Dove sono finiti i bambini? E le bambine?

Elvira Seminara 29 giugno 2020

Strade in città, di giorno, chilometri – e non ne vedi uno. Incontro cani e gatti, tanti, ma nemmeno un bambino. Scomparsi.
Dove sono finiti i bambini? Non c‘entra la quarantena, succedeva già prima.
E’ vero. Piantano grane, vogliono spazi, tempo curato e addirittura vario. Le bambine e i bambini sono un peso – tra asili scuole giardini giostre piscine –  per lo Stato. Vogliono giocare, cantare, imparare, muoversi. Per questo cadono giù dalle agende di governo. I bambini sono un assillo per i governi, specialmente il nostro. Costruire un asilo o un parco giochi costa molto ma non dà pari visibilità, e inoltre appare un’opera dovuta, non fa notizia.
I bambini imbarazzano. Hanno anche questo, di insolente: ci ricordano le responsabilità, gli impegni, la nostra età.  Quel vizio di chiedere futuro, progetti. Cosa c’è di meglio, per contenere quest’esuberanza, questa domanda capricciosa di vita, che legarli al computer, somministrargli lezioni e video tutto il giorno, sino a intontirli, a irretirli in una dipendenza che anzi rafforza la loro domesticazione? Ci è riuscito benissimo il nostro governo durante la quarantena. Bambini? Quali bambini? Come ci si può occupare di bambini in una pandemia? Non ci sono le mamme e i nonni per questo?
No, vero, dannazione, i nonni sono isolati a casa o in agonia negli ospizi! All’improvviso il ruolo sociale dei nonni, solitamente onorato per pubblicizzare pannoloni e spray per dentiere, è apparso cruciale anche sui media. Guarda un po’, erano un anello importante nella catena produttiva, supportano le madri che vanno a lavorare! Chi l’avrebbe detto?
La quarantena ha svelato, tra le altre cose, che esistono ancora le età. Ci sono i bambini, i ragazzi, gli adulti e i vecchi. Non è vero che siamo tutti tardo-adolescenti o tardo-adulti.  Non siamo solo fasce di consumatori unificati dal marketing e dagli algoritmi, massa indifferenziata di desideri indotti. Siamo corpi istoriati dal tempo, età e memoria scritte addosso, a mano. Segni più forti e cicatrici, tagli. I vecchi muoiono più degli altri, perché più deboli e soli. E i bambini, anche se esperti sul web, hanno esigenze di bambini.
Ma dove sono finiti, a proposito, i bambini?
Li abbiamo fatti fuori. Sono scomparsi nello scenario urbano, nelle strade, nei pub, bistrot e caffetterie (ma li sostituiscono i cani da grembo, più calmi). Li abbiamo confinati in spazi appositi e più sicuri, a pagamento – club, centri di animazione, di intrattenimento mirato.  Abbiamo smesso di esporli, doverosamente, nel mondo e nel web, contro il pericolo della pedofilia, ma l’occultamento prosegue tra silenzio e fatalità.  Al mercato basta che esprimano bisogni da tradurre in prodotti. Per il resto, sono un problema delle mamme, no? Anche temporaneo. Le creature crescono, mica restano per sempre avidi di cure. Mamme, godetevi questo tempo così precario e rapido, non fate storie e rivendicazioni! E’ già una fortuna essere madri, no?, coi tempi che corrono ! Perché perdere tempo a reclamare giostre e servizi, addirittura diritti dell’infanzia, se i vostri figli intanto sono arrivati alla scuola media?  Il tempo intenso e pulviscolare della maternità non si incontra col tempo della politica. Produce semmai indifferenza e delega, dilazione.
Siamo un paese che rimuove l’infanzia.
E’ vero, c’è un fiume brillante di blog dove mamme acute e attentissime raccontano i tormenti della dentizione e i sussulti del primo balbettio, postando bavette ricamate e pappe biologiche, ma si tratta comunque di atolli isolati, fuori dalla terra ferma, dove la stessa gioia onnipotente della neo-mamma crea e favorisce il distacco. Col pericolo – aggiungerei – di proporre un’autorappresentazione della maternità (e del femminile) troppo efficiente e perfetta, modello spesso irraggiungibile e ansiogeno per mamme fragili e sole, molto lontano dalla vita reale.
E’ così che spariscono i bambini, togliendoli dal quotidiano. Dalla comunità, dal nostro sguardo. Spegnendoli. Facendoli invecchiare anzitempo, per arrivare prima all’adolescenza che è il pianeta più abitabile e largo, in cui tutti possiamo riconoscerci, con gran tripudio dell’industria.
Sino a ieri era la morte il campo assoluto della rimozione collettiva. Troppo ingombrante, maleodorante, e scomoda per darle spazio nel quotidiano e nei pensieri, troppo antitetica al nostro ritmo mercantile, al nostro presente permanente e giovane.
Poi è arrivato Facebook, però.
Chissà cosa direbbe oggi Philippe Ariès dinanzi alla morte viva e disciolta nei social, questo storytelling della dipartita, un lutto fluido e condiviso su Fb, smaltito in diretta tra annuncio e necrologi. Morte contigua e familiare, di prossimità.  Un lutto davvero “incancellabile” nei profili che non si chiuderanno – per mantenere la comunicazione fra lo scomparso e gli amici. Per fargli ancora sentire, dal mondo etereo per eccellenza, il frastuono della vita. E d’altronde, quale spazio più adatto del web, immateriale e impalpabile, orbitale, per ospitare ombre o figure senza corpo?
Non rimuoviamo più la morte, no. Rimuoviamo l’infanzia. La si consegna alle madri, purché nell’ombra, mute, estatiche, attive quanto basta perché quest’infanzia finisca presto. Perché generi adulti in grado di produrre beni e consumi, di pagare contributi e tasse. Lo Stato li chiama “minori” infatti, che è diverso da bambini. Minori vuol dire incompiuti, inadeguati, relativi.
E’ qui che la politica, con sollecitudine mai vista, si ricorda perversamente di noi: “Ma perché non fate più figli? Come si può uccidere un embrione, espellere la vita? Volete infliggerci una società di stranieri e pensionati?”.
I bambini ci guardano – nascosti, pallidi, perché anche il sole è un pericolo. Si muovono a tentoni, diffidenti, nello spazio appena liberato. Non parlano. Si sono convinti di essere invisibili – forse. E per fortuna gli sembra una magia.

Elvira Seminara

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Elvira Seminara

Scrittrice e giornalista, vive tra Aci castello e Roma. Fra i suoi romanzi L’indecenza (Mondadori 2008); I racconti del parrucchiere (Gaffi 2009); Scusate la polvere (nottetempo 2011); La penultima fine del mondo (nottetempo 2011); Atlante degli abiti smessi (Einaudi 2015) - i primi due messi in scena dal teatro Stabile di Catania. Suoi testi sono tradotti in diversi paesi.

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