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Umorismo, irriverenza, provocazione, non sense, denuncia sociale sono gli aspetti cruciali delle sue poesie performative, ma anche il filo rosso che unisce tutte le sue opere molte delle quali sono visibili fino al 6 ottobre a Napoli al Museo Madre

Di Marina Borrelli

L’iconico portone giallo di via Settembrini, ovvero la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – Museo Madre di Napoli, ospiterà fino al 6 ottobre “Euforia” la più ampia retrospettiva museale dedicata all’artista Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna (Salerno, 1931). La cura è di Eva Fabbris con Daria Khan. Exhibition design Rio Grande.
Artista tra le più significative del nostro tempo, la cui forma espressiva è riconducibile prevalentemente alla poesia visiva, o scrittura verbo-visiva, da più di quarant’anni scardina le convezioni sociali e culturali utilizzando come medium tanto il suo corpo che la sua voce. La scelta di uno pseudonimo è presto detta: «Il mio nome maschile – dice Binga – gioca sull’ironia e lo spiazzamento; vuole mettere allo scoperto il privilegio maschile che impera nel campo dell’arte, è una contestazione per via di paradosso di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che, come donne, vogliamo distruggere. In arte, sesso, età, nazionalità non dovrebbero essere delle discriminanti. L’ Artista non è un uomo o una donna ma una PERSONA»[1].
Punto di arrivo di questo sdoppiamento di identità è l’opera intitolata Bianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose (1977), presente in mostra, in cui Binga mette in scena una delle sue performance più simboliche, un dittico che celebra il matrimonio dell’artista con il suo alter ego: a sinistra Tomaso Binga vestita con abiti maschili, occhialoni e capelli pettinati all’indietro accanto a una macchina da scrivere mentre ha in mano dei fogli bianchi, come a voler simboleggiare una pratica esclusivamente appannaggio dell’uomo; a destra la foto originale del matrimonio di Bianca Menna con indosso un romantico abito da sposa, veletta in testa, bouquet di fiori in mano, sguardo felice e sognante.

Non ci potrebbe essere immagine migliore per rappresentare le convenzioni tipiche di una società conformista, dove alla delicatezza e alla sensibilità femminile si contrappone la razionalità intellettuale maschile. Un’operazione di trasformazione identitaria per sottolineare il maschilismo dell’istituzione matrimoniale, e non solo, «una rielaborazione giocosa e radicale del linguaggio che sfida i codici eteronormativi e patriarcali incorporati nella cultura»[2].
Sia nella sua pratica artistica sia nei suoi intenti femministi, dunque, in Binga è presente una gioia quasi infantile nel sovvertire le regole, un bisogno di riappropriazione di spazi e di parole, una vitalità che è ben espressa anche nel titolo della mostra: Euforia, una parola «particolarmente amata da Binga perché contiene tutte le vocali, foneticamente universale ed estroversa, un titolo-manifesto – come sottolinea la curatrice Eva Fabbris – un augurio, una necessità politica di resistenza»[3]. Lo spirito giocoso accoglie il visitatore già dalla prima sala, e poi nelle successive del terzo piano del museo, dove tubi colorati come serpenti multiformi si aggirano e strisciano nello spazio, diventano impalcature per le opere, supporti, divisori e intermezzi divertenti; quasi installazioni a se stanti, questi conducono lo spettatore lungo il percorso museale e lo coinvolgono senza invadere il suo campo visivo.

