Due donne, una madre e una figlia, si tengono abbracciate su una spiaggia in riva al mare. È l’ultima scena del film Jane by Charlotte che Charlotte Gainsbourg ha dedicato a sua madre Jane Birkin, morta nel luglio scorso. Un film, candidato nel 2023 al premio César, nato dal desiderio di avvicinarsi alla madre e di guardarla come mai aveva osato fare per via di una timidezza provata fin da bimba quando Jane le appariva, nella sua bellezza e nel suo mistero, inaccessibile come una dea. Jane by Charlotte è dunque il viaggio di una figlia verso la madre e al contempo – ha dichiarato Charlotte – verso se stessa che sentiva il bisogno di capire non solo quale era il suo posto nella vita di Jane ma anche nel mondo. Tornare alla madre per orientarsi e ritrovare, nella relazione con lei, il senso del proprio essere donna, madre, artista.
Il viaggio (durato quattro anni compresi i due della pandemia) è iniziato nel 2017 a Tokio dove Charlotte, che allora viveva a New York, aveva seguito la madre per riprendere un suo concerto e una lunga intervista in una veranda affacciata sugli alberi. Ma, su richiesta della madre, si era interrotto. Nel 2014, Charlotte traumatizzata dalla tragica morte della sorella Kate Barry (caduta sei mesi prima dal quarto piano del suo appartamento a Parigi), era praticamente fuggita a New York con la famiglia lasciando la Francia e abbandonando la madre. Per salvare se stessa, proteggere il figlio e le figlie, cercare un nuovo equilibrio. Ma la madre le mancava ed era inoltre tormentata dal senso di colpa. Sapeva quanto quel distacco la facesse soffrire.
A Tokio, dopo tre anni di distanza e di silenzi, Jane si era sentita spiazzata dal desiderio della figlia Charlotte di starle vicina e di passare del tempo con lei. Non capiva e la diffidenza è durata finché Jane non è andata a New York: e lì, madre e figlia, hanno guardato le scene girate in Giappone e che la stessa Charlotte non aveva più guardato. L’insieme era davvero bello, emozionante, sorprendente, tanto da far dire a Jane, “possiamo ricominciare a lavorare”. Autorizzata dalla madre e certa della sua fiducia, Charlotte si è così rimessa in viaggio verso di lei e, accompagnata da Jo la sua figlia più piccola, l’ha raggiunta a Lannilis, nel dipartimento del Finistère in Bretagna, dove si trova la splendida casa di Jane. Alla nonna, Jo ha portato in dono dei semi da piantare in giardino.
Una grande casa stracolma di oggetti, un giardino quasi allo stato selvaggio, la spiaggia e il mare sono gli spazi che madre, figlia e nipote condividono passeggiando, parlando, scherzando, cucinando e dove il dialogo tra madre e figlia si fa più intenso e commovente. Jane racconta di sé: l’infanzia e la giovinezza, l’amore felice e folle con Serge Gainsbourg, le tre amatissime figlie (ciascuna con un padre diverso): Kate, Charlotte, Lou; la sua fiducia nella vita e nella gente, il suo sentirsi parte di un tutto. «Le cose sono emozionanti», dice.
Jane racconta i suoi sensi di colpa, le angosce, la malattia, la vecchiaia e il dolore, devastante, per la morte di Kate e dal quale non si è mai ripresa. Charlotte ascolta la madre e la guarda e più la guarda più sente di essere davanti a una donna eccezionale. E di quella donna che è sua madre, Charlotte ha voluto mostrarci non soltanto gli smarrimenti e le sofferenze ma anche la grazia, la leggerezza, l’ironia, l’audacia e quel suo essere completamente caotica. Perché Jane nella vita così come nella sua casa accoglie, raccoglie e mescola tutto (emozioni, sentimenti, creatività, persone, animali, oggetti), non butta via niente.
