Una scrittura di donna si è imposta all’attenzione del Premio di Poesia Renato Giorgi, edizione 2016, ed è quella de “L’ingombro”, raccolta di poesia di Simonetta Sambiase. Studi artistici (Storia del teatro, Accademia di Belle Arti), esperienza di sindacalista, blogger e poeta, Sambiase vive a Reggio Emilia, dopo una giovinezza trascorsa a Napoli e Torino.
Città difficili, specie la partenopea, dove si è nutrita, oltre che del melting pot di sapori, odori, culture, dialetti, colori, dell’insegnamento del poeta e antropologo Michele Sovente, che annovera fra i suoi maestri, assieme all’altro nume tutelare, quello di Jolanda Insana, cui è dedicata la raccolta premiata. Già il titolo, infatti, contiene un’indicazione tematica e linguistica: a una poesia che vuole farsi canto delle periferie del mondo, sboccato, polimorfo, corrisponde una lingua materica e aggettante, “ingombrante” per peso e responsabilità, che procede per allusioni, inserti dialettali, citazioni colte che indicano direzioni di lettura, orizzonti possibili.
Un doppio sguardo scaturisce da questi versi “magmatici”, da questa “scrittura irresistibile di una «femmina spaziente»”, come la definisce Maria Luisa Vezzali nella densa introduzione, uno sguardo che costruisce il mondo, con materiali di recupero e di scarto e uno che ha cura e attenzione al corpo singolo, “spaziente”, avvezzato alla “malacjorta”, al passare degli anni che si accumulano come vestiti dentro armadi affollati e costituiscono storia, scoria e, appunto, ingombro.
Ingombrante è dunque proprio il tempo che passa, col suo carico di distacco e destino, quel tempo della raccolta che è diviso in tre fasi: Fuori, Dentro e Dentro, ma dentro assaje, e la ricerca di una lingua per dire questo ingombrare, una lingua “caotica anche se governata” (Vezzali), corrisponde alla ricerca di un inventario femminile all’interno di un canone nuovo ancora in costruzione. La prolissità è teorizzata come correlativo linguistico della moderna comunicazione, caotica e inquietante, dove il conflitto è tradotto nella scelta spuria e grondante di quotidianità troppo visibili, e all’opposto in misteri, totem e talismani, animali fantastici come quelli di Villa Iovis di Tiberio, racconta l’autrice, di fronte a Capri.
La ricerca di amore è di tutti e non è mai abbastanza, scrive l’autrice, che parla di neri dei parcheggi e di badanti che stanno di vedetta il giovedì, di chi impara “a mangiare il maiale, la zucca e la coda”, di famiglie che vengono “una da Sokolo e una da Zocca”, come una volta venivano a nuovayorke.
L’ingombro è la nostra vita, ma anche la nostra speranza, in un domani migliore.
Saresti una musulmana perfetta
con quegli abiti fagotti non chiami i diavoli dei sensi
Ed io che fino all’ultimo
credo di sfuggire all’imperfezione perfetta
dei miei occhi ittiti e dei tacchi bassi
sono confusa negli alberghi di stelle alte
e in questo sarcofago di corpo mi faccio orsa
che la vita è un logaritmo incomprensibile di caos e caso
se solo per caso chiamiamo patria un pezzo di terra
una spiga che nutre, una lepre che corre
da nord al caldo
un confine che da dimora
un muro, un filo, un pezzo di viaggio
una stanza e qualche gioia
perfino i numeri e le parole
fin quando messianica una voce
ad esplodermi avanti:
“escusmi signorina
lei che è certamente del posto e sa tutto
ma dove sono i cessi?”
Simonetta Sambiase, L’ingombro, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2016, pp. 49, € 10.7 giugno 2017
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Loredana Magazzeni

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