“Non ho più bisogno di mangiare… Ho fatto un sogno… sul mio corpo crescevano le foglie, e dalle mani mi spuntavano radici…”
Questa è la metamorfosi che sogna e persegue Yeong-hye, la vegetariana.
E qui il primo paradosso di questo racconto estremo: nel romanzo di Han Kang, scrittrice coreana che ha ottenuto nel 2016 il Man Booker International Prize, la protagonista è la sempre-assente, l’inaccessibile. Perché assente, ineffabile è il suo punto di vista.
La sua storia che parte dal primo sogno fino all’ultimo, di alienazione dal suo corpo, la raccontano altri, per i quali è scritta in una lingua indecifrabile. Le tre parti in cui è diviso il romanzo presentano tre punti vista, ma mai quello della donna-albero, se non in brevi corsivi, di un’angoscia fredda e straniata, che riportano appunto i sogni, i risvegli, l’insonnia, un ricordo.
Nella prima parte l’io narrante, del tutto estraneo, ostile, è il marito, l’uomo che, cinque anni prima, ha accettato con disamore Yeong-hye come moglie passiva e insignificante, proprio in quanto passiva e insignificante, con la sua “aria timida e giallognola”. Che trova incomprensibile il rifiuto di mangiare carne e trova normale il silenzio della moglie: “in fin dei conti, non è questo che ci si aspetta tradizionalmente dalle donne, che siano modeste e riservate?”. Che non interviene quando il suocero schiaffeggia con brutalità la figlia e le forza tra i denti un boccone, mentre il fratello le tiene le braccia.
A intervallare lo sguardo distante del marito, i sogni di Yeong-hye. “Sogno un omicidio. Uccido qualcuno o vengo ammazzata … omicida o vittima, un’esperienza troppo nitida per non essere reale.” E, ancora più spaventoso, il sogno-ricordo: “Ho nove anni, è estate e fa un caldo soffocante. … Mio padre mi ha detto che non appenderà il cane a un albero sopra un fuoco per poi frustarlo; ha sentito dire che un cane costretto a correre fino alla morte dà una carne più tenera.”
Nella seconda parte la narrazione in terza persona presenta il punto di vista del marito della sorella, artista attratto e spaventato al tempo stesso dalla cognata. Il corpo che lo ossessiona in assenza, nel momento in cui lo contempla, per dipingerlo e farne un’opera d’arte vivente, è “un oggetto dal quale era stato eliminato ogni desiderio. … ciò a cui la cognata aveva rinunciato…era piuttosto la vista stessa che il suo corpo rappresentava.”
Ultimo, il percorso della sorella di Yeong-hye, dapprima affatto incapace, come tutti i familiari e i medici, di capire o anche di provare a interpretare la scelta vegetariana. “Sei come gli altri” è l’accusa che le rivolge, infatti, Yeong-hye, quando pure In-hye è rimasta l’unica a seguire il suo calvario. E quando In-hye dà la motivazione della sua insistenza perché si curi e si alimenti, “se faccio così, è perché ho paura che tu muoia!”, replica “Perché, è così terribile morire?”
La scelta iniziale che suona per tutti così scandalosa nasce da un sogno. O meglio, il sogno è solo lo scatto. L’origine lontana è nelle violenze subite, le cinghiate e i manrovesci del padre padrone prima, poi l’indifferenza di un marito che non concepisce altro che una moglie ciecamente obbediente.
Il rifiuto del mangiare carne è, almeno per noi occidentali, una scelta socialmente accettata.
Spogliarsi della propria carne diventa la risposta estrema.
Sarà solo In-hye che infine, attraverso la rarefazione del corpo della sorella, il suo desiderio tanto impalpabile quanto esiziale di sciogliersi nella pioggia, capirà, arrivando anche alla consapevolezza di sé.
Tra i sensi di colpa che la tormentano, per non averla protetta abbastanza fin da bambina come sorella maggiore, per essere stata vigliacca, inizia a insinuarsi un senso quasi di invidia per “quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi dalle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero.”
Passo dopo passo sul cammino di Yeong-hye verso l’inconsistenza e l’abbandono del corpo, davanti alla violenza che è l’alimentazione forzata, anche In-hye si fa strada un’unica certezza: “E’ il tuo corpo, puoi trattarlo come ti pare. L’unico territorio in cui sei libera di fare come preferisci”. Da lì si parte, o si arriva, alla ricerca di sé oltre il proprio corpo, contro il corpo, anche a prezzo della vita.
Han Kang, La vegetariana, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2016, pp. 177, € 18
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Bia Sarasini

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