Lo ha ucciso lei?

Micaela Veronesi, 19 novembre 2023

È un suicidio quello di Samuel o lo ha spinto giù dalla finestra Sandra, la sua compagna, scrittrice affermata? In “Anatomia di una caduta” la regista francese Justine Triet, vincitrice quest’anno a Cannes, costruisce una trama complessa incentrata sul labile confine fra verità e opinione. Come tutte le altre protagoniste dei suoi film, una donna di talento si barcamena tra marito e figlio ma alla fine subisce un vero processo, giudiziario e mediatico, che ha tutta l’aria di una caccia alle streghe

Di Micaela Veronesi

“Anatomia di una caduta” è un film che tiene il pubblico in sospeso per tutta la durata del racconto, sottoponendolo a continue oscillazioni fra le tante possibili verità, scardinando le aspettative e costringendo gli spettatori a rivedere molte delle proprie certezze.
Da un punto di vista narrativo la trama è apparentemente semplice. Una coppia di scrittori è entrata in una crisi da quando il loro bambino ha avuto un grave incidente che lo ha reso ipovedente. Lei, Sandra, è una scrittrice affermata, di origine tedesca, mentre lui, Samuel, è uno scrittore in crisi. Da Londra si sono trasferiti in una piccola località delle Alpi francesi, dove Samuel ha le sue origini, e hanno acquistato una baita che lui sta ristrutturando.
Durante una giornata qualsiasi, dopo che Sandra ha ricevuto la visita di una studentessa che si sta laureando sulla sua opera, e mentre il figlio Daniel è uscito a passeggiare in compagnia del loro cane, Samuel viene ritrovato morto nel prato innevato di fronte a casa. L’uomo pare essere caduto da uno dei piani più alti della baita. Potrebbe trattarsi di suicidio, ma non si trovano messaggi che lo attestino, e l’autopsia non chiarisce le cause del decesso; oppure è stato ucciso, e la moglie è la prima indiziata in quanto unica presenza certa in casa.
La regista Justine Triet, anche co-sceneggiatrice del film con Arthur Harari, ordisce una trama complessa incentrata sul labile confine fra verità e opinione. In quello scarto infinitesimale in cui ci giochiamo le nostre certezze e tutto ciò che per ognuno di noi è più rassicurante. Tutta la forza del film sta in questo scarto: è più rassicurante credere che la colpevole sia Sandra, o immaginarsi un mistero più fitto, come quello di un intruso che uccide e sparisce nel nulla? Perché, invece, è tanto difficile credere che un uomo come Samuel, colto, affascinante, impegnato nella ristrutturazione di una casa che ha fortemente desiderato, padre di un bambino disabile, si tolga la vita senza una motivazione dichiarata?
Se poi le indagini portano alla luce dettagli ed elementi come un tradimento scoperto, un’idea rubata, un litigio violento, diventa facile esprimere giudizi morali nei confronti di Sandra.
La moglie assassina appare come una possibilità più rassicurante di un gesto suicida.
L’incipit del film è un capolavoro di complessità, oltre a essere uno degli inizi più interessanti del cinema degli ultimi decenni: è un condensato di indizi fondamentali per la comprensione dell’intreccio. Indizi che spettatrici e spettatori devono riuscire a interpretare affidandosi esclusivamente alla loro memoria, come nei migliori gialli. Memoria che non deve essere per forza solo visiva.
Triet ci sprona a riflettere sull’importanza di saper, e poter, ascoltare. La macchina da presa filma il dialogo tra Sandra e la giovane intervistatrice con primissimi piani che si succedono in rapidi stacchi, disturbanti per l’occhio dello spettatore. Il montaggio alternato introduce l’altro protagonista del film, il figlio Daniel, intento a fare il bagno al suo cane; il raccordo fra le due scene è creato da un fuori campo sonoro straordinariamente significativo. Un brano musicale il cui volume sovrasta tutti gli altri suoni e che la protagonista rivela provenire dal computer del marito. Dialogare diventa in quel contesto impossibile, ma il sentire diventa la metafora del film.
Annullata ogni possibilità di comunicare, i personaggi si disperdono: Sandra riprende la sua routine in solitudine, Daniel esce con il cane e la studentessa intervistatrice se ne va. Resta la musica ad alto volume che seguita nel fuori campo per diverse inquadrature e funge da raccordo fra le varie sequenze ben oltre la scoperta del cadavere, formando un blocco narrativo straordinariamente efficace e conchiuso. Inoltre, è come se il brano sostituisse il corpo di Samuel: è tutto ciò che sappiamo di lui da vivo, fa le veci del suo carattere e del suo umore ed è una presenza violenta, intrusiva. Più avanti, quando viene alla luce il file di un litigio pregresso, che Samuel ha registrato all’insaputa di Sandra, in cui la coppia discute furiosamente, si delinea ulteriormente il profilo di un uomo che esercita una forza psicologica e subdola sulla moglie. Paradossalmente però questa registrazione acuisce i giudizi negativi su Sandra.
