Una famiglia anarchica con le galline in salotto, un grande giardino dove i fratelli scorrazzano, la tata che parla solo dialetto calabrese e il padre architetto che costruisce una barca al piano terra. I ricordi allegri di Lia Piano, le sue pagine di risate e spaventi, turbamenti e incanti
di Roberta Mazzanti
Non c’è bisogno di volare come Peter Pan per sconfiggere la forza di gravità, se da piccola – così piccola che i tuoi fratelli ti chiamano “Nana”, sparisci nell’erba alta del giardino e porti un cappelletto con la bandierina per farti trovare – tuo padre “contrarissimo alla forza di gravità” ti solleva sulle spalle portando in giro per la casa avvolta dal fumo della sua pipa, e ogni tanto ti dimentica “su una mensola, in cima a una scala, sopra il frigo”.
Non vai in cerca dell‘Isola che Non c’è per sentirti libera, quando abiti già nell’anarchia rigorosa e creativa di un’antica casa genovese, circondata da un giardino che è “un pezzo di campagna dimenticato in città”, e ci vivi con due fratelli teneramente dispettosi, un padre e una madre amorevoli e distratti, quattro cani e quaranta galline, molti ratti, cimici e scarafaggi, centinaia di rane e un solo criceto.
Puoi vivere incantesimi molto più speciali di Mary Poppins, se la tua tata Concepita Maria è un’analfabeta calabrese che parla solo dialetto, ti accoglie in un abbraccio procace che profuma di sapone di Marsiglia e di basilico, ti punisce a zoccolate e ti insegna che per leggere basta fissare le pagine, aspettando che le parole vengano a galla “come bolle dal fondo di uno stagno”.
È la Nana, ormai adulta e sul punto di salutare la casa di famiglia, “l’unico personaggio realmente esistito presente in queste pagine”, a raccontare il periodo in cui la sua famiglia felice aveva tentato di diventare normale, mandando i bambini a scuola, ritrovandosi all’ora di pranzo tutti intorno a una tavola, scoprendo il concetto di tempo nelle sue scansioni quotidiane e comuni.
Nel racconto della Nana il punto di vista è quello di una bambina che si aggira in un mondo più stravagante di Hellzapoppin e più sottosopra di una fiaba, senza giudicarlo e limitandosi con perfetta e involontaria comicità a registrane gli scarti rispetto al mondo degli altri, “denso, costruito di oggetti pesanti, e regolato da leggi incomprensibili”. Mentre la casa della sua famiglia e dei loro molti animali “di notte diventava una lanterna magica. Non c’era verso di fare buio, né silenzio. La luna entrava dalle finestre spalancate e si frangeva nelle griglie delle vetrate, disegnando sul pavimento una grande scacchiera. Io giocavo a campana, saltando dentro e fuori dai quadrati luminosi”.
La grande dimora mai del tutto arredata, dove il padre costruiva una barca a vela nel seminterrato e Concepita Maria si rifugiava in lavanderia dove “il ciclo di lavaggio dei nostri vestiti richiedeva un tempo variabile fra due settimane e l’infinito” e seduta davanti alla lavatrice, “ipnotizzata dalle mareggiate dell’oblò, iniziava a parlare. (…) Tirava il filo di una parola, e dalla vasca della lisciva saltava fuori un pezzo di mondo. Erano storie truci e violente, intrise di stregonerie, sortilegi e castighi che attraversavano generazioni. Fulmini che centravano case, animali e persone”.
E la casa è popolata da vecchi fantasmi con la bronchite ai quali si devono lasciare tazze di latte e miele, da decine di galline che scorrazzano in salone e vivono “l’isolamento nel pollaio come una bruciante ingiustizia sociale”, da Pippo “il cane dei 100 cuori” inseparabile dalla Nana, Pippo che lei addobba con gli abiti della mamma, tubini neri e gonne da hippy, e trucca con il rossetto e gli orecchini perché fierissimo la accompagni nel suo primo giorno di scuola… il posto assurdo in cui ai bambini impongono regole insensate – come quella di colorare dentro i margini delle figure o guardare solo in direzione della cattedra, dove sulla parete “brillavano un crocifisso, la foto di un vecchietto vestito di bianco e la cartina dell’Italia appesa storta” –, tanto che i suoi genitori si chiedono se non sia il caso di ritirare i figli da scuola, per evitare che diventino “tre selvaggi.”
Nella famiglia felice la stravaganza domina sistematica: ciascuno segue infatti le proprie regole e misure – non per nulla il padre si aggira sempre con il metro e si impegna ad insegnare che “l’arco è un sistema democratico, che se non sono d’accordo tutte le pietre, ti frana in testa” – e una pedagogia balzana ma rigorosa permette a ognuno di seguire la sua vocazione: è una casa aperta alle creature e agli elementi, dove il vento entra a preannunciare un’altra dimora familiare, la barca a vela che presto volerà sulle onde mentre la Nana nascosta dietro il timone strilla: “Liberi! Liberi!”.
Lia Piano ha scritto un irresistibile romanzo familiare che sarebbe piaciuto al Barone Rampante di Italo Calvino per la sua aerea, anarchica leggerezza; che avrebbe fatto la gioia di Gian Burrasca per le trasgressioni ridenti di ogni ammuffito perbenismo; che sbaraglia con la sua iperbolica fantasia i giardini segreti, le fate madrine e le tate con l’ombrello volante; che racconta senza compiacimenti l’anticonformismo dominante in una casa che è un’isola di libertà; che sa giocare un registro comico e buffonesco – così raro nei romanzi familiari e nelle memorie d’infanzia degli autori italiani – senza mai scivolare nella faciloneria da commedia.
Una maestria sottile per dare voce a un punto di vista di bambina, un volteggiare nella memoria – senza mai appesantirla di rimpianti –, per arricchire ogni pagina di risate e spaventi, turbamenti e incanti.
Lia Piano, Planimetria di una famiglia felice, Bompiani 2019.

Roberta Mazzanti

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