La filosofa guastafeste

Clotilde Barbarulli, 05 settembre 2023

Noi femministe non possiamo essere grate e felici – scrive Sara Ahmed – per un sistema che vuole inglobarci, quando è formato da ineguaglianza e violenza. Ma se denunciare iniquità e potere, significa diventare un ostacolo che intralcia la presunta felicità altrui, come femministe non dobbiamo temere: “guastare la festa è nelle nostre possibilità e lo facciamo”

  Di Clotilde Barbarulli

Nel lontano/vicino 2008 Liana Borghi, che già aveva parlato nel 2007 di Sara Ahmed, la invitò alla Scuola estiva di Raccontar/si, dopo aver tradotto alcuni suoi brani per preparare chi partecipava all’ascolto. E il 3 maggio la studiosa affascinò tutt* riflettendo su Multiculturalismo e la promessa della felicità a partire dal film “Sognando Beckam”, sul calcio come possibilità di inclusione, di adeguamento ai paradigmi del sistema. Nel 2020 il collettivo di traduzione transfemmnista LesBitches ha messo in circolazione il “Killjoy Manifesto”, e nel 2021 è uscito Vivere una vita femminista nella collana àltera diretta da Liana e Marco Pustianaz, traduzione curata da Marta D’Epifanio, Bea Gusmano, Serena Naim, Roberta Granelli. Ora escono questi due importanti libri. 

Per le traduttrici del 2021 è la volontà politica che le ha spinte a realizzare la traduzione “in maniera collaborativa”. Fare le traduttrici guastafeste (Scarmoncin) sovvertendo gli usi e i costrutti discriminanti della lingua, vuol dire ricreare il mondo secondo l’invito di Ahmed. Se l’autrice è interessata ad una lingua che apra, la traduzione deve considerare anche i tanti strattagemmi retorici usati, facendo attenzione in particolare al campo degli affetti e delle emozioni (Arfini e Baldo). Va così sottolineata l’importanza di queste traduzioni come frutto di una pratica affettivo-politica, all’interno di un percorso di incontri e discussioni di reti transfemministe che hanno diffuso e rafforzato l’interesse per gli “immaginari alternativi” dell’attivista e teorica femminista.     

Nel suo blog Ahmed si definisce “scrittrice femminista e studiosa indipendente: la mia ricerca riguarda come prendono forma corpi e mondi, e come il potere è assicurato e sfidato nella vita quotidiana come nelle culture istituzionali”. Si è licenziata nel 2016 per protesta verso il modo in cui  il Goldsmiths College di Londra, dove insegnava,  gestiva il problema delle molestie sessuali. 

Di fronte all’apparente facilità di distogliere lo sguardo da ciò che ti rende infelice, Sara Ahmed – a partire dal suo posizionamento di lesbica brown e femminista – contesta l’imperativo neoliberale e colonialista della felicità, quell’ordine della società relativo ai cosiddetti buoni e cattivi sentimenti che intrappolano i corpi delle donne al di là della loro volontà. Vivere una vita femminista, quindi, non vuol dire vivere bene all’interno di un mondo che non ha gli stessi principi. Noi femministe non possiamo essere grate e felici – sottolinea Ahmed – per un sistema che vuole inglobarci, quando questo è formato da ineguaglianza e violenza. Le istituzioni affermano di fondarsi su promesse di felicità, promesse che nella maggior parte dei casi nascondono la vera violenza dell’istituzione stessa. Le femministe killjoy perciò denunciano la centralità violenta della famiglia, della coppia, della riproduzione come base per una vita considerata giusta. La filosofa tematizza infatti gli aspetti legati alla costruzione storica e sociale delle emozioni, evidenziando come l’orizzonte politico della felicità e la sua promessa devono leggersi all’interno di una tecnologia-produzione della soggettività, in grado di orientare i desideri verso alcuni oggetti (famiglia, bambini), alcuni stili di vita (monogamia), alcune narrazioni (cittadinanza, matrimonio).