L’udito ha un ruolo fondamentale in questo film, e in particolare lo scarto fra suono, memoria sonora e sua interpretazione. Lo capiamo nel finale, quando Daniel ricorda i dettagli di ciò che ha sentito e decide di testimoniare.
Justine Triet si rivela un’autrice matura, con una sua poetica, uno stile e un linguaggio molto raffinati, straordinariamente brava a dirigere gli attori, e la vittoria della Palma d’oro a Cannes con questo film ne conferma il talento. Nei suoi lavori emerge una visione del mondo in cui sono centrali la psicologia e la vita delle donne, mentre gli stereotipi, anche i più radicati, sono ribaltati con sapienza.
Tutte le sue protagoniste, dal primo lungometraggio “La battaglia di Solferino” (2012), passando per “Tutti gli uomini di Victoria” (2018), “Sibyl. Labirinti di donna” (2019) fino a “Anatomia di una caduta”, sono donne di talento che devono barcamenarsi tra una vita professionale, spesso di successo, e la cura e l’educazione dei figli. Queste donne cercano sempre di costruire relazioni paritetiche con gli uomini, ma finiscono per essere fraintese perché considerate troppo forti e decise, troppo autonome, libere e disinibite da maschi che nascondono debolezze di cui non sono consapevoli o che non sanno gestire. Così, in “Anatomia di una caduta”, Sandra finisce per subire un processo, giudiziario e mediatico, che ha tutta l’aria di una caccia alle streghe. A partire dal personaggio del pubblico ministero che ricorda, per come è rappresentato nella messa in scena e per i modi e le parole con cui svolge la sua accusa, l’inquisitore in “La passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer (1928); fino alla reazione del pubblico stesso, che esce perplesso dalla sala, non convinto dell’innocenza della donna.
Nella sua opera Triet dispone un labirinto di citazioni che rivelano un grande amore per il cinema, da Bunuel, Godard e Truffaut a Otto Preminger di “Anatomia di un omicidio” – non solo per l’assonanza del titolo e il plot processuale –, ma si possono riconoscere anche alcune auto-citazioni, piccoli indizi che ci guidano nella comprensione dei suoi testi. Per esempio quando Sandra afferma la propria innocenza in uno dei dialoghi con l’avvocato, l’esclamazione “stop” ricorda il personaggio della regista che la stessa attrice interpretava in “Sibyl”, ma funziona anche come metafora del cinema stesso.
C’è molto lavoro di scrittura e di messa in scena nell’opera di Triet, e ci sono dei motivi ricorrenti, temi che interessano la regista e che ritornano nei vari film. Come per esempio il rapporto genitori- figli, le relazioni uomo-donna e quelle tra donne, il ruolo degli animali domestici quali muti testimoni delle azioni umane, il problema dell’ispirazione degli scrittori eccetera. Il tema della scrittura, per esempio, molto presente in “Anatomia di una caduta” si può ritrovare anche in “Sibyl”, film scritto tra l’altro con lo stesso Harari. Ma se in quel caso la tensione narrativa si dipanava intorno all’ossessione per la scrittura della protagonista, nel film più recente è il blocco di Samuel a fungere da perno intorno a cui si avvolge l’intreccio che preesiste alla sua morte a partire proprio dal momento più drammatico: l’infortunio di Daniel.
“Anatomia di una caduta” è un film denso di trame e di senso che, come si è detto, catalizza i pregiudizi più intimi, quelli che non si credeva di avere, mette in luce un sessismo sottile e diffuso, costringe a ripensare il proprio posizionamento.
La regista è abile nel costruire una tensione che non si allenta, neppure dopo la testimonianza di Daniel, perché la risoluzione non può che emergere dallo spettacolo stesso (il film come spettacolo/metafora del processo alla strega). Il resto dipende dai modelli che influenzano le nostre opinioni, quelli per cui a qualcuno risulta più difficile credere alle parole di una donna e di un bambino vivi che all’immagine ideale di un uomo morto.

Justine Triet, Anatomia di una caduta, Francia, 2023, 150’

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Micaela Veronesi

Storica e critica del cinema, mi occupo di ricerca negli ambiti del cinema muto, della storia delle donne e della produzione cinematografica femminile, del linguaggio cinematografico e dei rapporti fra cinema e storia. Ho pubblicato le monografie Le soglie del film. Inizio e fine nel cinema (Kaplan, 2005) e Il cinema arte dei corpi (con Francesca Brignoli, Unicopli, 2019) e numerosi saggi in riviste e volumi miscellanei. Collaboro a vari periodici tra cui «Segnocinema» per il quale ho curato alcuni numeri monografici. Ho partecipato al progetto internazionale Women Film Pioneers. Mi occupo di progettazione in ambito culturale e tengo laboratori di pratiche di scrittura. Ho fatto la bibliotecaria e ho diretto una cooperativa culturale per diversi anni. Insegno nella scuola secondaria e mi occupo di didattica, comunicazione e progettazione per l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza.

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