Personaggi del libro di Marita Bartolazzi: il figlio, la figlia, il noioso e prevedibile Monumento e anche il gatto, che è “quasi sempre all’altezza della situazione”. Ma pure “le se stessa del passato”, permalose e supercritiche
di Bianca Tarozzi
Questo è un libro sulla tristezza, ma non è affatto triste, essendo pieno di imprevedibili accadimenti: sogni, incontri, riflessioni; corvées domestiche (per esempio, il sale grosso da ricomprare), luoghi di lavoro, supermercati colmi di meravigliosi miraggi che attenuano gli inevitabili affanni giornalieri. La vita della protagonista senza nome è affollata di oggetti e animali parlanti – particolarmente oracolare qui è il gatto, simile al grillo di Pinocchio, ma niente affatto destinato a una misera fine.
Ci sono molti personaggi o persone – non del tutto reali, ma con una propria efficace consistenza: c’è il figlio della protagonista – Michele – e anche la figlia – Vivien — fa una breve comparsa. Ma soprattutto ci sono “le se stessa del passato”: quella dei sassolini, quella del cappotto rosso, quella del labirinto, quella del terrario. Mentre l’oggetto più voluminoso – il cosiddetto Monumento – ha una voce autorevole, seppure a tratti ufficialmente retorica e prevedibile, e può essere noioso, il gatto dà buonissimi consigli ed è “quasi sempre all’altezza delle situazioni”.
Visitatrici importune, sono invece quasi sempre le se stessa del passato: insistono nel volersi intrufolare, in qualche caso sono supercritiche e hanno da ridire su tutto, si offendono facilmente, agiscono in modo incongruo… sembrano appartenere a una vita precedente, mal digerita; il gatto le disapprova, ma di loro è quasi impossibile liberarsi: sono invece loro che, a fine libro, si liberano della protagonista e partecipano trionfalmente alla cerimonia di inaugurazione del Museo.
Importanti sono, nelle vicissitudini della protagonista, gli oggetti desueti: i vecchi ferri da stiro appartengono a questa categoria e, usati come fermaporte, compaiono degnamente nel Museo. Ma anche le sedie a dondolo hanno una loro benemerita presenza.
Da tutti i propri innumerevoli impegni e doveri la sensibilissima, prudente e coscienziosa donna che pensava di essere triste si libera dormendo, con appropriati pisolini, buone dormite e un favoloso, provvido buco nero, ben adatto all’uopo. Anche lì però si è disturbati: non c’è scampo! Di grande utilità è il supermercato dei sogni, anche se spesso i sogni stessi sono difficili da trasportare, ma in ogni caso, durante tutti i vari traffici, il cuore della protagonista resta “sempre lì, nel canto”. Si può pensare dunque che il romanzo di Marita Bartolazzi sia la storia di un apprendistato alla solitudine: ma è una solitudine fittamente popolata.
Alla fine del libro si viene a sapere che il Museo che si inaugura è il Museo della tristezza: una utile iniziativa, poiché utilissima è la tristezza, secondo gli appassionati oratori: essa “ci rende migliori, più calmi e riflessivi, meno propensi ad atti irresponsabili”…
Anche alle varie se stessa, donnette non sempre ragionevoli e di facili entusiasmi, quella del Museo sembra una bella iniziativa. Ma la donna che pensava di essere triste il Museo non lo ha visitato e probabilmente non ne ha bisogno. La donna che pensava di essere triste non è stata avvertita e non è dunque presente alla cerimonia della inaugurazione: di certo, scrivendo, si è lasciata la tristezza alle spalle.
Marita Bartolazzi, La donna che pensava di essere triste, Exòrma 1917
Bianca Tarozzi
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