Una giovane donna nella Spagna del 2014 e una puritana inglese del Diciassettesimo secolo sono le protagoniste del vorace e multiforme “Cauterio”, romanzo dell’argentina Lucía Lijtmaer. Da Barcellona a Salem, passando per Londra e Madrid, l’autrice esplora la fuga di due protagoniste estremamente diverse
Di Amanda Rosso
“Soltanto il manto del tempo copre di una gloria inane e ridicola, di una gloria beata, tutte le donne che hanno sofferto. A cosa ci serve, una volta morte? Loro forse non si godono la gloria e i riconoscimenti in vita? Cos’è una donna a cui vengono concessi certi onori se non un coniglietto stupido a cui si accarezza il pelo morbido dopo avergli spezzato il collo?”
Lucía Lijtmaer, Cauterio
In principio, per guarire, c’era il fuoco. Non una dolce convalescenza, la morbidezza degli antidolorifici, la sommessa pace del riposo, ma il fuoco invocato dalle braci incandescenti e il metallo rovente come un rituale di tortura, fino all’apice quasi insopportabile. E poi la guarigione.
Il cauterio, lo strumento che dà il titolo al romanzo dell’argentina Lucía Lijtmaer, era uno strumento chirurgico utilizzato per curare le ferite tramite un doloroso processo di abrasione dei tessuti infetti. Nel romanzo, edito in Italia da Alter Ego Edizioni con la traduzione di Sara Papini, la parola «cauterio» compare tre volte: la prima quando una delle protagoniste, una giovane donna affossata dalla fine di una relazione che l’ha ridotta all’invisibilità, legge il blog Le Cronache del Cauterio e scopre l’esistenza di Deborah Moody, una puritana del XVII secolo che è stata la prima a tracciare la mappa di una città del Nuovo Mondo. La seconda volta alla stessa Deborah viene donato un cauterio dalla guaritrice-indovina che le ha predetto il futuro. La terza volta che il cauterio appare è per tracciare linee di possibilità.
Il romanzo si divide fra capitoli in numeri arabi e romani per raccontare le storie di una protagonista senza nome e la stessa Deborah Moody, nelle sue peregrinazioni dall’Inghilterra del 1600 al Nuovo Mondo.
Il tempo della narrazione si alterna fra (prima) e (adesso): prima, a Barcellona, una giovane racconta l’amore e la sua morte fra le piazze e le vie strette della città. Adesso, il suo fantasma si trascina nei luoghi poco famigliari di Madrid per sfuggire ai ricordi, le rusalke – demoni d’acqua con le sembianze di donne, «una sirena della mitologia slava che vive nell’acqua» – e visioni di distruzione.
Deborah Moody, sepolta in un terreno sabbioso e inospitale, tesse le trame del suo passato, la famiglia benestante, il matrimonio per amore con un arrivista che la tradirà e lascerà in rovina, e il viaggio dall’Europa al Nuovo Mondo, la terra vergine in cui compiere il suo destino di evangelizzazione.
La donna senza nome si nutre di visioni apocalittiche, tranquillanti e autodistruzione, «Avveleniamoci tutti insieme, diamoci dentro con questo rituale di gruppo, mettiamocela tutta, once more with a feeling. Ma non ci riesco. Al contrario, me ne vado a vivere a Madrid. Una cosa che comunque assomiglia abbastanza alla morte», mentre Moody ripercorre le tappe della sua emancipazione prima e caduta poi: «Cosa ci faccio qui sottoterra? Se mi hanno seppellito in verticale è perché nessuno ha reclamato il mio corpo. È perché sono maledetta».
Entrambe stanno sfuggendo a una rusalka, una sirena del passato che ha mostrato loro una vita possibile ma che poi è svanita, ed entrambe dialogano con un essere scostante e altezzoso che le ha abbandonate: l’una con Dio l’altra con l’ex compagno.
Lucía Lijtmaer immagina due personagge estremamente incompatibili, per fede, ceto, epoca e provenienza, ma infonde in entrambe battaglie senza tempo, non per primeggiare ma per sopravvivere. Se a Barcellona e Madrid una si consuma e si trascina alla ricerca di un sé sepolto da una relazione vampirica, in Inghilterra e poi a Salem, l’altra tenta di comprendere come la sua identità di donna puritana possa coniugarsi con il desiderio di sicurezza economica e indipendenza. Deborah Moody, si legge su Le Cronache del Cauterio, è «La prima donna a fondare una colonia. Realizzò la prima piantina di una città nel nuovo mondo».
