La crudeltà è presente anche nei legami più intimi, come il rancore o il perdono. Il gruppo di lettura della Sil racconta di un incontro impossibile in La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati. La malattia e la regressione delle vite anziane, la doppia violenza nell’accudimento e nella necessità di essere accudite: un libro che ha scavato a fondo in ciascuna lettrice
di Rossella Caleca
La casa delle orfane bianche, che ha vinto il premio Campiello Opera prima, è un libro decisamente insolito per argomento, struttura e originalità della scrittura.
Tra i libri che abbiamo letto nel nostro Circolo delle Letturate, è senza dubbio uno di quelli che maggiormente ha suscitato pareri contrastanti; qualcuna di noi ha vissuto questo contrasto anche all’interno della propria lettura, apprezzando alcuni aspetti del testo e trovandone altri respingenti. Ma tutte abbiamo percepito e amato la potenza della scrittura, l’intuizione originale nel trattare un tema – il rapporto madre-figlia – che ci riguarda da vicino: perché tutte, se non madri, siamo state figlie: infatti, questo è uno dei libri che più ci ha fatto parlare, ciascuna, di sé. Così, in ogni intervento, ognuna ha infuso ricordi, evocato somiglianze e differenze rispetto alle relazioni con le proprie madri e all’esperienza della cura con le sue difficoltà e contraddizioni.
Nel libro, tre madri e tre figlie si confrontano nello spazio ristretto di una casa di paese, nel tempo definito di una Quaresima, fino alla Pasqua. Le figlie, tra loro amiche, hanno deciso di andare a vivere insieme alle rispettive madri anziane e bisognose di assistenza nella casa di una di loro, per condividere spese e incombenze del lavoro di cura, per avere più tempo libero per sé e anche nella speranza che darsi e ricevere reciprocamente sostegno possa aiutarle a ricostruire il legame d’affetto con le madri.
Quasi subito, però, si rendono conto che la convivenza amplifica i problemi anziché attenuarli, e la situazione affonda in un vortice di disordine, confusione e degrado, a cui non pone rimedio l’esperimento di “scambiarsi” le madri nell’accudimento per alleggerire la tensione emotiva: gradualmente si gonfiano e esplodono sedimentati rancori, sofferenze antiche, e la situazione si avvia al disastro quando arriva nella casa, presentandosi come l’attesa badante, una strana suora che si rivelerà essere una barbona a sua volta bisognosa di cure. Ma la sua presenza sarà il catalizzatore attraverso cui le figlie arriveranno a riconoscere compiutamente di essere orfane bianche, orfane emotive di madri viventi, cresciute in rapporti a ruoli invertiti; e di essersi bloccate in queste non-relazioni, non avendo potuto né riparare il passato né progettare il futuro. Sarà negli ultimi giorni, e nel precipitare degli eventi, che il passato, se non riparato, sarà ricostruito attraverso “confessioni”, manifestate, più che alle altre, ciascuna figlia a sé stessa.
Tutto si dipana attraverso un impianto teatrale (in due atti, con un intermezzo) che è stato apprezzato da molte, rispecchiando, come ha fatto notare Mariella De Santis, una scelta orientata a far venire fuori la fatica dei ruoli che ci accolliamo e che condizionano la nostra vita, attraversando i gesti quotidiani di cura di figlie tragicamente inefficienti e di madri di cui sembra sia andata perduta la voce; anche Maria Pia Lessi vede in Palpati una scrittrice che conosce la scena, non solo per la struttura in atti, ma per il modo di costruire lo spazio, la luce che cambia con gli stati d’animo; tanto da essersi sentita, leggendo, parte del coro che comprende senza giudicare, e da scoprire analogie, nei dialoghi corali, con quel coro che, nel teatro greco, dice l’indicibile.
Tutte abbiamo gustato la scrittura raffinata, fatta di graffi sapienti, che accoglie in un registro stilistico medio-alto contaminazioni gergali e dialettali, riuscendo ad alternare, a volte a fondere, toni diversi: una scrittura fluida, ricca di dialoghi dal ritmo serrato, che si distende verso la fine nel disvelamento di verità che l’autrice ha saputo tenere sospese in tracce sottili in gran parte del testo. Loredana Magazzeni ha apprezzato la grande ironia che vela e sdrammatizza temi profondi, Nadia Tarantini l’humor nero e un po’ surreale che permea i rapporti figlia/madre, che, nonostante le sofferenze inflitte dalle madri alle figlie, rappresenta una possibile distanza vitale, e il modo accurato in cui Palpati delinea le personalità delle tre amiche che vanno a convivere.
Per molte, tuttavia, si tratta di un testo disturbante: alcune, come Licia Ugo e Pina Mandolfo, hanno riportato l’impressione di una crudezza eccessiva nel linguaggio, nelle descrizioni e nelle metafore, anche se l’eccesso rispecchia la realtà del ribrezzo e della sofferenza presenti nella malattia; Licia vede tre anime nel testo, una minuziosa, descrittiva e anche lirica, un’altra super splatter nell’espressione del degrado, e una che attraversa con profondità tematiche importanti che emergono compiutamente solo nell’ultima parte del libro. Per Antonella Bontae, nel romanzo il tema del rapporto madre-figlia è esplorato con profondità, intrecciando cura e rancore; le protagoniste sono intrappolate nel dovere, ma anche nel rimpianto di un’infanzia priva di amore; ne emerge una tragicommedia intensa, ma a tratti opprimente, che non le ha suscitato coinvolgimento emotivo. Mariella ci ha fatto notare come la crudeltà sia accolta dalla scrittura dell’autrice quale presenza che non si può negare anche nelle relazioni più intime, una presenza che, in questa storia, cerca, e non trova, remissione.
