Sanremo, ancora e sempre?

Nadia Tarantini, 12 febbraio 2024

«Lo ascolto da quando ero bambina, allora alla radio, accanto alla nonna. E poi la tv, i presentatori, gli abiti, la politica, le artiste e gli artisti. Lo ascolto perché imparo molto. Finché ci saranno musiche e parole non saremo perdute/i»

Di Nadia Tarantini

Mia nonna Elsa preparava il letto per il dopo cena. Al centro, fra i posti che avremmo occupato lei ed io, un grande vassoio di caramelle, cioccolato e mandarini. La radio dalla sua parte, sul comodino. Così, dal 1951 al 1959, ho ascoltato il Festival di Sanremo ogni anno, l’ultima sera fino a notte. Dai (quasi) cinque anni ai (quasi) tredici. Era tutta e solo musica. Presentazioni secche, nessun commento né dai presentatori né da altri. Se le/i cantanti avessero detto qualcosa prima o dopo la canzone, sarebbero stati squalificati.
I commenti sarebbero venuti dopo, la settimana successiva, con le foto e gli articoli di Oggi e di Gente, che mia nonna leggeva ad alta voce e commentava a sua volta. Con le foto patinate dei vestiti, dei fiori di Sanremo, dei pettegolezzi su improvvisi o inventati amori. Le cantanti e i cantanti di Sanremo si confondevano, nel mio immaginario, con le vicende di Soraya e lo Scià di Persia; con l’eterna telenovela dei Savoia nella reggia di Cascais in Portogallo; con il regista Rossellini che lasciava Anna Magnani per Ingrid Bergman.

In questo compatto corpus di esperienze – non estranee alla mia decisione, a otto anni, di dedicare la mia vita alle storie e alla scrittura – si inseriscono come spot pubblicitari, mentre guardo Sanremo 2024, vividi come flash, importanti passaggi di status, come direbbe FB.
Il primo è mio padre entusiasta, che guarda per la prima volta Sanremo alla Tv, dove è approdato uno dei suoi cantanti preferiti, gran voce e testi coinvolgenti, e oltretutto compagno. Domenico Modugno scandisce gli anni della mia seconda e terza media, e fa entrare di sguiscio la politica nella canzone. Ma Luigi Tenco, la sua corposa estraneità agli ingessamenti del Festival, la sua vicinanza a noi che cominciamo a mettere in discussione “tutto”, è storia mia, storia politica e sentimentale insieme, il suo suicidio rompe il tetto di cristallo perbenista di Sanremo, grida qualcosa che riguarda i suoi coetanei. Si è ucciso davvero per amore? La delusione per l’insuccesso? O piuttosto la constatazione che per la sua sensibilità e i suoi sogni (nostra, nostri) il mondo che abitava era troppo angusto?

Perché guardi ogni anno Sanremo? Perché anche quest’anno? Mi chiedono amiche schifate dai duetti irricevibili di Ama e Ciuri, dallo spreco economico delle toilette della platea, dalla melassa autocelebrativa di star, manager pubblici e privati, dall’invadenza insopportabile degli stacchi pubblicitari. La risposta più vera è perché da Sanremo imparo sempre qualcosa. Dal primo livello di apprendimento – che musica ascoltano su Spotify quest’anno, e nelle radio, soprattutto le persone più giovani – agli altri, via via: che vestiti colori tessuti si portano quest’anno, che pensiero (o non pensiero) scorre nelle canzoni e influenza le opinioni pubbliche.
E come e se tutto questo mi riguarda.

Il mio report di quest’anno parte da uomini e donne, e come può essere diverso? Dai vestiti, belli o brutti, che fasciano scoprono denudano e decorano i corpi delle cantanti. Dall’abbigliamento che nasconde e scopre i corpi dei cantanti, dall’eccesso di taglie ai tessuti rigidi e respingenti di pelle e metalli, dal devoré che accarezza i tatuaggi espansivi dei maschi e quelli allusivi delle donne, dal richiamo ad una seduzione che pare riguardare soltanto gli uomini fra loro, e invece le donne fra loro, con loro, e in un territorio fluido che BigMama chiama queer.
Le donne, tutte le donne che hanno cantato, occupano il palco con decisione, irrisione e un tocco di auto-ironia che riguarda i sentimenti, il pudore dei sentimenti. Paiono padrone della loro vita, sapere cosa cercare per sé. S’appellano sorelle. “Sono pazza di me perché troppo mi sono odiata” (Loredana Berté). Do valore alla noia, spazio libero per trovarmi, ma inseguo la gioia (Angelina Mango).

E arrivano al mio fresco ricordo le frasi che aspettavamo, e che sono venute. Da cessate il fuoco a Stop al genocidio. All’italiano vero che è Ghali, ai suoi figli di un deserto lontano, bombardati in ospedale lungo linee immaginarie… sono contenta, emozionata e subito dopo alla serietà dei cantanti che pronunciano con consapevolezza parole pesanti e attese, si sovrappone l’immagine del sorriso di Amadeus che li saluta come niente fosse. Lo stesso Amadeus che poche ore prima ha esaltato eserciti e generali – non senza il suo ricordo di matricola e reparto dove ha fatto il militare. E ha parlato delle foibe come tragedia più grande del Novecento, più grande di Auschwitz, di Birkenau.
Ai tempi di Pippo Baudo, non sarebbero stati squalificati quei cantanti, redarguiti, censurati? Perché tanta compiacenza. Perché se lo possono permettere. Perché sono forti, fortissimi. Perché nelle ore di Sanremo a Bruxelles si prepara la débâcle della Convenzione di Instanbul per l’Europa, perché un altro uomo ha ucciso una donna e due figli, perché tutto quello che abbiamo fatto e detto negli ultimi trent’anni per spezzare il cerchio della violenza maschile verrà cancellato, bonificato e silenziato.

Eppure. Nella mia domenica uggiosa, mentre scrivo a caldo e ascolto arie delle opere più belle, dialogo con le emozioni che lirica e canzoni suscitano, insieme specchio dell’epoca e mondo che viviamo – periscopio nella nostra interiorità. Finché ci saranno musiche e parole non saremo perdute/i.

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Nadia Tarantini

Nadia Tarantini Scrittrice e giornalista. Esploratrice di molti mestieri, sin da giovanissima ha cercato la scrittura in molti luoghi, dalla vendita rateale di libri, al giornalismo e infine all’insegnamento… della scrittura, sia privatamente (“Le vie dei Cinque Sensi”) che nelle università. Solo nel 2017, a 71 anni, dopo una decina di altri libri, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Quando nascesti tu, stella lucente” (L’Iguana), storia ambientata nel lontano 2346. Con Iacobelli, nel 2011, ha ripubblicato “Il risveglio del corpo. Dai sintomi alle emozioni l’arte della salute”, romanzo-saggio uscito nel 1996 presso La Tartaruga, che ha avuto quattro edizioni. A fine maggio 2019 il suo secondo romanzo, “Amore Inquieto”, nei Leggendari di Iacobelli. È vissuta fuggendo e cercando le storie dentro di sé e ha combattuto furiosi dubbi sul proprio valore attraverso la relazione con altre donne. La rivista Leggendaria e la Sil sono stati i luoghi privilegiati della sua “autorizzazione alla scrittura”.

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