Testimonianze al tempo del virus/1
Se arrivassero ora, gli zombi saremmo noi. I rifugiati di guerre lontane non vedrebbero i video e le foto, di noi splendide/i, ceduti a uso del mercato e dei governi. Ma esseri inermi che si devono fare portare la spesa a casa da un altro essere umano che rischia al posto nostro.
di Anna Maria Civico
Quando in paese moriva qualcuno tutti e tutte facevano silenzio. Si passava parola. Si sentivano le campane. Si sentiva avanzare il silenzio. Si usavano gli oggetti con moderazione, posandoli lievemente. Persino il fabbro lasciava cadere il martello del suo solo peso, senza aggiungere quello del braccio. Era come provare a morire tutte e tutti. Avvicinarsi a ciò che attraversava la persona morta. Ci si aspettava, forse, che ci dicesse qualcosa di quel passaggio. Si aspettava per vedere se era vero. Se sarebbe tornata/o indietro. Si entrava in un’attesa. Anche chi era solo un conoscente faceva suo quel silenzio. Tutti verso lo stesso centro. Il tempo lo si lasciava andare. Se qualcosa doveva arrivare non era da fuori. Era dentro e non erano pensieri, respiro, battito del cuore. Eppure era quello che restava: battito del cuore, una mente arresa e sgomenta, le onde del respiro.
Si facevano solo le cose che si dovevano fare. Raccogliere, preparare il cibo, sistemare le case, accudire bambine e bambini. Accudire nonne e nonni. Accudire gli animali domestici, orti e campi. Pascolare il gregge. Pescare. Filare, tessere. Aggiustare tavoli e sedie. Creare ceste. Mattoni e pentole di terracotta o di latta. Spostare cose. Tutto con moderazione e attenzione verso lo stesso centro di attrazione. Che i suoni e i movimenti non fossero troppo forti, soprattutto in prossimità della casa del morto o della morta. Le feste erano sospese. Persino alle bambine e ai bambini si dicevano cose. Alcune porte rimanevano spalancate. I vicini aiutavano la famiglia in cose pratiche e domestiche. I passi erano misurati.
Tutto questo è così cambiato, per non dire, rimosso. Il morto è solo questione della famiglia o della persona più vicina. Tanto viene assorbito dalle questioni amministrative. Tutto intorno ci domanda di dimenticare e tornare al più presto alla socialità. Alla normalità. Il silenzio, creatosi intorno e dentro di noi, svanisce. Le porte aperte, dal dolore, dentro di noi, vengono richiuse. Le sorprese che avremmo potuto trovare, in quelle stanze sconosciute, non abbiamo avuto il tempo di avvicinare. Quando in paese moriva qualcuno si faceva la veglia, che poteva durare alcuni giorni. Si potevano aprire le porte, andare di stanza in stanza. Ci si entrava da soli/e. Tutto il paese sapeva. Non tutti potevano entrare nelle stanze sconosciute. Qualcuno si affacciava alla soglia. Qualcun’altra/o attraversava stanze come un reame. Come un bosco. Come infinite caverne. C’era tecnica per entrare e per ritornare. Chi non sapeva la tecnica non ostacolava il viaggio delle altre, degli altri. Partecipava con il silenzio. Chi utilizzava la tecnica sapeva canti, sapeva parole. O le sapeva creare. Le sapeva dire. Articolare con ritmo e melopea. Entrando in un processo ricorsivo delle strofe e del tempo. Delle vocali e del respiro. Fare canto. Fare movimento, lento o veloce. Ma preciso. Fare un segno, che dava senso nuovo al gesto, preso dalla quotidianità.
E’ sorprendente come nella cultura del paese, dove tutto era basato sull’oralità, si sapessero certe cose. Ora, che anche chi abita in paese sembra abiti in una grande città, si è perso il senso, profondo e misterioso, di una comunità in lutto. Ora, mi fermo, come tutte e tutti noi in queste settimane, giorni, ore, attimi. Non è facile fermarsi. Si perde la continuità con il camminare. Si perde il lavoro. Quel lavorio artistico, in particolare, che nonostante la forma di impresa che deve assumere e nonostante il digitale, sembra avere familiarità con le pratiche per accedere alle stanze aperte durante la veglia. Le tecniche che ci permettono di non smarrirci nei meandri. Di essere ancorati/e al presente e alla terra. Non è facile fermarsi. Neanche per noi che sappiamo le necessità fisiche della corporeità. Gli altri nutrimenti di cui ha bisogno il corpo. Il movimento, lo spazio. Tanto spazio. Ma si può fare. Lo so per certo. Lo so per un senso pratico acquisito. Che ci connette oltre, e ben prima, il digitale.
