Non è mai stata estranea alla storia, la scrittura di Edna OˈBrien: in molti dei suoi romanzi agisce come lievito endogeno una decisa denuncia dell’ipocrisia, del bigottismo, del violento sessismo della società irlandese, e se in uno splendido isolamento la privatissima storia di una donna vecchia e maltrattata dalla vita s’intreccia a quella di un membro dell’Ira in fuga, in Lungo il fiume la scrittrice si è ispirata al cosiddetto X Case, ovvero a un caso di cronaca (l’aborto negato dalla Corte Costituzionale ad una quattordicenne vittima di stupro) che nel 1992 sconvolse la società irlandese e non solo.
Ma è in questo suo ultimo libro, Tante piccole sedie rosse che la vecchia – ma assolutamente non doma – scrittrice affronta la sfida più difficile. La sfida di mettere in scena non un criminale qualsiasi, ma uno di quelli che, a somiglianza dei criminali nazisti, hanno lasciato un sigillo di lutto e di sangue nella Storia, e di renderlo protagonista di una storia che non è solo di lutto e di sangue. Impossibile, si potrebbe pensare: ma è quanto accade in questo romanzo che prende il titolo da quelle piccole sedie che, messe in fila il 6 aprile 2012 per commemorare il ventesimo anniversario dell’inizio dell’assedio di Sarajevo, dovevano ricordare i bambini uccisi (643 su un totale di 11541 morti).
Siamo a Cloonoila, uno dei tanti villaggi costieri d’Irlanda: pochi abitanti, un pub che apre le sue luci nella nebbia, una natura di intatta bellezza e un forestiero che arriva, come in una di quelle favole perturbanti, nel bel mezzo di una notte d’inverno e dice di chiamarsi Vlad, di arrivare da un lontano paese dei Balcani e di essere un guaritore. Una gran massa di capelli neri, uno sguardo magnetico, una capacità di sedurre con le parole: quando la bella e inquieta Fidelma McBride, tristemente coniugata con un uomo tanto più vecchio di lei e ormai privo di slancio vitale, s’imbatte in lui, sappiamo già che non avrà scampo. Ma questo è solo il primo atto di una storia lunga e tortuosa che si dipana, attraverso molte voci narranti, in scenari molteplici e spesso stridenti: la camera d’albergo soffusa di morbide luci dove Fidelma, desiderosa di maternità, concepirà un figlio con l’affascinante straniero, la natura misteriosa e mutevole dei boschi e dei corsi d’acqua, ma anche la topaia in cui Fidelma subisce la violenza più atroce e che richiama per contiguità i tanti luoghi del martirio di Sarajevo, quei luoghi di Londra dove Fidelma, in fuga da se stessa, conosce altre storie di dolore e disperazione, l’aula di tribunale dove Vlad – che tanto ricorda Radovan Karadžić, condannato a quarant’anni di reclusione per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia – non mostra la minima ombra di turbamento davanti alle madri di Srebrenica, il parlatorio del carcere dove avviene l’ultimo allucinato incontro tra i protagonisti.
Una storia di sangue e lutto, come si diceva, eppure anche attaccata irriducibilmente alla vita. Quel desiderio di maternità nutrito da Fidelma è come un filo ad alta tensione che percorre l’intero ordito, un filo che sembra trarre alimento da quella natura con cui Fidelma, che sia gioiosa o malinconica, turbata o disperata, è sempre in profonda sintonia – emblematico l’episodio del pettirosso, unico testimone di tanti suoi segreti-, e trova infine, dopo tante vicende buie, un suo possibile approdo nell’ascolto degli altri, nel farsi madre di tutti quei migranti che come “embrioni sperduti” – e mai metafora è stata così significativa – si riversano, in finale di romanzo, nella vita della protagonista.
Edna OˈBrien, Tante piccole sedie rosse, trad. di Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2017, pp. 292, €18
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Maria Vittoria Vittori
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