Un caos con cui, Charlotte, pensava di non avere nulla a che fare. Si era convinta, fin da ragazzina, di assomigliare moltissimo al padre, Serge Gainsbourg: puntuale, rigoroso, controllato. Ma col passare degli anni si è invece felicemente scoperta simile a Jane. Nel modo naturale e gioioso con cui lei stessa e sull’esempio materno è diventata madre (di Ben, Alice, Jo); e per uno stile di vita altrettanto caotico: arrivare tardi agli appuntamenti, perdere un aereo, stipare nelle borse le cose più svariate, tenere insieme i molteplici strati della sua vita. E nel non buttare via niente. Quando suo padre è morto ha conservato anche dei post-it dove lui aveva annotato qualcosa e gli scontrini dei ristoranti dove aveva mangiato. Nell’ingresso della casa di Jane a Lannilis, c’è una piccola e malandata griglia per il barbecue ed è ciò che resta di un caminetto che Serge le aveva regalato e dal quale lei non riesce a separarsi.
Jane, il suo caos e il mare che nelle scene finali del film è parte di lei, mi riportano alla mente la dea babilonese Tiamat, prima incarnazione liquida della madre, signora del Chaos originario che non è disordine (come ci insegnano a scuola), ma mescolanza amorosa degli elementi che si generano nelle sue acque salate e di cui ci parla Barbara Verzini in La madre nel mare. L’enigma di Tiamat. E penso a Charlotte bambina che in sua madre vedeva una dea.
Jane cammina in riva al mare, ascolta dall’auricolare la dichiarazione d’amore della figlia: «ti amo, ti ho sempre amata/…/ Perché impariamo a vivere senza le nostre madri? Sembra quasi uno scopo che ci diamo: liberarci di loro ad ogni costo».
Ma, come ci viene mostrato in Jane by Charlotte, mai una figlia, qualsiasi vicissitudine abbia attraversato nel rapporto con la propria madre (ambivalenze, conflitti, rotture, ribellioni) può recidere il legame con colei che le ha dato insieme la vita e la parola. Charlotte ne è consapevole e lo sa a partire da sé, dalla propria esperienza di figlia e di madre e lo sa Jane che le dice: «Trovo che sia una grande fortuna avere delle figlie che ritornano: con le loro storie, i loro amori, i loro figli e non importa quale sia la loro età. Tornano sempre e questa è una gioia immensa».
Jane ascolta le parole della figlia e la voce di Charlotte si confonde a tratti con il rumore delle onde che si infrangono sulla riva. «Al mio stato attuale, ho bisogno che tu mi insegni a vivere, che mi insegni di nuovo, come se prima non avessi capito, come se fosse una ripetizione».
Tornare alla madre per ritessere insieme a lei, come in un nuovo inizio, il filo prezioso del bene che Jane, fin dalla nascita, le ha donato. A lei, a Kate, a Lou, figlie desiderate, amate, ammirate. Basta leggere i diari di Jane Birkin, Munkey e Post-Scriptum (Edizioni Clichy) per capire quanto le figlie siano sempre state al centro di una vita così straordinaria, complessa, eccentrica ma sempre orientata – anche nei periodi più cupi e dolorosi- dal bene.
Presentando Jane by Charlotte in Paesi dove né lei né Jane sono famose, Charlotte si è resa conto, dalle emozioni che suscita, che questo film così intimo e personale parla in realtà a tutte le figlie e a tutte le madri. E questo accade, secondo me, per la sua verità e la sua naturalezza. Non ci sono artifici, non ci sono finzioni. Jane e Charlotte stanno una di fronte all’altra e, con coraggio e sincerità, si confrontano sul mistero, la bellezza e la difficoltà di essere figlie e di essere madri. Un confronto che tiene insieme passato e presente e una molteplicità di sensazioni: gioia, tenerezza, nostalgia, ironia, inquietudine, dolore. In un mirabile dosaggio di delicatezza, attenzione, eleganza.
Voltandosi con la videocamera verso colei che era là fin dall’inizio e superando un innato pudore ereditato proprio da Jane, Charlotte è ora libera di dichiararle, con parole vere e struggenti, il suo amore. Parole che Jane ascolta commossa sulla spiaggia dove infine Charlotte la raggiunge per stringerla a sé e ritrovare, nel contatto con lei, il calore e la tranquillità di cui ha bisogno.
Le scene finali del film sono bellissime: la piccola Jo corre tra le dune, l’immensa spiaggia bianca, il volto di Jane, la voce di Charlotte, e poi l’abbraccio tra madre davanti all’infinito ed eterno fluire delle onde del mare.
PASSAPAROLA:








Giuliana Giulietti

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