La magnifica Jane Austen

Il 10 giugno alle 21 nel giardino della Casa Internazionale delle Donne di Roma alla serata “Magnifica Jane”, con la regia di Franza Di Rosa, partecipano Anna Maria Crispino, Alessandra Pigliaru e Liliana Rampello. Seguiranno in luglio (3, 6 e 17) tre serate per “Janeites” a cura di Leggendaria: proiezioni di film con introduzione.

 

Jane Austen non è solo un pilastro del canone letterario occidentale, è allo stesso tempo una icòna della cultura popolare di primissima grandezza. Inoltre, i suoi romanzi sono «tra i pochi classici che si continuano a leggere innanzi tutto per il piacere della lettura», sostiene, a ragione, Beatrice Battaglia.

Gli studi e la produzione critica su di lei sono ormai un corpus immenso mentre il “fenomeno Austen” continua a crescere: innumerevoli i film e sceneggiati Tv – e recentemente anche web-serie – ispirati a lei e alle sue opere, con rifacimenti, trasposizioni, sequel e prequel dei romanzi, nuove narrazioni che prendono spunto dai suoi personaggi, riscritture e reinterpretazioni in chiave moderna, gialli, horror, fumetti, fan-fiction e così via.

Si moltiplicano anche i club di lettura, i siti e le “società” o associazioni nazionali e internazionali (in Italia, tra le altre, la Jasit, Jane Austen Society of Italy ) a lei dedicate, attraverso i quali appassionati lettori e lettrici organizzano eventi e reading, viaggi nei luoghi della scrittrice e balli in costume, pic-nic e appuntamenti per il tè. Poi ci sono i blog che fanno circolare in Rete notizie, recensioni, iniziative e quant’altro vive e si muove intorno al mondo austeniano. Per non parlare del marchandising che utilizza il nome della scrittrice come un marchio di sicuro successo. Nel 2011 il manoscritto dell’incompiuto The Watson, datato 1804, fu venduto all’asta da Sotheby’s alla Bodelian Library di Oxford per la cifra record di un milione e ottocentomila euro.

Se digitate “Jane Austen” su Google, il motore di ricerca vi fornirà circa 23 milioni di voci. Siamo davanti a un fenomeno che coinvolge forse più donne che uomini – ma il suo pubblico maschile, diversamente da molte scrittrici del passato e del presente, Austen l’ha avuto sin dall’inizio – e diverse generazioni: sentite cosa scrive ad esempio Simona Calavetta nell’introduzione alla sua tesi di laurea (che si spera presto diventerà la sceneggiatura di una graphic novel de L’abbazia di Northanger):

“Jane Austen è come un tubino nero: elegante, essenziale e non passa mai di moda. Si adatta perfettamente a una signora matura come a una ragazzina e, a seconda degli accessori – ovvero i punti di vista – si presta alle più disparate interpretazioni”.

Disparate sono certo le interpretazioni che studiosi e studiose hanno fornito di lei, in particolare nell’ultimo secolo, e basta dare una scorsa alla ormai imponente bibliografia critica per verificare come la sua figura e la sua opera siano state sottoposte a un’analisi che non trascura alcun dettaglio: dallo stile al linguaggio, dalla costruzione dei personaggi alla straordinaria efficacia dei dialoghi, dal rapporto con il suo tempo a quello con gli scrittori e scrittrici precedenti e coevi, dalla capacità descrittiva dei paesaggi dei luoghi e delle case, degli abiti e del cibo, dai rapporti di classe all’importanza inaggirabile del denaro, ovvero dell’autonomia economica che consente di scegliere. E i balli, sì, quel rito codificato dove i due sessi possono incontrarsi in un pubblico-privato tutto da negoziare.

Si è discusso a lungo – e tuttora si discute – sul suo presunto conservatorismo e sull’universalità che assumono le dinamiche interne alle sue storie nonostante siano consapevolmente agite dai componenti di «3 o 4 famiglie» in ambienti per lo più provinciali e socialmente ristretti. Oppure, su un altro fronte, della sua carica “rivoluzionaria” nel forzare i limiti delle norme sociali (patriarcali e di classe) con la leggerezza – ma a tratti anche la ferocia – della sua ironia.

