«Non partiamo mai dalla violenza con le donne che vengono a chiedere aiuto. Hanno vissuto all’interno di una relazione violenta ma hanno costruito con quell’uomo una storia, un progetto di vita, lo hanno amato, sono state amate. Il percorso con loro parte da lì». Due operatrici di Be Free riflettono con Leggendaria
Come fanno queste donne a restare intrappolate in relazioni tanto violente? La prima domanda che nasce dal senso comune è sempre questa: perché non scappano a gambe levate e anzi, anche se fuggite, addirittura accettano ancora un incontro con il loro ex che a volte può essere fatale? Rispondono così: «Ci sono tanti punti di vista. Il senso comune, la voce dell’immaginario collettivo, fa questa domanda che si può tradurre così: io non mi troverei mai in una relazione così violenta e comunque so che sicuramente sceglierei di andarmene. Perché lei non lo fa? Poi c’è il punto di vista delle donne che hanno subito violenza: quell’uomo le ha amate, hanno costruito insieme una storia, magari hanno dei figli, lui promette di cambiare, loro stesse lo hanno amato, forse ancora lo amano o credono di amarlo. Infine c’è il nostro punto di vista, quello delle operatrici, il terzo».
Dialogo con Antonella Petricone e Sara Pollice, operatrici della cooperativa sociale Be Free nata a Roma nel 2007 per combattere tratta, violenze e discriminazioni. Entrambe hanno fatto dei corsi specifici sulla violenza, o seguito seminari e laboratori su tematiche di genere per completare la propria formazione e continuano a lavorare e aggiornarsi, come molte operatrici di questo settore. Sono alla ricerca di un altro punto di vista sulla violenza di genere e la prima cosa che imparo è che gli angoli da cui guardarla sono almeno tre. Vorrei cominciare dall’approfondire qual è l’angolo da cui guardano loro, le operatrici, per capire la natura di un legame che stringe una donna a un uomo violento, un legame tanto potente da spingere molte a salire ancora una volta sull’auto dell’uomo da cui ci si è già in parte allontanate.
«C’è uno slogan molto in voga, che recita: la violenza non è amore (oppure: se ti mena non ti ama). Uno slogan del genere può essere efficace quando vai a parlare nelle scuola a ragazze e ragazzi che devono ancora cominciare una vita di relazione. Ma se tu invece usi queste due parole così nette con donne che sono da anni all’interno di una relazione con un partner violento, se dici l’amore non è violenza, la frase può diventare rischiosa e ulteriormente svilente per il suo vissuto. Significa giudicarla, pressarla, non riconoscere che dietro la sua relazione esiste un progetto di vita ben preciso, che lei ha voluto fortemente chi sa da quanto tempo. Le fai una ulteriore violenza: le stai dicendo che questo uomo che la mena non è il suo amore/il suo compagno e che lei è una persona fragile e succube, incapace di reagire e di liberarsi di un amore che non è sano», spiega calma Antonella, una delle fondatrici di Be Free, che ha lavorato dal 2010 fino a pochi mesi fa nel Centro SOSDonnah24, una struttura del Comune di Roma, ora chiusa perché il Comune in giugno non ha rifatto il bando per assegnarla. E Antonella, che non vede l’ora di tornare a fare il suo lavoro amatissimo, aggiunge: «La nostra attenzione massima sta nello stabilire, con la donna che chiede sostegno, una relazione di fiducia, che non può non partire dalla sua storia personale, anche se quella storia l’ha poi condotta a creare una relazione con un uomo violento».
«Nei colloqui partiamo sempre dall’amore, non partiamo mai dalla violenza. Lavoriamo sulla relazione, che non si risolve semplicemente con la dicotomia vittima/carnefice: di mezzo c’è la complessità di una relazione, spesso condivisa da parecchi anni. L’uomo violento non picchia 365 giorni l’anno. Non è necessariamente un mostro. A volte è anche fascinoso, oppure fa bene l’amore, scherza coi figli, chiede scusa, domanda aiuto alla compagna. Siamo all’interno di una dipendenza affettiva reciproca: quando iniziano queste dinamiche di violenza è naturale che vengano messe in atto delle strategie di sopravvivenza. Perché hai i figli piccoli oppure sei appena sposata e non hai un lavoro e dunque la dipendenza è anche economica. Il nostro scopo non è “guarire” queste donne dalla violenza, ma valorizzare il loro vissuto e sostenerle in un percorso in cui possano autodeterminarsi. Senza giudicarle, senza considerarle semplicemente vittime di un carnefice. Non sei solo vittima, non sei nata vittima e non è detto che resterai per sempre in questa relazione violenta: questo mi pare il percorso da fare», dice Sara Pollice, al lavoro allo sportello dell’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma
Riprende Antonella: «Abbiamo creato Be Free proprio con l’idea di dare vita a una cooperativa per tutelare sia le donne che subiscono violenza, sia le operatrici che si occupano di violenza. Noi per prime infatti lavoriamo su noi stesse per elaborare una violenza di genere a cui sappiamo bene di essere soggette in quanto donne. Vogliamo fare un percorso insieme, nei colloqui: se tu non parti dall’amore e dalla dipendenza affettiva non puoi che trattarla come vittima e chiederle/imporle di lasciarsi passivamente assistere da te, dal tuo centro. E se non si affida, fa resistenza, cambia idea, poi ritorna sia da te sia da lui, allora le dici: è colpa tua. No, non crediamo si debba lavorare così. Le donne devono poter scegliere liberamente sul proprio percorso personale e non è detto che i loro tempi corrispondano ai tempi e alle aspettative delle operatrici. Su questo noi ci confrontiamo continuamente e impariamo ad affrontare il senso di frustrazione che inevitabilmente accompagna, in alcuni casi, il nostro lavoro proprio per evitare che una nostra scelta debba ricadere su un’altra donna o che il nostro desiderio di fuoriuscita dalla violenza si sostituisca al desiderio di quella donna».
