Sarfatti non è stata solo l’amante di Mussolini. Dopo decenni, si studia la sua intensa figura di critica d’arte e di giornalista. Ora anche Micol Sarfatti, sua pronipote, le ha dedicato una biografia edita da Perrone. LM l’ha intervistata
di Beatrice Sciarrillo
“Dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna”. Chi non conosce questo proverbio? La sua origine è incerta: alcuni la attribuiscono a Virginia Woolf, altri la ritengono ben più antica, a un proverbio latino che diceva: “Dotata animi mulier virum regit”, cioè “Una donna provvista di coraggio (di spirito) sostiene e consiglia il marito”.
Partendo dal presupposto che ogni donna per essere “grande” non ha bisogno di stanziare nell’ombra di un uomo “grande”, sarebbe più corretto dire che, nei secoli precedenti al nostro, spesso dietro il progetto politico-culturale di un uomo c’è stata la mente di una donna. È il caso di Margherita Sarfatti, per lungo tempo unanimemente ridotta a “amante di Mussolini”, ma in realtà vera e propria ideatrice del primo fascismo. E capace inoltre di individuare in lui, conosciuto nel 1912 nella redazione dell’Avanti!, l’homo novus, l’uomo del futuro, colui su cu lei, donna che non poteva fare politica in prima persona, ha puntato per immaginare un cambiamento.
Nata l’8 aprile del 1880 a Venezia, si sposa con Cesare Sarfatti, avvocato ebreo con il quale presto si trasferisce a Milano. La coppia anima la scena culturale e ha rapporti con i più importanti esponenti della vita sociale e culturale dell’epoca, da Filippo Turati a Gabriele D’Annunzio, da Matilde Serao a Eleonora Duse. Ancora giovanissima, Margherita Sarfatti inizia la sua collaborazione per testate come Il secolo nuovo, Avanti!, Il Tempo, L’unione femminile, e fin da suoi primi articoli Margherita applica alla critica artistica la sua idea che l’arte non è mai fine a sé stessa. Nei primi anni Venti dà infatti vita al gruppo Novecento per riportare ordine nel caos politico del primo dopoguerra attraverso la pulizia e il vigore dei volumi della romanità classica.
È stata la storica dell’arte Rachele Ferrario, con la sua biografia Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista (Mondadori, 2015), a raccontarla togliendola dall’alcova mussoliniana e portando il discorso sul suo lavoro di critica dell’arte e di influente pensatrice della prima metà del Novecento. A partire da Ferrario, comincia un lavoro di riscoperta della sua opera con due mostre a lei dedicate, una al Museo del Novecento di Milano, l’altra al Mart di Rovereto.
A illuminare la storia più personale di Sarfatti arriva Margherita Sarfatti. La signora del futuro, lo pubblica Giulio Perrone e a scriverlo è un’autrice di eccezione, Micol Sarfatti, che è figlia del pronipote del marito di Margherita e giornalista e social media manager del Corriere della Sera.
Hai sei anni, tua madre invita a cena una parente lontana e le mostra un piccolo volume quadrato. Pagine piene di nomi, di pensieri, immagini, riflessioni. È un libro speciale perché, in copertina, è riportato il tuo cognome. L’autrice è infatti Margherita Sarfatti. Da quel momento in poi, le domande su di lei si affolleranno nella tua mente.
Quando la incrocio per la prima volta il ricordo mi si stampa in testa. Rimango affascinata, perché agli occhi di una bambina a cui piacevano le eroine come le protagoniste delle Piccole Donne sembrava di averne una in famiglia.
Ci sono altri suoi libri in casa, ma sono enormi e inaffrontabili per una bambina e quindi la fascinazione resta una suggestione. M’interesso a lei più concretamente negli anni del liceo dove mi capitava che qualche professore mi chiedesse “ma sei parente di Margherita Sarfatti?”. Io, anche per capire cosa rispondere, inizio allora a documentarmi su di lei. Poi comincio a nutrire il desiderio di diventare giornalista e il fatto che lei fosse stata giornalista mi intrigava.