Chi si ammala. Chi perde la vita. Molte persone lavorano in turni pazzeschi e fanno da filtro tra i malati e le cittadine e i cittadini. Quali risposte dai Paesi confinanti? Tante sono le notizie cattive tutte insieme. E noi in casa. Cercando di fare la nostra parte nel tentativo di rallentare il contagio del virus. Ci affidiamo alla scienza e al governo. Non c’è tempo per strategie più ponderate e condivise. Il virus si muove veloce. Stiamo a casa, qualcuno fatica a prendere sul serio il divieto di uscire. Poiché è vietata una libertà fondativa, che è quella di camminare. Non tutti/e lo vediamo.
Stiamo vivendo una situazione che mina le fondamenta della nostra vita, e lo status sociale non è più un confine di protezione. La nostra idea di confine, come certezza protezionista, crolla. E nello stesso tempo è proprio nell’auto-confinamento che, speriamo, di controllare la malattia. Un confine estremo che siamo chiamate/i ad esercitare. Una condizione che soltanto durante l’ultima guerra, i nostri parenti, hanno sperimentato. Difficile, ora, da praticare. Così, da un giorno all’altro.
Il nostro riferimento (economico, culturale, sociale) non è più il paese e i vicini di casa. Con la rete fra noi, qual è il nostro paese? I nostri legami sono diffusi. Da ognuno a più altrove. Anziché qui ed ora. Modi di relazionarsi che già da tempo non hanno più bisogno della presenza. Dove merci, affetti e luoghi sono contrassegnati e cambiano carattere, confondendosi e assumendone uno quello dell’altro. Un luogo o un affetto che sembra una merce. Una merce che sembra un affetto o un luogo. Cambia il senso del nostro legame con la vita. Schemi mentali si rimodellano sulla base della perdita del senso del qui e ora e dell’essere presenti. Ce ne allontaniamo, chi più velocemente di altri/e. Chi ha oggi pochi anni di vita, forse, non saprà mai di questa particolare, pregnante, presenza a se stesse/i, in cui si fonda un’autonomia del pensiero.
Ci pensiamo, continuamente, altrove. Non si vuole smettere di simulare se stesse/i come “essere notizia”, “essere immagine”, “essere video”. “Essere parola tranquillizzante” mentre tanto di ciò che è reale crolla. Non lo vogliamo vedere. O, forse, non possiamo più. Non vogliamo sentire il dolore. Ce ne vogliamo alleggerire. Staccarci dalla terra. Allontanarci il più possibile dalla soglia, aperta, su quelle porte di silenzio. Evadere da noi stesse/i. Continuare a produrre immagini di noi, per essere connesse/i. Per paura che, se spegniamo la connessione on-line, smettiamo di esistere. Esorcizziamo le difficoltà in cui ci troviamo. Le allontaniamo da noi con una registrazione o foto estraneamente sorridenti. Come fosse, tutto, un eterno spettacolo. Vedo trasformarsi, nel profondo, la considerazione per la percezione sensoriale, e delle conoscenze che se ne possono trarre. A beneficio anche della propria autonomia di movimento. Che riguardano l’ambiente in cui siamo immerse/i, e, di riflesso, noi stesse/e, la nostra relazione con le/gli altre/i. Questa è una perdita. Un lutto. Per me, lo è. Ogni tanto me ne ricordo. Esperienze della vita me lo rievocano.
In questo “paesaggio” virtuale mi sembra che la morte trionfi, comunque. L’immagine che mi torna in mente, dagli affreschi e non dalla rete, è quella della morte che danza con la sua falce alzata sugli umani. Ed è soddisfatta.
