«Se sparisce la pratica delle relazioni tra donne sparisce anche una cultura che aveva la capacità di mettere in discussione il già dato, che sapeva pensare l’impensato», diceva Aida Ribero, una delle fondatrici del Centro Studi e Pensiero Femminile di Torino, della Casa delle donne, del Centro antiviolenza. Un libro raccoglie i suoi scritti e le parole con cui la ricordano le amiche
Di Elena Pineschi
Non ho mai visto il salotto della casa di Lungo Po Antonelli, a Torino, né il «grande tavolo di cristallo» del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile. Mobili antichi «dai gusti raffinati», una cortina di fumo e la volontà di «segnalare concretamente e simbolicamente» un luogo come quello.
Soprattutto, non ho sentito quella voce interrogativa: non ho conosciuto Aida Ribero.
Eppure leggendo Con forza e intelligenza (Il Poligrafo, 2024) pare di esserci state, di poter tornare negli anni Settanta e di dialogare insieme a quelle donne – con sincerità, rispetto, ma anche con le proprie discrasie.
Saggista, giornalista, docente, Aida Ribero è stata appunto una delle fondatrici e la presidente del Centro Studi, nonché parte attiva del Movimento delle donne torinese.
Il libro non è una semplice raccolta dei suoi scritti inediti o un compendio delle sue attività più importanti – dai saggi, alle mostre, agli impegni con le tante realtà femministe del periodo, per cui la ricerca bibliografica e l’archiviazione si devono a Michela Marocco. Le parole di Aida Ribero sono rese nuove e urgenti dalla commistione con i ricordi delle amiche – delle donne che sono state sedute con lei intorno a quel tavolo – creando un vero e proprio quadro di un’epoca, come desiderava la curatrice Daniela Finocchi.
Leggere questo libro rimette al mondo l’esperienza vissuta allora ma coinvolge anche in prima persona, inserisce in quel «modo tutto speciale di stare e di operare insieme, intessuto di complicità, affettività, senso di appartenenza, sintomatico di una nuova visione delle relazioni tra donne».
Lo scrivo come giovane che ha compreso tardi il femminismo – passati i venticinque anni –, prima parola sfibrata, sentita abbinare a troppi contesti che di quell’atmosfera niente mi avevano mai svelato. Davvero, come temeva la stessa Aida, questa parola è diventata dispregiativa per le donne stesse, una «minaccia», oppure viceversa viene usata come una bandiera. Lei aveva già inteso il pericolo – grande la sua capacità di analisi sottolineata da tutte – motivo per cui scelse di volgere i suoi studi alle nuove generazioni.
Perciò penso che un lavoro come questo le sarebbe piaciuto: è una ricerca che diventa la sistematizzazione di un pensiero, è la teoria che si fonde con il partire da sé, sono le relazioni che si allargano nel tempo.
Il volume si apre con una serie di testi diaristici in cui Aida ripercorre la sua infanzia e adolescenza tra l’inconsapevolezza del proprio corpo e il «doppio binario morale» della società. Nessuno le ha fatto da guida: dalla legge del padre deve capire come difendersi nelle prime esperienze trasgressive con i ragazzi, nell’ambiente di Torino così diverso dalla sua Caraglio, negli incarichi all’UDI e al PCI in cui però non viene mai davvero scardinato l’ordine patriarcale che considera le donne nell’universo del biologico. C’è un’intimità di scrittura e analisi che subito rende questi interrogativi vicini, concreti.
Ed è sempre nella pratica, nella vita vissuta, che Aida impara a «muoversi su un altro piano», come scriveva Carla Lonzi: sceglie di abortire prima e di fare poi un figlio con Pietro Chiodi al di fuori del matrimonio; partecipa alle lotte per i diritti civili credendo sempre nella liberazione della donna, che non è la sola emancipazione; cura una rubrica su la Stampa immaginando un cambiamento fin nei temi considerati “femminili”; entra in un gruppo di autocoscienza ispirato al pensiero di Rivolta Femminile.
Aida lo aveva già inteso, ma è a trentotto anni che finalmente può dire anche a parole che «è il nostro corpo che ha fornito e ci fornisce la chiave per capire e l’autorevolezza per dire», appunto.