Quel che è certo, è che se di “rivoluzione” si può parlare, riguarda la centralità assoluta che Jane Austen sceglie per i suoi personaggi femminili: le sue ragazze guardano il mondo con i loro occhi, possono anche prendere degli abbagli, certo, ma sono titolari del loro discorso, di ciò che pensano e di ciò che dicono – e di come lo dicono. E parlano tra loro, sono in relazione l’una con l’altra: come sorelle, amiche o antagoniste, e figlie di madri – reali o figure sostitutive – in un andamento narrativo che segue la progressiva presa di coscienza della propria irrinunciabile singolarità, e dei propri desideri. Una rivoluzione simbolica, dunque. Che non a caso un critico come Franco Moretti, consapevole del deciso spostamento simbolico segnalato dal “romanzo di formazione” come narrazione della borghesia nascente e presto trionfante nell’Europa a cavallo tra Sette e Ottocento, segnala citando Austen, pur mancando di approfondire la grande differenza tra uomini e donne nelle nuove modalità di passaggio tra adolescenza e età adulta.

Troppo rivoluzionaria? Troppo poco? Forse la domanda è non se e quanto Jane Austen fosse un’antesignana del femminismo, ma perché una parte consistente delle sue lettrici la percepisce come tale. La questione non è nuova, si è posta nell’ambito degli studi sulla ricezione delle sue opere ben prima che la generazione degli anni Settanta del Novecento ne facesse oggetto di ricerca fuori e dentro i dipartimenti di Women’s Studies.

Già agli inizi del secolo scorso, mentre maturava l’ingresso di Austen nel pantheon letterario, il primo femminismo sembrava già avere ben presente il valore simbolico delle sue narrazioni e dei suoi personaggi femminili, quelle “ragazze” così apparentemente qualunque che vivono costrette da rigide norme morali e sociali. Ad esempio, nel 1895 – riferisce la studiosa americana Devoney Looser – l’attrice e docente di teatro Rosina Fillippi, di sicure simpatie femministe, scrisse “Dialogues and Scenes from the Novels of Jane Austen: Arranged ad Adapted for Drawing-Room Performance” un testo per attori/attrici dilettanti che adatta sette scene tratte da quattro romanzi austeniani. E Filippi – autrice anche del primo testo teatrale per professionisti, l’adattamento del più famoso romanzo di Austen, cui diede il titolo The Bennets – il cui testo però non fu mai stampato – non era l’unica estimatrice femminista di Austen. Looser cita tra le altre Winifred Mayo, co-regista della commedia, militante suffragista, amica di Emmeline Pankhurst, e Cicely Hamilton autrice di un testo teatrale di 30 minuti A Pageant of Great Women (e tra le “grandi donne” c’è ovviamente Jane Austen) destinato alla raccolta di fondi e la mobilitazione suffragista. E nella Grande Marcia suffragista del 13 giugno 1908, cui parteciparono in diecimila, migliaia di striscioni e cartelli rendevano omaggio a donne famose: uno di quegli stendardi «di seta color crema, giallo e rosso, decorato con un nome, le date, un libro e una antica penna, onorava Jane Austen».

Pochi anni dopo quella memorabile manifestazione, ecco Virginia Woolf:

«Il genio dell’autrice è in libertà, in piena attività. […] Ma di che cosa è fatto tutto questo? Di un ballo in una cittadina di provincia; di due o tre coppie che si incontrano e che di danno la mano in un salotto; si mangia e si beve moderatamente; e come catastrofe, un ragazzo è fatto bersaglio della scortesia di una signorina e della gentilezza di un’altra. Non c’è tragedia, non c’è eroismo. Eppure, chissà perché, la piccola scena è molto più commovente di quanto non possa far supporre la sua superficiale solennità […] Jane Austen domina pertanto emozioni assai più profonde di quanto si offrano a prima vista: ci incita ad aggiungere ciò che manca […]. Possiede la qualità permanente dell’opera letteraria» (The Common Reader, 1925).

