master of Science in Paediatric Medicines Development and Evaluation dell’Università di Roma Tor Vergata. Ha lavorato presso il reparto di emato-oncologia della Clinica Pediatrica dell’Università di Parma e attualmente lavora nel centro trapianti di midollo osseo della Clinica Pediatrica dell’Università Milano Bicocca (Fondazione MBBM) presso l’ospedale San Gerardo di Monza. Si occupa di progetti di cooperazione internazionale in ambito sanitario e collabora con l’Agenzia Europea del Farmaco per l’approvazione dei nuovi farmaci in pediatria.
PASSAPAROLA:








Elvira Federici

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