Risale al ‘500 la prima battaglia delle scrittrici italiane contro quello che oggi chiamiamo il patriarcato. La più nota è Moderata Fonte con il suo “Il merito delle donne” nel quale un gruppo di donne prende parola nel dibattito sulla condizione femminile già allora vivace, accusando gli uomini di ‘abuso, tirannia e crudeltà’ nei confronti delle loro madri, sorelle, figlie e mogli
Di Carlotta Moro
Quando ho appreso dell’iniziativa “Unite”, un’azione letteraria collettiva per denunciare la violenza di genere, ho subito ricordato una simile mobilitazione che risale al Seicento. È come se un’eco proveniente dal passato, una sorta di movimento antesignano – seppur in maniera nettamente diversa – di quello ideato oggi da Annalisa Camilli e Giulia Caminito, risuonasse ancora oggi.
In Italia, simili iniziative hanno radici nel quattordicesimo secolo, quando Leonora della Genga e, in seguito, Isotta Nogarola (1418-1466) diedero vita alle prime, circoscritte, difese del genere femminile. A loro seguirono figure come la poeta napoletana Laura Terracina (c.1519-1577), che nel Discorso sopra i primi canti d’Orlando Furioso (1550) auspica un futuro in cui le donne abbandonino l’ago per impugnare la penna, contrastando la misoginia presente nella letteratura scritta dagli uomini.
Questo momento non tardò ad arrivare. Il trattato misogino I donneschi difetti (1599) di Giuseppe Passi, che dipinge le donne come creature inferiori, vili, avare, volubili, vanitose e litigiose, fu il catalizzatore per la pubblicazione delle prime opere letterarie femminili esplicitamente a favore della dignità della donna: Il merito delle donne e La nobiltà et l’eccellenza delle donne, delle veneziane Moderata Fonte (1555-1592) e Lucrezia Marinella (1571-1653). La polemica di Marinella fu commissionata dalla stamperia veneziana di Giambattista Ciotti come risposta all’attacco diffamatorio di Passi, la cui critica alle donne spinse anche Domenico Imberti a pubblicare il dialogo di Fonte otto anni dopo il suo completamento (e la morte della sua autrice).
Il merito delle donne assume la forma di una spiritosa ‘domestica conversazione’ tra sette amiche che si differenziano per stato ed età. Riprendendo il modello decameroniano, l’anziana vedova Adriana viene eletta come regina della disputa e si creano due fazioni, la prima incaricata di celebrare i meriti delle donne; l’altra di difendere gli uomini da ogni critica. Così, per la prima volta nella letteratura italiana, un gruppo di sole donne prende parola nel dibattito sulla condizione femminile, accusando gli uomini di ‘abuso […] tirannia e crudeltà’ nei confronti delle loro madri, sorelle, figlie e mogli. Elena, appena sposata, rivela che il marito non le permette di uscire di casa, mentre la vedova Leonora dichiara categoricamente di preferire annegare piuttosto che sottomettersi nuovamente a un uomo. Corinna paragona l’unione matrimoniale ad una transazione in cui la sposa diventa una merce di scambio tra padre e marito: ‘Mirate, che bella ventura d’una donna è il maritarsi: perder la robba, perder sé stessa e non acquistar nulla se non li figliuoli che le danno travaglio e l’imperio d’un uomo, che la domini a sua voglia.’
La società patriarcale viene descritta da Moderata Fonte come un’egemonia artificiale, fondata non su un’effettiva differenza qualitativa tra i sessi, ma sull’abuso di potere. Come osserva Leonora: ‘Se siamo loro inferiori d’auttorità, ma non di merito, questo è un abuso che si è messo nel mondo, che poi a lungo andare si hanno fatto lecito ed ordinario; e tanto è posto in consueto, che vogliono e par loro, che sia lor di ragione quel che è di soperchiaria.’ Queste parole suggeriscono che il dominio dell’uomo non è preordinato in natura né il prodotto del volere di Dio, ma viene creato nel tempo attraverso la cultura e la consuetudine. In modo più radicale, Cornelia esorta le compagne (e, implicitamente, le lettrici) ad abbandonare la società maschile per creare un nuovo mondo: ‘Deh, di grazia, svegliamoci un giorno e ricuperamo la nostra libertà, con l’onor e la dignità che tanto tempo ci tengono usurpate.’
Il primo trattato scritto da una donna che argomenta sistematicamente la superiorità femminile, La nobiltà et l’eccellenza delle donne di Lucrezia Marinella, si apre con un’audace dichiarazione che illustra l’atteggiamento impavido dell’autrice – l’opera non è animata dall’invidia, confessa, perché ‘io non ho desiderato, né desidero, né mai desidererò […] di essere maschio.’ Secondo Marinella ‘il proprio fine della Donna non è di esser fatta in gratia dell’huomo, ma d’intendere, di governare, di generare e di adornare il mondo.’ Non è vero, quindi, che il sesso femminile sia destinato alla reclusione domestica per via di presunte incapacità nel ragionamento o nel gestire il potere. Se le donne vengono considerate inferiori, ciò è dovuto unicamente al fatto che gli uomini hanno monopolizzato ogni privilegio, vietando loro l’accesso all’istruzione e alle cariche politiche e militari, temendo di perdere ‘la loro signoria.’ Marinella include anche un’esortazione alle donne, scrivendo: ‘Ma se le donne, come io spero, si sveglieranno dal lungo sonno dal quale sono oppresse, diverranno mansueti e umili questi ingrati e superbi.’