«Un allestimento sperimentale dal tracciato circolare ideato dal collettivo multidisciplinare Rio Grande in dialogo con Tomaso Binga»[4].
L’esposizione, frutto di un intenso lavoro durato due anni, presenta un cospicuo numero di opere (dalle poesie visive, alle installazioni, dalle fotografie ai collage, dai documenti alle testimonianze di performance) che consente a chiunque la visiti di avere un’idea esaustiva del percorso artistico di Binga e della sua evoluzione. A partire dagli anni Sessanta produce una serie di disegni e sculture di stampo geometrico-cubista e altre di ceramica dalle forme fluide e organiche, come Donna posacenere (1960) o Appendiabito (1960), che già riflettono la sottesa critica femminista di Binga all’oggettivazione della donna. Critica che ritroviamo anche nelle opere del decennio successivo, quando realizza una serie di lavori che hanno come base principale i comuni contenitori sagomati di polistirolo, espressione della società dei consumi, a cui Binga aggiunge ritagli fotografici e collage presi dai mezzi di comunicazione di massa, come riviste e giornali.
Questi oggetti, protetti all’interno di teche di plexiglass, sono il segno dell’interesse di Binga per materiali poveri e di scarto ai quali è stata tolta “l’anima” per così dire, poiché una volta svuotati dal contenuto il contenitore perde la sua funzione. Nelle opere come Autoritratto (1971) e Donna in scatola (1972) è evidente la volontà dell’artista di esprimere una critica nei confronti della condizione in cui si trovano le donne, la loro riduzione a oggetto di consumo, messe in scatola e rese attraenti come merci pronte per essere acquistate.
Dopo queste prime opere segue una delle più importanti fasi artistiche di Tomaso Binga, la ricerca sulla cosiddetta Scrittura desemantizzata, una scrittura criptica, subliminale, nata come dilatazioni di segni in cui il significato lascia il posto al significante. Una scrittura automatica, illeggibile, un azzeramento del linguaggio che conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Una scrittura che non si può pronunciare, muta sebbene in grado di “parlare”, di agire. La vediamo in opere come Lavatoio (1974) e Abbassalingua (1974), presenti in mostra, riferimento al duro lavoro domestico destinato alle donne e alla loro condizione di sottomissione. È il gesto artistico che diventa possibilità di riscatto, è il bianco dipinto sulle superfici degli oggetti che dona un senso di purificazione, le opere diventano pagine bianche di un diario su cui vengono stese parole indecifrabili.
La Scrittura desemantizzata diviene strumento di liberazione nella performance installazione Io sono una carta (1976) in cui Binga tappezza le pareti di una casa privata del quartiere borghese Monti Parioli di Roma con la sua scrittura misteriosa, i disegni floreali dei parati si mescolano ai suoi segni vibranti, spazi e oggetti (anche quelli non visibili) ne sono riempiti; alludendo ancora una volta alle mura domestiche come contenitore asettico riservato alle donne, Binga trasforma quella gabbia omologante in uno spazio originale, vitale. Successivamente assume lei stessa le sembianze di una carta, incarnando letteralmente l’espressione “fare carta da parato”, mentre declina la poesia che da il titolo all’opera. Binga perciò rifiuta questo ruolo secondario, decorativo, dichiara e difende il suo pensiero critico, abita l’intero ambiente, non lo subisce, lo soggettivizza con il proprio linguaggio rivendicando la propria autonomia.
Proprio la ricerca sulla scrittura conduce Binga al passo successivo nella sua carriera artistica dedicandosi, a partire dagli anni Settanta, a Scrittura vivente (1975): una serie di opere realizzate insieme alla fotografa e amica Verita Monselles. Binga con il suo corpo nudo, privo di qualsiasi ornamento, viene fotografata mentre assume le forme di ogni singola lettera dell’alfabeto, così da far diventare il suo corpo il corpo della parola stessa. Il tema del linguaggio è sempre stato particolarmente sentito dal pensiero femminista italiano, e lo è tutt’oggi; la percezione che la donna sia costretta a parlare di sé attraverso una lingua, un mondo in cui non è parte attiva, ha portato Binga a capovolgere ancora una volta il sistema maschilista e lasciare il proprio segno. La sua lingua non è un corpo astratto, ma vivo e vegeto, fatto di mani, braccia, gambe e piedi, un corpo esplicito. Con il suo gesto spinge la donna a fare parte del mondo, a guadagnarsi lo spazio che si merita, esaltare il proprio corpo ed essere parte del messaggio che veicola. Intorno alle sue lettere-corpo Binga ha continuato a lavorare per tutto il corso della sua carriera fino ad oggi, creando delle variazioni sul tema, ne sono esempi opere come Alfabetiere murale (1976) o Alfabeto pop (1977).
Dalle prime performance affidate al gesto, come Vista zero (1972) in cui Binga già riflette sulle dinamiche dello sguardo, dell’oggettivazione e dell’ipervisibilità della donna – e diventando tra le prime artiste in Italia a utilizzare il video come medium artistico –, all’azione e alla scrittura, al recupero della forma epistolare come ulteriore formula di critica politica ed espressione artistica (Ti scrivo solo di domenica, 1977-78), Binga passa poi, nel corso degli anni, a dedicarsi a lavori più legati alla poesia, a sperimentazioni relative alla sonorità delle parole e le finezze della scrittura. Tra le sale del museo, non a caso, si possono ascoltare delle poesie di Binga, ascoltare la sua voce, come Valore Vaginale (1995) e Sogn’ogn’or (1999) di stampo femminista, e avere la possibilità di vedere collage e spezzoni di esibizioni di poesie sonore, tra cui quelle eseguite al Maurizio Costanzo show a fine anni Novanta. In definitiva, umorismo, irriverenza, provocazione, no sense, luogo comune, denuncia sociale sono gli aspetti caratterizzanti non solo delle sue poesie performative, ma anche il filo rosso che unisce dall’inizio alla fine tutte le sue opere. La retrospettiva su Tomaso Binga non è solo la celebrazione della carriera di una grande artista, ma è anche opportunità per rilanciare e mettere in discussione problematiche identitarie e sociali di cui, ancora oggi, è più che mai necessario parlare.

[1] https://www.madrenapoli.it/mostre/euforia-tomaso-binga/

[2] Dal pannello informativo relativo all’opera presente nella sala del museo Madre.

[3] https://www.madrenapoli.it/mostre/euforia-tomaso-binga/

[4] Ibidem.

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Marina Borrelli

Marina Borrelli è nata a Napoli nel 1989. Si è laureata in Archeologia e Storia dell’arte all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” con una tesi su Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta. Dopo la laurea ha seguito un master in Marketing e Comunicazione per mostre e musei a Milano e ha continuato a interessarsi al mondo dei social media. Ha lavorato al Museo del Duomo di Milano e tuttora vive e lavora nella città meneghina. Continua la sua ricerca sul legame tra arte e femminismo in Italia per fare riemergere figure femminili dimenticate o sommerse del mondo dell’arte.

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