La follia come terrore scandisce le vicende del romanzo: gli sguardi persi, i corpi deformati da ripetute gravidanze, dal lavoro e la fatica, la solitudine e l’attesa costante della punizione, divina e terrena delle donne nella colonia di Moody, restituiscono uno sguardo senza tempo alla donna che si sta consumando in appartamenti condivisi, fra lenzuola non lavate, alcool e amplessi di cui non ricorda nulla. La violenza degli uomini che le circondano è subdola, intrecciata all’ordito di società progettate per nascondere corpi e menti delle donne non conformi. L’amore, una bomba a orologeria piazzata senza cautela in grembo alle donne. La bellezza, una maledizione e una colpa, un’aspirazione senza tregua: «Tanti anni passati a misurarmi in maniera ossessiva i fianchi, quei cumuli di grasso che si depositavano, uno sopra l’altro, sul mio addome, me li sarei strappati via se solo fosse stato possibile. Le vomitate, i lassativi, il castigo». Le altre donne, infine, vittime, carnefici, di rado compagne. Deborah Moody e Anne Hutchinson, la donna senza nome e la migliore amica del liceo Victoria, unite da progetti condivisi e sogni destinati a essiccarsi nella siccità portata dalle aspettative e i ruoli di genere: «Victoria non ti dava un’amicizia: ti offriva un’identità completa, ermetica, sicura. Aveva sempre tempo e amore per tutti. Victoria era il nostro Gesù Cristo, da cui andavamo in processione».
Nel suo romanzo Lucía Lijtmaer scrive di donne spezzate, protagoniste di un viaggio che non è un approdare consolatorio alla meta finale, la pace coniugale o l’amore verso se stesse. Rifiuta di incapsulare queste donne in un percorso destinato alla rovina o alla salvezza, ma analizza chirurgicamente l’intersezione fra ruoli di genere, monogamia, aspettative sociali e narrazione del dolore e della sconfitta. Alle donne è concesso essere vittime o carnefici, e il perdono e la comprensione, anche dei crimini più efferati, è ciò che ci si aspetta dalle sopravvissute.
Dalle protagoniste di Cauterio la società si aspetta un dolore privato, una lotta silenziosa e aggraziata, un percorso che non scomodi né esiga di confrontarsi con ciò che di sbagliato c’è nella struttura sismica delle nostre relazioni. Ma Lijtmaer non indietreggia di fronte alla necessità di rivelare le ipocrisie intrinseche alle relazioni, sia quelle “paritarie” della contemporaneità che quelle “sbilanciate” di una colonia nordamericana del diciassettesimo secolo. Il compagno della giovane donna in fuga da Barcellona è un uomo che agita in aria la bandiera del femminismo mentre nell’intimità si fa servire: «Un giorno vengono i tuoi amici, parlate della potenza femminista del nuovo partito mentre io vi servo l’aperitivo», e i leader religiosi e politici puritani manipolano le poche donne che ritengono intellettualmente accettabili per badare a tutte le altre, salvo poi punirle per aver osato pensare per sé: «Noi donne finiamo sempre per essere un esempio, Signore, le Scritture parlano chiaro. Non esiste donna reale in Sara, Agar o Abigail. Servono soltanto per una causa, proprio come me in quel momento».
Le vittime, che così comodamente si sistemano negli anfratti di categorizzazioni precise e confortevoli, sono invece in Cauterio spesso crudeli, scostanti, egoiste: «calcolatrice: così mi aveva scolpito mio marito tradimento dopo tradimento e così sono diventata». Le donne che abitano le pagine di Lijtmaer rifiutano la pacificazione e il silenzio, per esondare da ogni pagina sgraziate, oscure, talvolta fastidiose e insensatamente maligne, ma reali, ritratte con uno stile viscerale, immaginifico e pungente, che la traduzione di Papini ha saputo rendere nel ritmo e nelle inflessioni della lingua metamorfica dell’autrice.
Attorno a loro aleggia la foschia dolciastra di sistemi che si creano e distruggono sulle spalle di chi è vulnerabile: la città come prigionia e possibilità è un nodo centrale della narrazione. Barcellona, Madrid, Salem, sono le co-protagoniste di una saga secolare che vede le donne e le mura entro cui sono confinate a danzare un passo a due macabro e inarrestabile. Se la vita da vedova in una colonia nordamericana di Deborah Moody la libera dagli obblighi riproduttivi e di cura tipici del suo tempo, la città che circonda la protagonista senza nome è un labirinto di feste, gaiezza, cementificazione ed esclusione che depaupera i luoghi delle loro storie e le rimpiazza con slogan pre-masticati e aspirazioni irrealizzabili.
L’amore e la fede, per un uomo e per Dio, vengono scandagliati senza retorica da una penna feroce e ironica che si destreggia fra sentimento e istituzione, palpito e violenza, abuso e vendetta.
Con Cauterio Lucía Lijtmaer si unisce al coro di scrittrici che raccontano l’oscurità delle donne senza beatificazione, e rivendicano il diritto di reclamare per se stesse risposte complesse alla sofferenza, la sconfitta e la sopravvivenza al trauma, sviscerando le ipocrisie delle relazioni intime come private e intoccabili – che deresponsabilizzano la collettività – per ripensare le relazioni, i ruoli e gli spazi come organismi multiformi in costante divenire.
Lucía Lijtmaer, Cauterio, traduzione di Sara Papini, Alter Ego Edizioni, 2023, Viterbo
PASSAPAROLA:








Amanda Rosso

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