“Lo sguardo dell’isola, dell’isolano e dell’isolana è uno sguardo allenato a parlare di ciò che non si vede, ma è talmente presente da condizionare la vita”: un dialogo tra la ricercatrice Alice Parrinello e la scrittrice Nadia Terranova, sulla Sicilia, il fantasma e il femminismo.
Di Alice Parrinello
C’è una tradizione letteraria siciliana legata al tema dei fantasmi in generale? E in particolare femminile? Penso, per esempio, a Emma Dante o a Marietta Salvo con Vascello Fantasma.
Sì, certo. Ricorderei anche Giovanni Verga, la novella “Le storie del castello di Trezza”, anomala per lui che è conosciuto come lo scrittore del verismo, che a un certo punto sente invece il bisogno di raccontare una storia di fantasmi. Questo perché, secondo me, in Sicilia il dialogo con l’invisibile, con ciò che è morto ma non vuole morire, continua a infestare il presente. Se pensiamo a “Il Gattopardo”, “I Vicerè”, sicuramente ritroviamo l’ossessione del passato, delle tracce invisibili ma persistenti che schiacciano l’uomo e gli impediscono di andare avanti. Questo fa sì che lo sguardo dell’isola, dell’isolano e dell’isolana sia uno sguardo allenato, secondo me, a parlare di ciò che non si vede, ma è talmente presente da condizionare la vita ed è un po’ il tema di Addio fantasmi.
Sicuramente Emma Dante racconta di fantasmi, anche nell’ultimo film [Le sorelle Macaluso], in un modo che ho sentito molto spesso usato dalle donne di quest’isola: il sentire il peso di famiglie, di pezzi di città, in cui il tempo viene fermato. Non a caso anche lei sceglie la casa come luogo di congelamento del tempo, che è una scelta che ho fatto anch’io in “Addio fantasmi”. In genere io racconto molto le case, anche in “Trema la notte”, perché in tutto il Meridione, ma in Sicilia in particolare, siamo abituati a strutturarci, a considerarci in funzione delle case. Per quello che riguarda il Vascello Fantasma con Marietta Salvo, io sento che lei ha fatto un lavoro proprio sulla città di sabbia, sulla città sommersa, sulla città che non c’è più, ma che continuamente viene evocata anche in maniera medianica, attraverso le parole e i versi. Credo che le donne, più degli uomini, abbiano creato questo genere di evocazione dell’invisibile e quindi anche dello spettrale e del fantasmatico.
Parlando di Trema la notte può il terremoto stesso essere considerato uno spettro?
Il terremoto è senz’altro uno spettro e ce lo dice il fatto che non è così spesso narrato, bensì evocato: anche noi lo stiamo chiamando “il terremoto.” Ce n’è uno solo nella vita. Non contano tutti i terremoti successivi. Quando scrivevo “Trema la notte”, avevo nominato il file ‘1908’. Se noi messinesi sentiamo: 1908 non pensiamo a nient’altro. Quando poi ho studiato per trovare la base storica di Trema la notte, ho scoperto che in realtà di narrazioni vere e proprie ce n’erano ben poche. C’è ovviamente tanto materiale, c’è Giorgio Boatti, ci sono “La catastrofe patriottica” di John Dickie e altri libri di storici più o meno contemporanei, ma a un certo punto si è smesso di narrare il terremoto e lo si è soltanto evocato. Proprio come si fa con gli spettri.
Rimanendo sempre su Trema la notte, come mai tutti i capitoli iniziano con una carta dei tarocchi?
Sono un’appassionata, mi piacciono. Soprattutto credo che, a proposito degli spettri, dell’invisibile, alla fine i tarocchi rappresentano una mappatura di quello che non è visibile, ovvero delle narrazioni possibili del presente e del futuro. Però la carta dei tarocchi ci racconta una storia attraverso una figura, ma anche la tua storia o la storia della persona con cui stai giocando. A me piace chiamarlo gioco, perché sono questo, sono un gioco, magari per qualcuno sacro. Più o meno sacro e sacrale, però sicuramente ludico, è anche il gioco della narrazione. Tu vedi qualcosa di concreto, lo tieni in mano, però poi racconti qualcosa che non c’è più o non c’è ancora.
Il legame col passato può anche essere visto come una conseguenza del trauma? In Addio fantasmi continuano a rivedere la figura del padre, anche se è assente.
