Non bisogna essere necessariamente delle amanti del fantasy per aver letto Le nebbie di Avalon: quando il romanzo di Marion Zimmer Bradley uscì in prima edizione italiana nel 1986 era già un successo internazionale e per una generazione di donne passate o anche solo sfiorate dal femminismo degli anni Settanta quella riscrittura del ciclo arturiano fu una sfida irresistibile: dopo tanta teoria, dopo tanta politica, dopo tante manifestazioni di piazza, mettere al lavoro l’immaginazione su altri mondi possibili (in un passato a metà tra storia e mito, ma che poteva esserci stato e dunque potrebbe realizzarsi nel futuro) era quello che ci voleva in un decennio che sembrava tutto dedito allo sbrilluccichio del lusso e all’affermazione individuale. Alcuni libri, per fortuna, hanno vite lunghe e misteriose e così Michela Murgia, classe 1972, ebbe la ventura di trovarlo in una edicola di Olbia nel 2002 e, come racconta lei stessa in L’inferno è una buona memoria: «non avevo la minima idea di quanto quelle pagine lette nel beccheggio della navigazione [tra Olbia e Civitavecchia, ndr] avrebbero cambiato il mio modo di guardare il mondo». Il testo di Murgia è uno dei primi tre titoli di una nuova collana di Marsilio, che chiede a scrittori e scrittrici italiani di raccontarsi a partire da un libro e la sua scelta di un romanzo di letteratura popolare la dice lunga sulla sua qualità di scrittrice e intellettuale.
Perché con Le nebbie di Avalon Marion Zimmer Bradley fa, a suo modo, una operazione davvero rivoluzionaria: tutti e tutte conoscono le storie di Artù e dei suoi cavalieri, di mago Merlino e della spada nella roccia, di Lancillotto e Ginevra non foss’altro per i film, le serie Tv, i manga che hanno e continuano a riproporle. Sono storie che fanno parte dell’immaginario collettivo – parte del canone e della tradizione dell’occidente europeo – anche se magari non si sono frequentate le “fonti” storiche “alte” come i testi di Goffredo di Monmouth o Chretién de Troyes. Ebbene, Le nebbie di Avalon è un caso classico di “riscrittura” (nel senso indicato da Adrienne Rich): vale a dire una narrazione che sposta il punto di vista e ne capovolge il senso. Una re-visione. Raccontare la materia bretone assumendo come protagoniste le figure femminili rimaste nascoste nelle pieghe e negli interstizi di vicende maschile d’amore, di guerra e di potere cambia di segno all’intera storia. Ed è quel “cambiare di segno” nel modo di guardare il mondo che Murgia registra e racconta: perché riempire i vuoti, far parlare ciò che è stato taciuto sulle sacerdotesse di Avalon e sul loro ruolo nell’antica religione celtica che gradualmente cede il passo sotto l’offensiva del cristianesimo nella Britannia tra la fine del V e il VI secolo, apre nuovi scenari all’immaginazione ma soprattutto al pensiero: sulle relazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli/figlie, sulla natura stessa del potere e sull’uso di strategie politiche.
Viviana, Igraine, Morgause e poi Ginevra e Morgana con la loro sola presenza attiva nella narrazione di Zimmer Bradley modificano profondamente il contesto dell’intera vicenda, perché è il conflitto di genere che, pur se non in maniera dichiarata, diventa «trasversale a tutti gli altri, facendo sì che ogni ambito in cui ci si contende il potere diventi per le donne un luogo di protagonismo», sottolinea Murgia. E l’ambito in cui questo scontro appare «più esplicito e violento» è quello religioso perché sono in realtà inconciliabili i mondi disegnati dai preti e dalle sacerdotesse: «La divinità cristiana è maschile, patriarcale e univoca, mentre quella dei Pitti è una Dea dai molti volti, non tutti materni e certamente non molto mariani […]. «La soppressione delle pluralità è il primo obiettivo di ogni religione monoteista», ci dice Murgia: riflessione illuminante, potremmo dire, ai tempi del decreto Pillon!
Michela Murgia, L’inferno è una buona memoria, Marsilio, Venezia 2018, 118 pagine, 12 euro, e-Book 7,99 euro
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