Alla Facoltà di Lettere noto che si inizia a parlare sempre più di Margherita Sarfatti e m’impegno a leggere tutti i libri scritti su di lei. Nell’esame di storia dell’arte il suo nome riecheggia più volte in relazione al gruppo Novecento. Man mano la sua persona si delinea per me in modo sempre più chiaro: ci sono alcuni momenti in cui il suo essersi innamorata di un uomo come Mussolini, che la costringe a un finale molto triste con la morte della sorella nei campi di concentramento, mi fa quasi respingere la sua figura, mentre, più scopro di lei e della sua opera letteraria, più ne sono affascinata.
La grande riscoperta della sua figura arriva poi con i libri di Antonio Scurati e con le due mostre al Museo del Novecento di Milano e al Mart di Rovereto. In quell’occasione, anche su consiglio di Beppe Severgnini, allora direttore di Sette, dove lavoro, decido di scrivere un articolo su di lei e sono proprio le numerose reazioni a quell’articolo che mi spingono a scrivere questo libro.
Da chi sono arrivate queste reazioni?
Ho ricevuto lettere ed email di liceali come di signori novantenni che l’avevano conosciuta di persona. Una delle cose che mi ha colpito di più è stata l’email di due studenti universitari ventenni di Catania che avevano allestito uno spettacolo teatrale su di lei per un laboratorio universitario. E poi una classe di liceo a cui la professoressa, in occasione della mostra a Milano, aveva raccontato la sua figura e alcuni di loro erano rimasti folgorati. Altri docenti mi dicevano di aver fatto una deviazione dal programma per raccontarla. Queste reazioni inaspettate hanno costituito una grande miccia perché in quel momento capii che nei suoi confronti c’era finalmente un interesse che andava oltre la sua relazione con Mussolini.
Scrivere di lei è stato anche un modo per cercare di trovare il perché una donna così intelligente avesse nutrito una “passione sbagliata”?
Il libro è stato un viaggio con me stessa in quanto giovane donna di oggi che si confronta con una donna di un secolo fa ed è stato un viaggio tra me e lei nel cercare una motivazione di questo suo amore. Ovviamente non posso dare una risposta certa ma penso che, nella sua passione, ci fossero tante motivazioni. In un primo momento, Margherita è interessata a conoscere Mussolini in quanto giovane rampante politico. Lei è molto attratta dalla politica, ma sa che, per respirare in quel mondo, deve limitarsi ad appoggiare e seguire le carriere degli uomini. Poi sicuramente c’è una componente di attrazione: quando si conoscono lui ha 29 anni e lei 32, sono due giovani che hanno interessi e passioni comuni e si piacciono.
E poi, più avanti negli anni, è probabile che Margherita Sarfatti abbia trovato nella sua relazione con Mussolini la ragione per reagire ai dolori della vita: perde un figlio giovanissimo durante la prima guerra mondiale, evento traumatico che la spinge a diventare interventista al fianco di Mussolini. E poi nel ‘24 muore improvvisamente anche il marito.
Margherita non è stata certamente l’unica intellettuale in Italia a non aver compreso cosa il fascismo poteva diventare. E non è neppure l’unica ebrea ad appoggiare il fascismo nella sua prima fase, per esempio Aldo Finzi fu un militare ebreo che, dopo aver marciato su Roma, morirà nei campi di concentramento. Oggi sento di aver chiuso i conti con Margerita perché ho abbracciato tutta la sua complessità di intellettuale e di donna con grandi desideri e passioni.
Scrivere di Margherita Sarfatti significa anche esplorare le città che ha abitato. Cosa significavano per lei Venezia, Milano, Roma, e cosa significano per te?
Attraverso la scrittura di questo libro ho cercato di andare il più possibile nei suoi posti perché i luoghi sono fondamentali nelle biografie, noi siamo i luoghi che abitiamo e nel suo caso hanno un valore fondamentale perché vive quelle città da protagonista.