Nelle famiglie tutte, però sicuramente nelle famiglie siciliane, si reiterano i riti fino allo sfinimento. Basti pensare al rito del pranzo della domenica che è una cosa molto del Sud: durante il pranzo in famiglia, in fondo, per anni succede sempre la stessa cosa. Le persone crescono, diventano diverse, ma ogni giorno, ogni settimana, la domenica ci si siede a pranzo e si recita il ruolo di figlia, nipote, sorella. Reciti quel ruolo, in quel modo, anche se la tua vita sta cambiando o è già completamente diversa, però poi si ri-azzera. Questa ciclicità della reiterazione è qualcosa che da un lato è rassicurante, dall’altro è spaventosa, schiacciante.
Alla fine di Trema la notte noi vediamo una disgregazione della famiglia tradizionale e una sorellanza. Le famiglie tradizionali esistono o questo tipo di famiglia più estesa è la famiglia tradizionale effettiva?
Non c’è nessuna famiglia in cui il modello di padre, madre, figli, uniti per sempre fino alla morte sia rispettato. Non c’è mai stata. Anche quando noi parliamo di famiglia tradizionale. Per cui quando io scrivo di famiglie elettive nella seconda parte del romanzo, non ho faticato a trovare anche in passato dei modelli. Certo, non forse così aperti come possono essere le famiglie che si formano dopo un cataclisma, quando tutto è azzerato, quando in qualche modo c’è la possibilità di ricominciare e di non tenere più conto dei legami di sangue. Le famiglie sono sempre state allargate. Le donne si sono sempre prese cura insieme dei figli, soprattutto nei periodi di guerra. Insomma, in quasi tutte le famiglie, c’è qualcuno che i bambini hanno chiamato zio o cugino, anche se non era un parente di sangue. Ci sono storie come quella raccontata da “L’Arminuta”, per esempio. È così, ma non vogliamo vederlo, non vogliamo riconoscerlo.
Partendo da Gli anni al contrario, andando fino a Trema la notte, si nota un’idea di femminismo più esplicita.
Ci sono due considerazioni da fare. La prima sui personaggi: Aurora ne “Gli anni al contrario” non è femminista, non le interessa o comunque le interessa solo in parte. Anche Ida è un personaggio a cui il femminismo dice poco.
Le donne del 1908 mi hanno posto dei problemi diversi, perché lì il sistema patriarcale è più evidente. Non voglio dire più forte, perché secondo me il fatto che oggi sia più invisibile lo rende più pervasivo e insidioso. Però diciamo che quel sistema patriarcale così evidente, legato all’impossibilità di frequentare l’università oppure di avere un padre che decide tutto, negli ultimi 110 anni si è trasformato. C’è ancora molto da lavorare, però comunque non è più la norma.
Quelle donne mi ponevano dei problemi diversi in termini di femminismo, perché materialmente non avrebbero potuto fare delle scelte. Allo stesso tempo, ho scoperto molta libertà in quel periodo, penso ad esempio alle viaggiatrici, alle scienziate. Anche il fatto che Messina fosse così aperta e cosmopolita e ospitasse anche delle figure come Jeanne Villepreux, la biologa marina a cui un po’ ho dedicato la figura di Jutta. Mi sorprende constatare anche quanta libertà ci potesse essere in un periodo che noi possiamo immaginare come oppressivo per molte donne. Però, c’era anche un forte senso di conservatorismo e c’erano delle leggi limitanti: ad esempio, non si poteva divorziare, le donne erano marginalizzate dalla società se non erano sposate, se non avevano un cognome.
Poi sicuramente è successo qualcosa anche a Nadia Terranova, scrittrice. Io sinceramente sono diventata femminista, non perché non lo fossi a vent’anni. Il secondo sesso di Simone de Beauvoir ce l’ho ancora qui vicino al letto, l’ho letto all’università quando facevo filosofia. Non sentivo dei problemi, essendo nata e cresciuta in una famiglia molto libera, avendo potuto fare quello che volevo, non li sentivo sulla mia pelle. Ho cominciato a interessarmi di misoginia quando ho cominciato a capire che a me mancavano delle lenti per capire delle cose che mi succedevano, per esempio sul lavoro, nei modi di sminuirmi, di marginalizzarmi. Tutto quello che fa il soffitto di cristallo.
Poi ho cominciato a vedere che il mondo invece era molto diverso dalla mia famiglia. Negli ultimi vent’anni e soprattutto negli ultimi dieci, vedevo anche il maschilismo dei premi letterari, del mondo editoriale, la fatica del riconoscimento dei romanzi delle donne, dell’arte delle donne, anche l’oblio delle scrittrici. Quindi, considerando il canone e vedendo che comprendeva solo scrittori, ho iniziato a dare peso alle questioni di genere, a non darle per scontate.









Alice Parrinello

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