Woolf taglia di netto la questione della “limitatezza” dell’orizzonte narrativo di Jane Austen, che era stato uno dei punti forti della critica austeniana nei decenni precedenti:

Una di quelle fate che si posano sulle culle l’avrà probabilmente portata a fare il giro del mondo non appena nata. E quando ritornò alla culla ella ormai sapeva non soltanto com’era il mondo, ma aveva anche scelto il suo regno […] Tutto ciò che ella scrive, è rifinito e ripulito e si trova nella giusta relazione, non con il presbiterio, bensì con l’universo. (ivi)

E dopo circa settant’anni – e centinaia di saggi e ricerche – anche il severissimo, autorevolissimo ma spesso contestato Harold Bloom, la inserisce nella sua lista dei maggiori scrittori del canone occidentale, cogliendo esattamente il punto quando afferma che «Le sue principali eroine possiedono una tale libertà interiore che la loro individualità non può essere repressa». E successivamente afferma: «Alcune opere letterarie sono mortali; quelle di Jane Austen sono immortali».

Ma il percorso per arrivare a questo giudizio non è stato breve. Com’è noto, in vita Jane Austen aveva pubblicato quattro dei sei romanzi maggiori (L’abbazia di Northanger e Persuasione uscirono insieme, postumi nel 1818). Non furono dei best-seller, ma vendettero a sufficienza per essere ristampati tra il 1832 e il 1833 nella collana degli “Standard Novels” diretta da Richard Bentley. La Austen era conosciuta e apprezzata soprattutto tra coloro che nel contesto culturale anglofono si definiscono “a cultural few”, una minoranza di persone colte e agiate che amavano l’eleganza e l’ironia mai volgare della sua scrittura. Tuttavia era una fama modesta la sua, anche perché in piena età vittoriana spopolavano i romanzi di passioni forti ed esplicite, come quelli di Charlotte ed Emily Brontë, ad esempio: le spigliate ma educate, misurate personagge di Jane Austen impallidivano di fronte ai sentimenti travolgenti di una Jane Eyre o alle tinte fosche e trasgressive di Cime tempestose. Non a caso, Charlotte Brontë fu una delle sue critiche più severe.

Poi accadde che nel 1870 venne pubblicato A Memoir of Jane Austen, scritto da uno dei nipoti della scrittrice, James Edward Austen-Leigh, che riportò l’attenzione su di lei che in vita aveva pubblicato anonimamente. Tanto che pochi anni dopo, nel 1883, i romanzi furono ripubblicati nella collana dei tascabili “sixpenny” di Routledge: da un’élite sociale e culturale la sua fama si diffuse a un pubblico molto più vasto accreditando però allo stesso tempo l’immagine della scrittrice come la “cara, tranquilla zia Jane”. Le memorie familiari, certamente attente al modello di rispettabilità di una Lady vittoriana, alimentarono il mito di una scrittrice dilettante – una «zitella illetterata», come ricorda Beatrice Battaglia in un testo che ne esamina l’ironia – che aveva scritto dei capolavori. Artista “non consapevole” – artista suo malgrado potremmo dire oggi – la definì Henry James in un saggio del 1905 – (ma se volete divertirvi, c’è una lista di giudizi maschili su di lei in http://www.theloiterer.org/ashton/pbear2.html) – che pure la valutava al pari di Shakespeare. Nel 1917 Reginald Farrer sulla Quarterly Review lo contraddisse definendo la Austen come una severa critica della sua società, dalle rigorose capacità di giudizio «spassionate ma inplacabili». A Farrer si deve l’inizio di un filone critico che vede Austen come una contestatrice della società del suo tempo.

Comincia quindi da qui quel processo attraverso il quale la scrittrice è entrata nel canone della letteratura “alta”, quella inglese e poi mondiale. Tuttavia per la sua canonizzazione la svolta davvero significativa avvenne nel 1923, quando lo studioso e critico R. W. Chapman portò a termine una edizione accuratamente editata delle sue opere (5 volumi, cui ne seguì un sesto con le opere minori), che resta l’edizione di riferimento. E già entro la metà del Novecento, il mondo accademico sembrava non avere più alcun dubbio nel definire Jane Austen come un “grande scrittore”. La seconda metà del secolo scorso ha visto poi proliferare la produzione critica su di lei, grazie anche e soprattutto alle studiose femministe. Parallelamente è cresciuta la sua popolarità, come si diceva, favorita peraltro dalla multimedialità: libri certo, ma anche film, radio, Tv, Web. Con curiose incursione nei suoi testi anche da parte di autori insospettabili: ad esempio l’economista Thomas Piketty utilizza anche Ragione e sentimento per argomentare la sua ricostruzione della storia del capitalismo. Il tema del denaro e delle forme di produzione della ricchezza ai tempi di Austen è stato poi approfondito da Annamaria Simonazzi (24/08/2016 su ingenere.it).