Di nuovo Sara: «Il nostro percorso prevede che io operatrice ti sostengo nel prenderti la responsabilità sulla tua vita per rompere questa dipendenza insana e distruttiva che produce violenza e blocca lo sviluppo personale di tutti. Ti aiuto e ti sostengo in un percorso di cambiamento in cui puoi tornare a prenderti la responsabilità della tua vita e della vita dei tuoi figli e in qualche caso possiamo anche essere severe: quando occorre e i bambini vivono situazioni di sofferenza intollerabile, spieghiamo bene a quali conseguenze possono andare incontro non attuando dei cambiamenti per proteggere la vita di figli minori».
Può anche accadere che si dica alla donna che i figli verranno allontanati dalla coppia che vive la relazione violenta. Antonella: «Sì, ma va scardinata la colpevolizzazione, quella voce interna che ti sussurra: io scapperei, ma perché questa qui non lo lascia? Simone de Beauvoir scrive che la vista delle prostitute ci aiuta a sentirci più puliti, come se la sporcizia del mondo se la prendessero loro al posto nostro. Scrive letteralmente ne Il Secondo sesso: “Occorrono le fogne per garantire la salubrità del palazzo, dicevano i Padri della Chiesa […] L’esistenza di una casta di donne perdute permette di trattare le donne oneste con i maggiori riguardi”. Può insomma accadere anche con le donne che subiscono violenze, di incarnare ciò che più si rifugge perché è vicino a ciò che ci fa paura. Spesso si sente il bisogno di mettere una distanza da ciò che spaventa e di volerlo sentire come lontano da sé per non dover riconoscere che la violenza è talmente radicata culturalmente che può coinvolgere chiunque senza distinzioni di sorta, donne intelligenti o meno intelligenti, donne forti o meno. Noi abbiamo tale consapevolezza e proprio perché sentiamo e pensiamo che la violenza riguardi tutte le donne, ci battiamo affinché venga considerata una forma di violenza di genere a cui tutte purtroppo siamo soggette. Far conoscere la violenza senza falsi stereotipi e senza giudizi di valore che accentuano la distanza di cui sopra, è necessario per restituire complessità e quindi soggettività a un fenomeno che non è per nulla facile da scardinare e che richiede impegno, competenza, professionalità, fatica e dedizione».
È dunque utile che nei centri lavorino anche uomini? Antonella risponde: «Tuttora credo che debbano essere le donne a occuparsene, come la tradizione femminista dei centri antiviolenza ci ha insegnato e trasmesso. Ma figure di uomini che trasmettano un valore positivo e non un immagine legata all’uomo violento e irrispettoso, potrebbero apportare un contributo non da poco, ma solo dopo aver fatto un percorso di formazione e di elaborazione rispetto alla loro appartenenza di genere così come le donne che vogliono fare questo lavoro compiono da anni.
Un’ultima domanda sui volti tumefatti che la rappresentazione pubblica delle donne che subiscono violenza ci ha proposto per anni. Sara: «Nella rappresentazione pubblica, se tu parli di donne che subiscono violenza, devono vedersi lividi, ematomi: sembra che se non è visibile, non è violenza. E allora mi capitano allo sportello del San Camillo donne che dicono: io non sono un caso grave, non sono la vittima di un carnefice, però lui mi tratta come una stupida, non mi risponde, non ascolta i miei discorsi, i progetti che faccio. Posso continuare a parlarle o vi occupate solo delle vittime di violenza?».
Infine una riflessione sui rapporti con gli enti locali e lo Stato: «Noi di Be Free abbiamo scelto di dialogare anche con le istituzioni. Rivendichiamo la nostra scelta femminista e la nostra militanza attiva nel movimento delle donne di cui sosteniamo e abbracciamo pratiche, percorsi e scelte di autodeterminazione, ma abbiamo deciso di portare la politica delle donne anche nelle istituzioni perché pensiamo che debbano farsi carico del fatto che la violenza contro le donne e i minori è un problema della società tutta».
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Info: www.befreecooperativa.org oppure la pagina FB https://www.facebook.com/CooperativaSocialeBefree/?fref=ts.
PASSAPAROLA:








Silvia Neonato

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