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Il piccolo Michele trova un manoscritto a Li Pacci, una vecchia casa abbandonata. Da qui si dipana la vicenda che Emanuela Sica presenta con dovizia di artifizi narrativi – in appendice – e con una ricerca da fonti storiche nel suo libro “Memorie di una Janara”.

Il manoscritto ritrovato è il Diario di una Janara. Personaggio sospeso tra realtà ed immaginario, la Janara, si narra attraverso saperi oggi dimenticati ma capaci di evocare fibrillazioni, se solo nominate. È necessario proteggersi prima di iniziare a leggere le pagine del Diario, è necessario farlo invocando gli spiriti della terra: Ginevra, sorella di Michele, compie un rituale di protezione… inizia la narrazione, siamo a Guardialombarda, nel 1620.

I versi aprono il passo ad un’antica parola di origini mai divelte. Siamo in terre grasse di verzure e di presenze sacre. Il primo riconoscimento è all’Irpinia.

La storia della sua infelicità/ le sonnecchiava negli occhi/ e se nessuno sapeva leggerla/ era perché il sorriso richiamava/ le lacrime sul davanzale delle ciglia/ un attimo prima di esondare./ Era coraggiosa finanche nei respiri./ Li centellinava con parsimonia/ mentre nel centro della tempesta/ teneva al riparo le margherite/ per non arrendersi all’inverno/./ Non portava in dote maledizioni/ ma per due decadi di luglio/ visse spinta sul ciglione/ di parole spinose/:/ “Sortilegio l’avvolge, è una janara”/ poi si fece aurora e cadde/ come brìna sui prati./ Chi l’avrebbe curata/ nei ricordi? (pag. 25)

È una vicenda sospesa tra paesaggi della memoria e paesaggi terragni di radici e sottoboschi. Un procedere che odora di muschi e umidi anfratti. Compaiono le streghe, antiche abitatrici di visioni e di universi di confine. Un intreccio di vicende le cui fila sono lasciate nelle mani di Michele e Ginevra attori esterni di una storia fatta di credenze, usanze venute fuori dal misterioso manoscritto, fogli roventi come un innominabile segreto.

Dal manoscritto prendono corpo forze ed energie di ricomposizione. C’è qualcosa d’arcano che non vuole morire: sono saperi che hanno trattenuto il nocciolo di antiche sapienze. C’è un andare tra boschi ascoltando l’ancestrale del vento e il potere delle erbe.

Prendono forma le figure che hanno scritto l’essenza di questo fenomeno accaduto ai margini della storia: raccoglitrici, guaritrici, levatrici, herbarie, coloro che – intorno all’esistenza – sapevano elaborare quella tessitura capace di custodire e tramandare il sacro di ogni ciclo di vita.

Ciò che si palesa tra le pagine del testo, è una vicenda che dice la propria marginalità rispetto al sapere posto nell’alveo di discipline quali la teologia, la filosofia. Sono state donne capaci di tessere fili tra ciò che è realtà e ciò che sostiene la realtà: quel sacro capace di vedere connessione tra terra e cosmo, tra vita-viventi e universo, di tenere aperta l’antica crepa all’interno della quale il dialogo libero con la natura ha generato riti e modi dell’essere a partire da ascolto di ritmi-cicli di armonie universali. Dialogo con la natura, ancora, vissuto attraverso la cura del vivente e forme di accesso non mediato alle radici dell’essere.

È la logica di un femminile che non ha reciso fili dialogici con la natura. È l’eresia dello stare nei pressi della natura.  

Le streghe, come le mistiche, sono donne appartenute a se stesse. Donne che hanno vissuto l’intimo di ciò che le ha tenute nelle prossimità di forze primordiali in grado di governare l’equilibrio del mondo.

Le stagioni come madri sapienti/ ad accudire il riposo dei ghiri/ il risveglio delle primule./ Il vento a depredare il fogliame./ Se l’ascia ne fece chiese/ altre divennero villaggi/ altre culle o bare/ (pag. 34)

È un discorrere con gli elementi naturali sentendoli come corpi vivi, generanti.

È una questione d’incastri/ certe anime si ritrovano/ nel punto esatto in cui la mancanza/ ha lasciato un vuoto/ Il resto della gente non capirà mai/ perché a distanza di anni/ ancora versiamo lacrime/ su rami secchi/ orfani di fiorescenze/ Devoti alla nostra elegia d’utopia/ la respiriamo a vicenda/ in una staffetta di tristezze. (pag. 218)

Nel testo ha uno spazio a sé l’apertura ragionata ad approfondimenti, una bella appendice sull’origine etimologica del termine Janare e il loro comparire in rituali, credenze, conoscenze erboristiche all’interno – con le dovute differenze – della cultura italiana senza confini di meridiani e paralleli. In questa sezione, inoltre, vi è una scorsa sul ruolo dei tribunali ecclesiastici, sulle credenze e sui passaggi che, dalla figura archetipica delle madre-guardiana-protettrice, passa a quella della strega. Un intero territorio liminare all’interno del quale palpita un sospetto:

sospetto che tutto debba essere rispettato perché tutto è vivo. Sospetto pericoloso, non trovi? Che la natura sia altro: non solo materia, ma pure spirito. Che tutto possa essere messo in connessioneE al mezzo benessere. Sacralità. Vita. (pag.261)

 

Emanuela Sica, Memorie di una Janara, Delta3 Edizioni 2024

 

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Anna Rita Merico

Anna Rita Merico è nata a Nola (Na), in Via L. Tansillo tra serici e lavico piperno. Vive, attualmente, in Salento. Attività di ricercatrice (filosofia della differenza), attività di docenza, formatrice per sperimentazioni sulla didattica della differenza con riferimento, soprattutto, al pensiero di Luce Irigaray. Formatrice sul tema dei saperi di genere in corsi di formazione politica. Pubblicazioni in collettanee con I.R.R.E. Puglia, Provveditorato Lecce, “Alle origini del successo”, Pensa Editore. Formazione politica presso Centri documentazione. Sillogi: “Era un raggio…entrò da Est”, Ed. Musicaos, 2020; “Fenomenologia del silenzio. Poesie dal 2004 al 2021”. Ed. Musicaos 2022; “Se tolgo il nodo” Ed. Musicaos, 2024 Presente in riviste online e cartacee. Autrice di un saggio su Carla Lonzi edito in Gradiva n. 65

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