Ma alla fine, quello che davvero conta è che leggere Jane Austen è un piacere, rileggerla una felicità. Perché c’è qualcosa di inafferrabile nelle sue storie che chiama chi legge a entrare direttamente nel gioco del detto e del taciuto – o del solo accennato – che si nutre dell’ambivalenza dei personaggi e della polivalenza della realtà, che cambia nel tempo e a seconda del punto di vista. Come scrive Beatrice Battaglia

I romanzi di Jane Austen sono certo godibilissimi anche alla più disimpegnata delle letture, limpidi e brillanti come commedie, pieni di spirito e di humour, ma questi sono solo alcuni degli “effetti della molta fatica” della scrittrice. Sotto la luminosa semplicità della superficie, la scrittura austeniana si rivela complessa e ambigua, doppia e dialogica, e richiede quindi un lettore ideale “altrettanto ingegnoso” e astuto.

Nella quella sua “molta fatica”, fatta peraltro senza avere “una stanza tutta per sé”, sta la sua magnificenza.

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Devoney Looser “Jane Austen, Feminist Icon”Los Angeles Review of BooksJanuary, 20, 2014

https://lareviewofbooks.org/article/jane-austen-eminist-icon/

Jane Austen and Discourses on Feminism Macmillan Press 1995

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Virginia Woolf “Jane Austen” in Il lettore

comune Trad. di Daniela Guglielmino ora in Voltando pagina. Saggi 1904-1941 a cura di

Liliana Rampello Il Saggiatore, Milano 2011 657 pagine, 29 euro e-book 10,99 euro

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Beatrice Battaglia La zitella illetterata  Liguori, Napoli 2009

IntroduzioneJane Austen. Romanzi  (Mansfield Park. Orgoglio e pregiudizio, Emma)

L’Espresso Grandi Opere 2005

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Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo Trad. DiArecco Bompiani 2014, 2016, e-book 7,99 euro

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Harold Bloom , Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età Trad. diSaba Sardi

Rizzoli, Milano 2008 588 pagine, 15 euro, e-book 7,99 euro

“Forword” in A Truth Universally Acknowledged: 33 Great Writers on Why We Read

Jane Austen, Edited by Susannah Carson.Random House 20 pages; $25

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Claire Harman Jane’s Fame. How Jane Austen Conquered the World, Canongate Books Edinburgh 2009

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Anna Maria Crispino, giornalista e saggista, ha fondato e tuttora dirige la rivista Leggendaria. Libri Letture Linguaggi. Attualmente lavora come direttora editoriale della Iacobelli editore. È tra le fondatrici della Società Italiana delle Letterate (SIL) di cui dal 2000 organizza, con altre, il Seminario estivo residenziale. Autrice di saggi sulle scritture e il pensiero delle donne, ha scritto e/o curato diversi volumi, tra i quali: Lady Frankenstein e l’orrenda progenie (a cura di, con Silvia Neonato, Roma: Iacobelli editore 2018); Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otzuka e Goliarda Sapienza (a cura di, con Marina Vitale, Roma; Iacobelli editore 2016); Oltrecanone. Generi, genealogie, tradizioni (a cura di, Roma: Iacobelli editore 2015). Ha tradotto e/o curato alcuni volumi della filosofa Rosi Braidotti, tra i quali: Trasposizioni. Sull’etica nomade (Roma: Luca Sossella editore 2008) e Madri Mostri e Macchine (Roma: manifestolibri 2005). Vive in un borgo su un lago molto bello, a volte spazzato dalla tramontana.

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