Sia Fonte sia Marinella condannano l’esclusione delle donne dalla storia e tentano di salvare le proprie antenate dall’oblio. Nelle parole di Fonte: ‘son uomini quei che l’hanno scritte [la storia], i quali non dicono mai verità […] per la invidia e mal voler loro verso di noi.’ Nel trattato Essortationi alle donne et a gli altri, se a loro saranno a grado (1645), Marinella lamenta: ‘Quanti libri di huomini antichi si sono conservati, e si conservano, e di Donne non ne veggiamo alcuno? […] Da ciò conoscerete che gli huomini non vogliono favorire le vostre compositioni […]. Non vogliono che la Donna gareggi seco, hanno acquistato la tirannide del Regno della gloria; onde tutte le opere vostre corrono nel grembo dell’oblivione.’ In La nobiltá et l’eccellenza delle donne, dopo aver accusato gli storici di ignorare le gesta femminili, li mette in guardia: ‘in darno vi affaticate; perciochè la verità, che risplende in queste mie […] carte, le inalzerà a vostro malgrado fino al Cielo.’
Nel 1614 vide la luce un’ulteriore risposta a Passi, questa volta firmata dalla palermitana Bianca Naldi. Come Fonte e Marinella prima di lei, Naldi ribadisce che ‘se oggi alle donne non fosse invidiosamente vietato imparare le lettere, già in questo momento sarebbero giudicate eminenti nella dottrina più degli uomini.’ Inoltre, riprende anche il tema dell’omissione della donna dalla storia maschile: ‘e forse che non habbia essempio nelle antiche, e moderne historie di tante Donne, che nel valore dell’armi hanno fatto heroiche imprese, e illustrato il sesso loro d’eterni honori?’ Nello stesso anno, la nobildonna veneziana Veneranda Bragadin Cavalli (c.1566-1619) pubblicò una lettera polemica contro Giovanni Battista Barbo, autore di un poemetto misogino, L’oracolo, overo invettiva contro le donne. Il fulcro dell’invettiva è che la misoginia costituisce una sorta di blasfemia, avendo Dio creato la donna a sua immagine e somiglianza.
Sempre a Venezia, Arcangela Tarabotti (1604-1652), costretta dal padre a prendere i voti come monaca benedettina nel convento di Sant’Anna, trovò nella disperazione della sua prigionia la forza per denunciare ogni forma di violenza contro le donne, sottolineando come queste fossero ‘private dell’armi e delle lettere con le quali potrebbero giustamente vendicarsi.’ In testi come Tirannia paterna (pubblicato nel 1654 e messo all’Indice nel 1660) e l’Inferno monacale (pubblicato solo recentemente), Tarabotti smonta le fondamenta teologiche, politiche ed economiche della tirannia maschile, incoraggiando le sue concittadine alla ribellione. Tra i suoi scritti più significativi spicca anche l’Antisatira (1644), una replica pungente al trattato Contro ‘l lusso donnesco, satira menippea (1638) di Francesco Buoninsegni. L’ultima opera pubblicata durante la vita di Tarabotti, Che le donne siano della spetie degli huomini: Difesa delle donne (1651), costituisce una sfida a Orazio Plata Romano, il quale negava alle donne un’anima, e, di conseguenza, la loro umanità. Dopo aver demolito le interpretazioni bibliche del suo avversario, Tarabotti mette in luce come sia proprio quest’ultimo ad essere privo di un’anima.
La presa di posizione delle donne nello spazio pubblico, sfidando la violenza patriarcale attraverso il potere della scrittura, rappresenta, nel 2024 come nel 1600, un atto politico potenzialmente rivoluzionario. Nonostante i secoli trascorsi, le riflessioni di Fonte, Marinella, Naldi, Bragadin e Tarabotti non risultano così distanti dalle nostre. A differenza di noi, però, queste donne vissute tra Cinquecento e Seicento non godettero del privilegio di unirsi in un impegno collettivo; scrissero invece da sole, anche se perseguendo lo stesso obiettivo. Noi viviamo nel futuro che, in molti aspetti, loro hanno sognato e contribuito a rendere possibile. Siamo, tuttavia, eredi di una storia dalla quale la loro presenza è stata sistematicamente cancellata. Spetta a noi ricordare le loro parole per dare forza alle nostre. Vorrei concludere con il commento che Leonora, personaggia de Il merito delle donne di Moderata Fonte, rivolge nel 1592 alle compagne che la invitano a pazientare: ‘Si è taciuto pur troppo […] e più che si tace, essi fanno peggio.’ Ora, più che mai, non possiamo permettercelo.
Questo articolo è parte della campagna #Unite a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Carlotta Moro
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