Oggi la nostra clausura, immediata, non sarebbe stata possibile senza il potere di comunicazione degli individui in rapporto di uno/pochi, verso tutti. E se un domani ci dicessero che dovremo lavorare da casa, sempre, per il nostro bene? E se un domani ci dicessero che potremo utilizzare la rete solo un’ora alla settimana, per il nostro bene? Aspetteremo quell’ora per sentirci connesse/i?
Non beviamo forse alla stessa acqua, non respiriamo la stessa aria, non siamo forse sotto lo stesso cielo? Ora, come mai nella nostra vita contemporanea, questa tregua da spazio al canto e alla presenza degli uccelli. Anche qui in città, tra i palazzi, dove, dal mio balcone, ho contato 18 alberi.
Quando in paese moriva qualcuno, tutte e tutti facevano silenzio. Chi doveva lavorare usava gli oggetti con levità. Si faceva la veglia. Era un modo di essere attente/i, insieme, poiché il mistero della morte ci era vicino. Mi affiora come una percezione. Quando non sono distratta dal mio “diritto”, beffardo, a sorridere. Una sensazione di lutto che mi fa sentire, più che mai, connessa alla vita. Mi ricordo che siamo sulla terra. Che gli elementi in cui siamo immerse/i non sono neutri. Scorrono secondo un proprio orientamento e leggi. Ci sono imprevisti, che noi chiamiamo errori. Non amiamo gli errori. Ne abbiamo paura. In arte approfittiamo degli errori per i processi creativi. E la natura non esiste per rassicurare il genere umano. Gli abitanti del paese lo sapevano, ne avevano tratto consapevolezze e conoscenze per andare avanti.
In questa incertezza di potere, anche di quello individuale, sospendiamo la nostra impotenza con atti consolatori sulla rete. Esacerbati dalla televisione. Da programmi di ogni sorta che da un lato incitano al rispetto delle regole, e ci informano del disastro economico e dall’altro “somministra” rassicuranti offerte di animazione. Saremo capaci di abbracciarci quando usciremo di casa, o avremo bisogno di qualcuno che ci autorizzi a farlo? E se ci dividessero tra esseri umani indispensabili al lavoro fuori, da altri che devono continuare a stare a casa (a consumare/produrre), per il nostro bene? Siamo veramente incapaci di fermarci e di ascoltare il silenzio? Ascoltarci?
Avverto uno stordimento che non mi fa sentire la sofferenza reale se non simulandola a me stessa. Qualcuno muore di un nuovo male, tantissimi. Altri e altre, muoiono del male della guerra, sopraffatti, vicino ai nostri confini. Per provare ad esserci, forse, c’è bisogno di altro. Invece di comunicare il nostro protagonismo nell’ebbrezza di questo rintronamento. Allontanandoci con frenesia dal dolore, che è nostro. Si può chiamare rimozione. Paura. Si può chiamare ipocrisia. Come dice una mia amica: “una ipocrisia a cui siamo abituate/i e che non riconosciamo.”
In questa, altra, catastrofe della perdita di valore della percezione sensoriale (già iniziata da tempo), mi domando cosa vedrebbe la popolazione dei rifugiati, nell’entrare nelle nostre città. Noi intossicati di troppo cibo, assordati di connessione di rete. Se arrivassero ora troverebbero città deserte. Noi più inermi di loro che fuggono da contesti dove oltre ai virus e alle malattie ci sono tutte le altre atrocità che portano le guerre: stupri, torture, fame, saccheggi, bombardamenti. Se arrivassero ora, gli zombi saremmo noi. Non vedrebbero i video e le foto, di noi splendide/i, cedute ad uso del mercato e dei governi. Ma esseri inermi che si devono fare portare la spesa a casa da un altro essere umano che rischia al posto nostro.
Quando in paese qualcuno moriva, si faceva la veglia. I canti, le parole, i passi, tutto era sussurrato e lieve. Si poteva tenere il lutto per mesi. Era una forma di rispetto. E mi piace pensare, che fosse anche una forma di conoscenza.
Cielo e alberi sopra un cimitero ebraico a Berlino, d’inverno (Foto di Anna Maria Civico)
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