La lingua subalterna è una eredità, è la genealogia delle povere. Le subalterne non possono parlare perché l’ascolto, la ricezione riproducono l’immaginario del potere, non c’è neppure lingua materna per chi emigra, solo una lingua mascherata di potere. Il libro di Brigitte Vasallo nata da una famiglia galiziana emigrata in Francia, poi in Catalogna e Marocco
Di Clotilde Barbarulli
Vasallo ci pone un interrogativo coinvolgente che ci fa riflettere sulla decostruzione lessicale del binarismo di genere. All’inizio parla di una personalità televisiva, Belén Esteban, e del suo progetto di scrivere un libro: è chiamata «la principessa del popolo», perché «nonostante sia ricca, ha ancora modi da poveri» e i suoi programmi sono generalmente rubricati come trash. Le ambizioni culturali di Belén Esteban danno «talmente fastidio da disturbare la struttura stessa del sistema»: l’ascesa sociale di una donna volgare sembra un fallimento perché non dissimula. Questo esempio dimostra per Vasallo che la classe sociale non riguarda solo lo status economico, ma include anche contatti e relazioni con persone e gruppi che possiedono potere e contatti: è uno «status ereditato». Il sorriso per le letture di Belèn nasconde perciò il classismo di chi ha ereditato il capitale culturale e si difende dall’invasione di classe di chi proviene dalla miseria.
Vasallo, nata da una famiglia galiziana emigrata in Francia, poi in Catalogna e Marocco, non ha una lingua materna (concetto che a suo parere va demistificato specie in contesto migratorio): a casa parlavano con difficoltà il castigliano, ma la scuola esigeva il catalano, invitando a rispettare le persone di potere, ad adeguarsi per poter proseguire. Rivendica così il potenziale della propria condizione di mujer de barrio (donna dei quartieri popolari), allo scopo di rimettere in discussione la possibilità di un linguaggio inclusivo.
Rifacendosi a Spivak e a Segato, sostiene che il soggetto subalterno può parlare ma non può «interloquire col potere a meno che non lo faccia utilizzando le forme di locuzione» ammesse dal potere stesso, ma il camuffamento è impossibile. «Nessuna di noi – noi che siamo a una generazione o due dalla miseria, noi che abbiamo il racconto diretto della fame» sa che, anche se arrivata ai piani alti, può far finta di essere diversa: «Perché la classe noi ce la portiamo addosso, nelle ossa».
L’accesso all’accademia è una necessità per migliorare le condizioni di vita, ma l’ascesa eventuale richiede sia il disprezzo verso le pari sia la desiderabilità dei luoghi del potere. Racconta così la storia di povertà della sua famiglia e della madre che parlava del «terrore di sapere che la sopravvivenza non è garantita»: ma lo sforzo collettivo di avere e di mostrare un capitale culturale «per tirarci fuori dalla miseria è diventato una forma radicale di distruzione della coscienza di classe».
Il semiocapitalismo è il modo di produzione in cui l’accumulazione di capitale avviene per mezzi di produzione e accumulazione di segni, beni immateriali che agiscono sulla mente collettiva, sull’immaginazione: in questo terreno la posta in gioco è il linguaggio inclusivo/di genere, perché non siamo fuori dal sistema. Fa riflettere l’inquietudine per il termine ‘inclusione’ data la sua irriducibilità nel discorso a una questione di linguaggio, e anche per il desiderio verso il centro di potere che impregna la parola stessa.
Noi operaie linguistiche – afferma Vasallo con passione e ironia – sosteniamo il linguaggio nel momento in cui lo usiamo ma senza potere decisionale su di esso. Non siamo nemmeno padrone della lingua che parliamo, possiamo usarla solo sotto tutela. Vale la pena di cercare di pensare oltre gli strumenti del padrone (Lorde). La disputa del resto per trovare una forma che ci rappresenti tutte è dannosa, perché continua a insistere sull’idea della rappresentazione universale: «Non solo non esiste un linguaggio di genere perfetto che possa rappresentare tutt*: è che non desideriamo che esista».
Quando parliamo con la -a o -u, possiamo solo mostrare il disagio, fare rumore: il sistema non è la -o, come non è il maschile, il sistema è l’universalizzazione. La violenza simbolica che si portano con sé le parole ha a che vedere con chi le enuncia, e con quale realtà va a rafforzare. Se il meccanismo principale della contemporaneità capitalista è la produzione di significato, allora produrre parole e concetti non emancipa, ma intrappola, perché gli strumenti del padrone sono il contesto e i processi delle parole.
La lingua subalterna è una eredità, è la genealogia delle povere, delle silenziate. Le subalterne non possono parlare perché l’ascolto, la ricezione riproducono l’immaginario del potere e riusciamo a sentire solo questa lingua mascherata di potere. Non ascoltiamo il sottotesto perché lo subalternizziamo: «È questa la vittoria del potere. E questo, purtroppo, il nostro terribile fallimento collettivo».
La fine è amara, sembra spingere alla rinuncia, ma Vasallo – ed in questo mi sembra molto coinvolgente – esorta invece a cambiare le parole, anche se non cambiamo il mondo: risignificare il lessico che subiamo in modo coloniale, patriarcale, classista. Si tratta di essere consapevoli delle difficoltà di una vera contro-egemonia all’interno del sistema in cui viviamo, valutando i costi per l’autenticità e la dissidenza pagati da chi tenta di accedere alla produzione culturale partendo da condizioni di povertà e oppressione. Ma si può/si deve prendere parola anche se il pensiero universalista basato sul binarismo tenta di ridurre a subalterno ciò che vorrebbe essere oppositivo. «La guerra per nominarci – scrive Remedios Zafra nella presentazione – è fatta di lame taglienti …ma siamo noi a impugnare quelle parole».
«Nel linguaggio di genere – sottolinea con forza Vasallo – ci preoccupiamo di come le nostre soggettività vengono nominate affinchè siano incluse. Ma incluse da chi e dentro cosa? Non ho bisogno di un nuovo pronome universale. Quello che voglio è la consapevolezza che questo campo è il nostro, che il linguaggio è di chi lo parla».
Brigitte Vasallo, Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe. Traduzione e postfazione di Giusi Palomba (Tamu, 2023)
Brigitte Vasallo, Una trasformazione che comincia dagli affetti. Intervista a cura di Shendi Veli, il manifesto, 5 aprile 2024
Brigitte Vasallo, ai microfoni di radioblackout/podcast, 21 maggio 2023.
PASSAPAROLA:








Clotilde Barbarulli

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