A Venezia sarà sempre legata e grata. È la città in cui nasce e cresce anche culturalmente. Margherita Sarfatti proviene da una famiglia ebrea alto-borghese e capitalizza i privilegi economico-culturali di cui gode e le relazioni del padre. Ricercarla a Venezia è stato molto bello, perché anche mio papà, venuto a mancare quando io ero piccola, era di Venezia. Inoltre, la scintilla per questo libro è scattata proprio lì: nel 2019 in occasione della Biennale d’Arte a Palazzo Bembo, dimora in cui Margherita è andata a vivere appena sposata. Mi sono molto emozionata a entrare in quelle stanze e lì ho iniziato a concretizzare l’idea di scrivere questo libro.
E Milano?
Con lungimiranza, a vent’anni, ma già sposata e madre di un primo figlio, Margherita vuole trasferirsi a Milano perché capisce che è una città culturalmente all’avanguardia ed è lì che costruisce la sua carriera lavorativa. Io stessa lavoro a Milano e la prima casa in cui lei va abitare, in Via Brera di fronte all’Accademia d’arte, è a pochi passi dalla redazione del Corriere della Sera dove vado tutti i giorni. C’è poi Palazzo Serbelloni in Corso Venezia, la seconda casa in cui dà vita al suo celebre salotto: a pochi metri c’erano le case di Marinetti e Mussolini. Inoltre, c’è la Milano vecchia di Porta Ticinese dove si incontrava clandestinamente con Mussolini. E poi c’è il Teatro Manzoni dove insieme vengono a sapere che è iniziata la marcia su Roma.
A Roma arriva infine negli anni ’30, vedova, quando la relazione con Mussolini inizia a incrinarsi, ma lei è ancora la protagonista della scena culturale. In particolare, la città è la metafora della sua idea d’arte perché l’idea della romanità, del ritorno a un classicismo che segna tante città italiane e che è una caratteristica del primo fascismo, in realtà è stata una sua idea.
L’ultimo capitolo del libro è un dialogo emozionante tra te e Margherita sulla sua tomba, a Cavallasca sul lago di Como.
Con il marito acquistano una casa a Cavallasca dove erano soliti invitare molte e molti intellettuali dell’epoca. Nella parte finale della sua vita, quello è il luogo in cui si rifugia, muore e viene sepolta. E, per una serie di coincidenze, io sono nata proprio sul lago di Como.
Dove possiamo trovare gli scritti di Margherita Sarfatti?
Il solo suo scritto abbastanza facilmente reperibile è Dux, una biografia su Mussolini del 1925, che poi lei rinnegherà e che non è francamente una delle sue opere migliori. Gli altri scritti sono molto difficili da reperire se non impossibili. L’opera sua che più mi piace è Acqua passata, un memoir del 1955 in cui ripercorre tutta la sua vita, omettendo però la relazione con Mussolini, ma raccontando tutti i suoi incontri straordinari, da Guglielmo Marconi con cui gioca da bambina a Roosevelt con cui prende il tè in America. Questo memoir sarebbe bello rivederlo pubblicato.
Si può inoltre sapere molto di lei con la biografia di Rachele Ferrario, che ha fatto un enorme lavoro; poi con i libri di Antonio Scurati e di Aldo Cazzullo. Inoltre c’è tutta la sua eredità artistica, dagli articoli di critica d’arte pubblicati sui giornali del tempo ai cataloghi delle mostre. A chi vuole conoscerla consiglio di andare al Mart di Rovereto dove c’è un fondo a lei dedicato e un archivio in cui sono conservate le sue lettere.
Qual è la più grande lezione che hai imparato da Margherita Sarfatti?
Sicuramente la sua grande capacità di darsi gioia sempre che è secondo me una cosa molto bella. È una donna che ha una vita straordinaria, ma anche segnata dalla tragedia del figlio e della sorella morta nel Lager. In questa vita di luci e ombre, lei ricomincia sempre. Anche quando è in esilio in Argentina, continua a scrivere, un romanzo, poesie, nuovi saggi di storia dell’arte, tiene conferenze. Quando torna in Italia e nessuna la vuole più, si ricrea il suo salotto, osserva i cambiamenti del paese nel secondo dopoguerra. Un dettaglio che dà conto della sua vitalità è che, il giorno in cui muore, sul comodino ha un biglietto del treno per Milano.
Micol Sarfatti, “Margherita Sarfatti. La signora del futuro”, Giulio Perrone editore, 2023
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Beatrice Sciarrillo

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