Nel suo nuovo film “Arancia Bruciata”, Clémentine Roy riscopre la pratica delle predizioni e reinventa l’incanto di un modo dove animali, umani e il cosmo intero vivono in armonia. Al centro una comunità di donne che, come scrive Donna Haraway, ipotizzano un presente e un futuro da inventare insieme. Abbiamo intervistato la regista
Di Ivana Margarese
Arancia Bruciata di Clémentine Roy, passato al festival Cinéma du Réel nel 2024 e poi in maggio a Palermo al Sicilia Queer 2024 in anteprima nazionale, racconta di una comunità di donne che si dedica a pratiche divinatorie risalenti all’antichità romana, come l’ornitomanzia e l’interpretazione dei fenomeni celesti proponendo uno stile di vita in armonia col cosmo senza nascondere i conflitti evidenti di una modernità che si scontra con un mondo ancestrale e misterioso. Il precedente film della regista – Carcasse (2017) – presentava una comunità di uomini e animali che lavorano su un’isola deserta, reliquie di un mondo perduto ed è stato esposto alla Berlinische Galerie e selezionato in vari festival come IFFR o RIDM.
Il titolo “Arancia bruciata” da cosa nasce?
Il titolo del film è come un collage. Sono le prime parole che ho imparato in italiano dopo aver trascorso una fine estate nella regione di Napoli, ha a che fare con il colore del sole, dei fuochi e delle arance lasciate a terra.
Uno degli elementi che mi ha maggiormente toccata nel film è il tuo sguardo sugli animali e il rapporto della protagonista con loro. Lo sguardo sull’abitare insieme il mondo. Ho letto che il rapporto con gli animali era presente anche nel tuo film precedente. Parliamo di questa attenzione verso quelle che la scrittrice Anna Maria Ortese definiva “le piccole persone”.
Condivido il punto di vista di Anna Maria Ortese sulla de-gerarchizzazione del nostro rapporto con gli esseri viventi e sulla necessità di questo “stare insieme”. Qui ho voluto dare “voce” nel senso più forte del termine al non umano, al più-che-umano. Gli uccelli, in particolare, diventano compagni di viaggio, spostano il punto di vista sulla realtà. Mi sono chiesta cosa potesse essere un segno, cosa potesse metterci in uno stato di ascolto, come contemplare, come relazionarci. I rituali praticati in “Arancia Bruciata” sono antichi, provengono da un’epoca in cui eravamo in comunicazione con l’intero cosmo, con gli uccelli e anche con i fenomeni atmosferici come i fulmini e i tuoni. Si trattava anche di un mondo più orizzontale, in cui animali e uomini convivevano, e mi interessava capire come un mondo potesse essere ricostruito dai suoi scarti, creando una narrazione speculativa.
Arancia bruciata mi ricorda alcuni temi del recente film La chimera diretto da Alice Rohrwacher. Entrambi offrono a noi spettatori “un luogo di osservazione della realtà” in equilibrio tra nostalgia e attualità e si compongono come un poetico indizio di ciò che abbiamo perduto e vorremmo riportare in vita. Entrambi fanno riflettere sul luogo verso cui ci stiamo muovendo e su quello che frettolosamente vorremmo lasciarci alle spalle, senza sostare, profanando ciò che un tempo veniva considerato sacro.
Non è più sacra la natura, i boschi, i corpi delle persone. Un tuo commento su questo intreccio tra elementi mitici, arcani, e contemporaneità?
Sì, il rapporto con il passato è una questione che guida costantemente il mio lavoro. Quando guardo un paesaggio, non posso fare a meno di interessarmi agli strati che lo compongono.
Come nel mio film precedente, mi sono chiesta quali cose obsolete dovevano essere riattivate, portate alla luce. Per me non si trattava tanto della perdita del sacro, come in “La Chimera”, quanto dell’incanto, presente anche nel suo film, e persino di reincanto. C’era l’idea di un possibile ritorno al passato, di sopravvivenze di realtà passate, di un seme di vitalità il cui potere deve essere riesumato.
Ho voluto leggere Plinio e le sue “Storie Naturali” per scoprire che cosa aveva da dire sui rituali, sui paesaggi, sulla scienza… Ho scoperto la pratica delle predizioni leggendo sulle religioni antiche, e trovato un calendario divinatorio che dà presagi legati ai fulmini. Queste predizioni ci arrivano dagli Etruschi, e mi è sembrato necessario guardare di nuovo a questi popoli nomadi, per ritrovarsi in quel momento in cui si stavano tracciando le ‘frontiere’ tra il selvatico e il domestico. Così mi è venuta l’idea di utilizzare i messaggi vocali. Previsioni e proposte, ipotesi poetiche e talvolta anche molto pratiche! Un pensiero speculativo che esplora altre possibili traiettorie.
Spostiamo l’attenzione sulla comunità di donne del tuo film, sulla relazione tra loro, semplice e intima, quasi fuori dal tempo. Non è chiaro se siano legate da amicizia o da parentela, certo è, che come scrive Donna Haraway sono state capaci di generare parentele e di creare insieme spazi nuovi e accogliere “ritmi e musicalità” del vivere diventando compagne.
Sì, volevo porre la questione della sorellanza, in una comunità femminista, queer e inclusiva, in contrasto con certe femministe che cercano di riappropriarsi di un ordine delle cose a volte in modo esclusivo.
Come Donna Haraway, volevo ipotizzare un presente e un futuro da inventare insieme. Volevo dare forma ai micro gruppi che si uniscono nel collettivo e possono resistere a una realtà a volte violenta. Per farlo, ho dovuto creare pratiche “nuove” come i presagi, passare del tempo insieme a contemplare, cantare, fare cose insieme, riscoprire i momenti in cui ci prendiamo cura di noi stessi, degli altri e degli esseri viventi. Una memoria collettiva vanificata dalla società dei consumi e qui incarnata dalla tammorra, trance collettiva per eccellenza, il cui canto di solito è affidato agli uomini, mentre in Arancia Bruciata ho pensato ad una riappropriazione femminile nell’inventare e improvvisare la canzone che ascoltiamo.
Nel finale del film fai riferimento al mito di Antinoo, amato dall’imperatore Adriano, e alla costellazione dell’Aquila. Un riferimento al mito e all’amore che ambisce a rimanere eterno. Puoi parlarmene?
Ho letto tantissimo tempo fa la storia di questi due amanti gay in “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. Nel corso delle ricerche per il film mi sono imbattuta anche nelle antiche mappe celesti, e ho scoperto la presenza di costellazioni scomparse, come l’Aquila, dedicata da Adriano ad Antinoo.
Più che l’amore eterno, volevo rendere visibile un’antica storia queer il cui mito è obsoleto.
Il film mostra diverse forme di segni, nel cielo con uccelli e fulmini, sui muri e sui corpi, e ho avuto il desiderio di fare luce anche dei segni tracciati nella notte.

Ivana Margarese

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