Dialogo a tre voci – Giada Bonu Rosenkranz, Federica Castelli, Serena Olcuire nel testo Bruci la città – per dire come lo spazio urbano si intreccia alla prospettiva di genere. Chi lo pianifica, lo abita, lo riscrive? Le micro-pratiche collettive possono trasformarlo? Gli spazi femministi ad esempio sono contro-istituzioni, creano nuovi circuiti democratici senza profitto, sono beni comuni
Clotilde Barbarulli
“Le città possono sembrare fatte di buio e solitudine per tant*, attraversate ogni giorno da abitanti senza voce. Nelle città c’è in atto un processo di gentrificazione e un processo che riguarda le emozioni. E il loro effetto è simile: sbiancante, omogeneizzante, attenuante […]”
“Qualche tempo fa ci siamo ritrovate insieme – raccontano le autrici – a partire da un’urgenza. Ognuna dal suo campo disciplinare – Giada dalla sociologia, Federica dalla filosofia politica, Serena dall’urbanistica – ma attraverso percorsi politici convergenti, sentivamo la necessità di comporre il mosaico di riflessioni e pratiche che intrecciano lo spazio urbano alla prospettiva di genere, e nello specifico alla prospettiva dei movimenti femministi e transfemministi”. Così è nato questo libro, un dialogo a più voci che s’intrecciano, di femministe e attiviste che, con passione e serietà di ricerca, si sono sempre occupate di spazi urbani e genere: non a caso il titolo allude al desiderio, come passione e motore dell’azione politica, e al voler stare nel conflitto: “agire in esso la propria parola politica, costruire alleanze, confronti e contrasti”.
Se i movimenti femministi e transfemministi hanno dato nuova linfa ad antichi problemi, la città appare sempre più legata a disuguaglianze strutturali, in particolare legate al genere. Chi ha diritto alla città? Chi la pianifica, la abita, la riscrive? Le micro-pratiche collettive possono trasformare questo spazio? Domande cui le autrici cercano di rispondere muovendosi dallo spazio pubblico agli spazi trans/femministi, dagli spazi delle pratiche quotidiane agli spazi dell’interazione con le istituzioni, attraverso varie esperienze.
I corpi sono politici e si muovono nello spazio, lo attraversano, lo occupano (Castelli), per creare uno spazio relazionale, che richiede azione e cura collettiva, che appare e scompare. Le piazze sono un tipo particolare di spazi occupati tra (inter)azione e tattiche corporee di attivismi: ”Occupare una piazza opera una sospensione e una messa in questione dei modi, tempi, rimi della città neoliberale”. È una pluralità performativa che critica e riscrive le dicotomie della politica.
Ma da sempre i movimenti femministi ricercano anche spazi (Bonu), una casa comune, per radicare le proprie attività, e questa politica nei movimenti femministi e transfemministi ha una lunga e complessa storia. Il luogo così inteso ha una dimensione fisica, organizzativa e ideologica, un intreccio che fa pensare agli spazi come forme di economia femminista: economie innovative/alternative, radicali rispetto al modello economico e alle istituzioni. Gli spazi femministi come contro-istituzioni, che mirano a creare nuovi circuiti democratici senza profitto, sono beni comuni gestiti da una comunità: mettono al centro la relazionalità e i desideri di chi se ne prende cura. Se la casa come luogo di subordinazione negli anni Settanta veniva criticata, bell hooks la vedeva anche come luogo di resistenza. Così uno spazio politico gestito da donne, con i suoi rituali, i legami e gli oggetti, la cura (dalle pulizie all’organizzazione delle attività) esprime un progetto collettivo che produce il sentirsi a casa.
Lo sappiamo bene al Giardino dei Ciliegi di Firenze (“un luogo, un progetto”), cosa vuol dire aver avuto un0 spazio (in affitto dal Comune) dopo lotte e proteste di anni, e riuscire – nell’indipendenza politica conflittuale e nelle difficoltà economiche – a mantenerlo in divenire anche per i gruppi senza sede e per i movimenti. I corpi in relazione, sottolinea Castelli, favoriscono una pratica politica “che non cade nelle contraddizioni dell’istituzione, senza per questo perdersi nel dissipamento delle forze e del desiderio”.
Dunque gli spazi femministi sono anche strutture dei sentimenti (Olcuire): ad esempio Palazzo Nardini, un edificio quattrocentesco di Roma in via del Governo Vecchio, in stato di abbandono, viene occupato dal Movimento di liberazione della donna nel 1976 e adibito a Casa delle donne. Le stanze sono ripulite, tappezzate con manifesti, è allestito un asilo nido, si tengono assemblee e convegni, diventa un punto di riferimento importante. Ma nel 1983 i gruppi si spostano al Buon Pastore assegnato dal Comune. E l’immobile finisce per essere venduto a Invimit per un resort di lusso. La storia di questo palazzo è emblematica del problema di tanti luoghi in Italia, contesi fra il tentativo di riappropriazione e risignificazione da parte delle abitanti e l’interesse privato, facendo così emergere il problema del patrimonio pubblico.
Le varie pratiche femministe di riappropriazione dello spazio pubblico permettono di trasformare le emozioni con cui leggiamo e viviamo quello spazio. Pensare le istituzioni del comune a partire da un’ottica femminista, transfemminista e queer, permette prospettive inedite: spostandosi sulle soggettività incarnate si riporta “la politica alle sue basi corporee, spaziali, desideranti, materiali, quotidiane”. La città transfemminista si costruisce solo “nella quotidianità, nei processi e nella diversità dei contesti”.
Sono sguardi e voci che si rincorrono con una passione che segna le pratiche politiche e le utopie quotidiane ma anche con quel fuoco “che prepara il terreno per quello che sarà”, nella speranza che il libro porti tutt* a incendiarsi per una città diversa. Mi sembra un voler invitare chi legge a uscire “da quella afasia in cui getta lo smarrimento dell’oggi” e a produrre senso con un desiderio utopico (Barthes) per “mobilitare la Storia” anziché sottomettersi a essa (Wendy Brown). Se amministratori e governi sembrano indifferenti e incapaci di ascoltare i corpi, lo spazio urbano esprime infatti un anelito verso una città differente da quella che il liberismo propone come approdo obbligatorio della Storia. E le vicende, le riflessioni offerte dal libro parlano di una politica fatta di relazioni, di pratiche, di presenza corporea, sottolineano come si può ridisegnare piazze e strade della città, dando vita a nuovi immaginari vedendo il “fuoco” bruciare.
Giada Bonu Rosenkranz, Federica Castelli, Serena Olcuire, Bruci la città. Generi, transfemminismi e spazio urbano, Edifir 2023.
Bibliografia
Federica Castelli, Corpi in rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica, 2015
Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, 1980
Wendy Brown, La politica fuori dalla storia, 2012
Clotilde Barbarulli
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