L’attesa della felicità, infatti, ci consegna specifiche immagini sul futuro e il giudizio su alcune cose buone non solo precede il nostro incontro con le cose, ma ci dirige verso le cose stesse: l’orientamento risponde ad un mandato politico e sociale verso alcuni orizzonti di socialità. Ahmed elenca tre casi di studio chiave – “la femminista guastafeste”, “il queer infelice,” e “il migrante melanconico” – per far emergere l’aspetto sociale di costruzione della felicità. Questi, insieme alla narrativa, forniscono un ricco archivio culturale che le consente di individuare il divario tra la felicità promessa e la realtà perturbata dagli oggetti che la promettono. Ripercorre così testi ed immagini relative ad alcuni topos normativi, soffermandosi sulla figura della casalinga felice: la narrazione romantica per molto tempo è servita a presentare il matrimonio come una relazione non-economica e a codificare il lavoro domestico gratuito come non-lavoro, nascondendo i segni della fatica e della frustrazione. Perciò oltre ad assolvere la classica funzione ideologica di mistificare le relazioni di ineguaglianza, i discorsi dell’amore e della felicità hanno attirato l’attenzione critica delle femministe proprio per come mascherano le motivazioni e le utilità economiche. 

I saggi scelti del secondo volume  analizzano anche altre tematiche: il sessismo accademico, il femminismo radicale trans-escludente (Terf) dove “non può esistere alcun dialogo, quando alcune delle persone sedute al tavolo stanno in realtà discutendo dell’eliminazione di altre sedute accanto a loro”, il linguaggio della diversità che può essere usato dall’università per “promuovere se stessa, creando una condizione di felicità illusoria e superficiale”, le denunce per molestie all’università ascoltate solo dall’orecchio femminista di Ahmed, gli usi della parola queer, il sentirsi o meno a casa

S’impone con forza, in ogni saggio,  la femminista che si scopre guastafeste, se turba le usuali conversazioni “educate”,  attorno al tavolo di famiglia o in altri luoghi, dove i commensali costruiscono la complicità e il senso di comunità con battute razziste, sessiste, transfobiche, nazionaliste: abbandonando il posto “assegnato” si allontana così da quella comunità di cui non condivide la felicità “per le cose giuste”. Ma se denunciare iniquità e potere in un mondo che manipola la ‘diversità felice’, significa diventare un ostacolo che intralcia la presunta felicità altrui, come femministe non dobbiamo temere: “guastare la festa è nelle nostre possibilità e lo facciamo”. E questi libri sono, per usare un concetto di Ahmed, “testi compagni”, spazi di incontro, perché suscitano un momento di rivelazione in mezzo a un magma di ingiustizie e violenze, e possono spingere ogni Killjoy a mettere in discussione la direzione verso cui si sta andando: creando una pratica femminista, queer e antirazzista, danno forza a chi vuole continuare a essere una soggettività ostinata e ribelle al dominio. 

Sara Ahmed, La promessa della felicità. Trad di Amelia Popa-Rolando e Laura Scarmoncin, Sossella 2023;

Sara Ahmed, Un’altra cena rovinata. Saggi scelti. A cura di Elia A.G.Arfini e Michela Baldo. Prefazione e traduzione di Michela Baldo e feminoska, Fandango 2023.

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Clotilde Barbarulli

Clotilde Barbarulli collabora attivamente con associazioni quali il Giardino dei Ciliegi di Firenze, la Libera Università Ipazia, la Società Italiana delle Letterate. Si occupa di autrici contemporanee fra lingue e culture e di scrittrici '800/900. Tra le sue pubblicazioni: con L. Brandi, I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996); con M. Farnetti, Tra amiche. Epistolari femminili tra Otto e Novecento (2005); con L. Borghi Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (2003), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (2006), Il Sorriso dello Stregatto (2010)."Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella" (ETS 2010),

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