Attraversa tutto il libro il potere della malattia e della regressione delle vite anziane, la doppia violenza nell’accudimento e nella necessità di essere accudite: necessità che diventa obbligo e prigione. In questo si trasforma la casa-rifugio, protagonista al pari delle figure umane, immaginata dalle figlie come soluzione di libertà e invece ben presto invasa da disordine e marciume. Anche per Rita Lopez si tratta di un testo disturbante, per l’amarezza che traspare dietro le cicatrici delle tre donne che decidono di dispensare quelle cure che si sarebbero volute ricevere e che invece non si sono mai avute, e per il loro essere sempre così maldestre, anche quando si prendono cura di animali o piante; anche per Rita il richiamo al vissuto personale è potente, evocando il disagio e l’estraneità rispetto a un ruolo di cura sacrificale, ma anche il rifiuto della possibilità che altri si sacrifichino per noi.
Rita è stata particolarmente colpita da alcune battute di dialogo, che per me, ancor più che colpirmi, sono state devastanti, perché esprimono come meglio non si potrebbe il mio sentire attuale all’interno del difficile rapporto con mia madre, di cui mi sto prendendo cura:
«Ma tu cosa vorresti da tua madre?»
Germana posa il bicchiere.
«Essere sua figlia, per una volta. Prima che muoia.» Rimane assorta. Sorride. «E tu dalla tua?»
«Vorrei che fosse madre, per una volta. Prima che muoio.»
E altre parole mi hanno lacerata come una lama:
«Ci si può offrire per chi ti ha amato, cresciuto – ha detto sì per te: è una restituzione.
Sacrificarsi per chi ti è stato nemico si chiama santità. Tutto il resto è una prigione».
Così questo libro mi/ci ha rivelato e ridestato emozioni e ha fatto esplodere interrogativi: come ha notato Gisella, ci mette di fronte alla vita, che contraddice e fa cadere le ideologie, e alla realtà di un rapporto figlia-madre spesso diverso da come vorremmo che fosse, in cui si svela il desiderio/diritto di fuggire anche davanti a una madre che ha bisogno di cure.
Io penso che La case delle orfane bianche attraversi e faccia precipitare chi legge nella dimensione traslucida del perturbante, das Unheimlich , definito da Freud come «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare»; vi si ritrova quella variante definita empatica del perturbante nella letteratura femminile da Monica Farnetti, perchè ingloba all’interno di relazioni ambivalenti, conflittuali e trapassate dal senso di colpa, attaccamento, compassione e segni di un affetto antico e irriducibile. E si tratta di un perturbante che ci agita attraverso simboli, rendendo sottile il confine tra fantasia e realtà, dentro alla più familiare, più antica e allo stesso tempo più controversa delle relazioni: la relazione primaria madre-figlia. modello, per le figlie, di tutte le altre a venire.
Il libro attraversa una foresta di simboli, incarnati in animali, piante, oggetti, dalla damigiana/dame Jeanne, madre divertente e grottesca, al cane/cagna rovinosa e maldestra, alla papera putrescente nella insondabile oscurità della cantina, alla centralità degli odori. Questi, in particolare, potentemente simbolici: odori di malattia, di incontinenza mascherata, odori delle piaghe, odori umani ma anche odori della casa che sembrano emanare dalle mura, a cui poi si aggiunge tanfo di marciume; sentori pesanti che nessuna pulizia accurata vale a cancellare, che riflettono anche le reali condizioni di luoghi di cura, ma vanno oltre, dicono di rancori accumulati e inespressi, che fermentano al chiuso. Simbolico, come alcune di noi hanno sottolineato, il personaggio e il ruolo di suor Modestina, da cui le figlie si aspettavano aiuto e che invece si ritrovano a curare con dedizione forsennata e con successo, un’imbrogliona che – forse – rappresenta una madre più autentica di quelle vere. Ma anche, fa notare Nadia, il deus ex Machina (la Dea badante) tanto attesa per risolvere “tutti i problemi” che invece si rivela un aggravio per le tre amiche, ma che darà loro la chiave per accettare la realtà che avrebbero voluto cambiare attraverso la convivenza.
Infine, la storia, nonostante le confessioni che rivelano le radici dei rapporti disfunzionali, minati fin dall’inizio da mali irrisolti, forse irrisolvibili, non ha un vero scioglimento; per me, è la storia di un incontro – di tre incontri – che forse poteva avvenire ma non è avvenuto; del perdono, si sé stesse e dell’altra, che ciascuna madre, ciascuna figlia, poteva donarsi ma non è stato donato. Perché il perdono è nell’incontro.
“Anche il male è una relazione, come il bene; e nella relazione che lo riconosce, lo nomina, lo ricorda, può esserci la sua cancellazione” si dice nel libro.
“Chiedimi perdono, mamma, dice l’orfana bianca. Ti siederai accanto a me, nel giardino. Io ti farò posto e divideremo, ancora una volta, l’acqua.”
Ma la madre non risponde, e non dice a sua volta: chiedimi perdono, figlia.
Anche questo, per me, rispecchia una ferita aperta. Forse è accettando l’impossibilità dell’incontro, del perdono, che si potrà abitare la ferita.
Rossella Caleca
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