«Dire per non esser dette» diventa da quel momento il suo unico orientamento.
Il libro presenta quindi molti articoli, discorsi a convegni, saggi. È una nuova fase di trattazione storica e sociale in cui tutto è rivisto in una lettura «situata», radicata nella propria autenticità. Ecco che viene descritta la nascita del Coordinamento giornaliste del Piemonte – che portò avanti molte campagne di sensibilizzazione e attenzione al linguaggio –, le attività con la Casa delle Donne di Torino e la fondazione del Coordinamento contro la violenza e del Telefono Rosa della città.
«Desideri, progetti, azioni». Tanto è stato fatto e, nel suo stesso farsi, Aida ancora una volta sa già guardare al futuro: nulla di quel lavoro può andare perso.
La sua lucidità di pensiero si trasferisce in presa diretta nei suoi testi e così a chi legge: lei è sempre in grado di modificare il registro in base alle persone a cui si rivolge, di rendere chiari a tutte e tutti la storia e i nuclei del femminismo, di discutere anche i lati negativi.
È sorprendente leggere come Aida sappia raccontare senza pietismo né rancore anche il «riflusso» degli anni Ottanta, le spaccature interne ai gruppi. Mentre io, ragazza che appunto non ha vissuto quel periodo, non ho potuto che provare nostalgia, sofferenza, forse anche invidia per quella politica prima.
Aida invece proprio da lì decise che serviva ripartire dato che «se sparisce la pratica delle relazioni tra donne sparisce anche una cultura che aveva la capacità di mettere in discussione il già dato, il già costituito, che sapeva pensare l’impensato».
In ogni sua pagina si percepisce la spinta verso il futuro. Non solamente per portare avanti quello che si era fatto, ma per creare un tessuto in cui tutto continui a essere modificato, reinterpretato.
Tra le mostre e i volumi nati da questa necessità ricordo in particolare 100 titoli: guida ragionata al femminismo degli anni Settanta (curato con Ferdinanda Vigliani; Tufani editrice, 1998), Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta (Rosenberg & Sellier, 1999) e Procreare la vita, filosofare la morte. Maternità e femminismo (Il Poligrafo, 2011), ma anche tutti i progetti realizzati appositamente per le scuole perché sono la prova della sua idea di eredità. E anche questa biografia Con forza e intelligenza curata da Daniela Finocchi e Michela Marocco, ne diventa la prosecuzione.
Non servono dettami o proclami altisonanti. Basta sedersi intorno a qualunque tavolo – non solo quello di cristallo per fortuna –, avere uno sguardo obliquo, cercare nuovi linguaggi e ordini simbolici a partire dalle voci delle donne che ci sono state prima e verso quelle che ci saranno dopo.
Aida lo faceva con quel suo «generoso pragmatismo», quella sua «purezza e lo slancio di solidarietà genuina», quella sua «capacità di stare nel presente e accudirlo», con pazienza. In tutti i ricordi ricorrono le medesime descrizioni restituendo di lei una visione prismatica grazie alla quale si pensa davvero di averla conosciuta e che le sue parole fossero dirette proprio a noi, proprio a me.
Io che sono una figlia della nuova generazione «smemorata». Io che non ho avuto l’opportunità di conoscere a scuola la storia dei movimenti femminili – come lei aveva previsto purtroppo.
Io che ora, però, posso scegliere di mettermi in relazione: sarà in un’altra forma rispetto a quella ricreata in questo saggio o sperimentata da Aida, ma l’importante è che sia in una forma che seguita a muoversi, a esistere e rapportarsi con il mondo.
È con una per me inaspettata rassicurazione che esco infine da questa lettura perché «i legami discendenti per via femminile formano una genealogia, tracciano un percorso, segnano dei tempi e delle continuità. È entro questa collana che il singolo anello va a collocarsi, sentendosi parte di un tutto che gli appartiene».
“Con forza e intelligenza Aida Ribero”, a cura di Daniela Finocchi e Michela Marocco, (1935-2017), Il Poligrafo, 2024
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Elena Pineschi
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