Bambole che parlano di morte

Chiara Cremaschi, 16 giugno 2023

Studiosa bibliologica, specializzata in studi sulla Sindone e sul lutto nel Sud Italia, Simona Pedicini, che è anche tanatoesteta, esordisce con un romanzo sorprendente ambientato in un mondo che immaginiamo, invisibile animato da morti, fantasmi, apparizioni, visioni. E scrive di amore, di cura, un dialogo che è sia in vita che in morte

di Chiara Cremaschi

“Morte per grazia ricevuta” è il romanzo d’esordio di Simona Pedicini.

È un libro che colpisce per la naturalezza con cui si parla della morte e del suo stretto legame con la vita. L’autrice studia e pratica questo rapporto da molto tempo: si è laureata in Letteratura Latina Antica Greca e Latina con una tesi sulla figura dell’Anticristo, ha conseguito una specializzazione in Studi storico-religiosi e antropologici sulla morte e il lutto nel Sud Italia, in Studi sulla mistica femminile di epoca barocca e sulla Storia dell’anatomia su corpo femminile sempre di epoca barocca. Ha inoltre incentrato le sue ricerche sulla Scienza bibliologica cinque-seicentesca e sulla Storia della Tanatologia con particolare interesse per il rapporto tra Chiesa, fine vita e storia della medicina in epoca controriformistica approfondendo l’analisi della storia della dissezione su corpo sacro femminile. È specializzata in Studi sulla Sacra Sindone. Lavora come tanatoesteta, tanatoprattore, cerimoniere funebre, svolgendo inoltre per privati e agenzie di pompe funebri corsi di formazione in tanatoestetica e in cosmesi funeraria.

Pedicini costruisce un racconto potente, che, inevitabilmente, esorta chi legge a chiedersi che relazione abbia con le persone amate che non sono più vive, come e se parla con loro, e perché della morte, apertamente, non si parla.

«Nennè, nun perde tiempo cu’ ’ste domande». È questa la risposta che donna Elvira Capasso, sposata Ruggiero, dà alla figlia Sofia, prima ancora che questa pronunci parola. Si riferisce ai “servizi” che lei e le sue sorelle – e tutte le donne Capasso prima di loro – compiono per i morti. E io mi sono sentita un po’ come Sofia, nel pensare a questo libro, in cui accadono vicende potenti sulle quali, spesso, viene chiesto di tacere. La tua scrittura invece scava, con precisione, nella storia e nei vissuti. Si sente l’esigenza del raccontare. È un dialogo continuo tra viventi e fantasmi, e i fantasmi non sono necessariamente i morti. Come hai iniziato a scrivere il libro?

È il libro che ha iniziato a scrivermi l’animo quasi si fosse impossessato di me.

È accaduto a un certo punto della mia vita, in quel punto in cui sono accadute vicende significative, di dolore e di dolcezza, di vita e di morte. È accaduto di colpo, come spesso succedono le cose che non ci si aspetta che succedano e che per questa ragione stupiscono. È stato uno stupore pur essendo sempre stata la scrittura nella mia vita e pur essendo sempre stata io della scrittura. È stata come una presenza quotidiana, una sorta di fantasma che per tutti i giorni dei tre anni di composizione del romanzo, ha volteggiato intorno a me, dentro di me, acquisendo una fisionomia sempre più precisa.

La mancanza d’amore e d’affetto è uno dei temi principali del romanzo. Eppure, anche nella sofferenza, le donne danno cura e gli uomini violenza. La tua Sofia lo racconta così: «Io e mia madre non avevamo la vita per essere belle, avevamo la morte. Qui nessun Domenico Ruggiero, nessun padre o marito prima e dopo di lui poteva entrare. Io e mia madre avevamo la cura delle femmene di malammore che la morte rendeva libere da quegli uomini, da quel Dio che a loro avevano imposto vite e corpi. Eravamo tutte femmene di malammore. Eravamo tutte libere e belle nella morte». La cura è una condanna o una scelta?

La cura, sia essa dei vivi o anche e soprattutto dei morti, dell’anima come dei corpi, è una scelta. Ogni gesto che le protagoniste, molto più che i protagonisti, di “Morte per grazia ricevuta” compiono è una scelta. Non c’è rassegnazione, non c’è vittimismo. Ci sono volontà di felicità, affermazioni di identità di genere, grida di ribellione anche quando a quelle grida viene tolta la voce. Le protagoniste del romanzo sono “tutte libere e belle nella morte”.

Sono raccontati nel dettaglio abiti, trucchi e acconciature che vestono e travestono, profumi. Ma la mia impressione è che sono i piedi, scalzi o calzati con le scarpe, e la descrizione delle scarpe, che mettono il segno indicativo a personagge e personaggi. È la parte del corpo che ho trovato più illuminata.

Ho voluto che tutti i personaggi del romanzo fossero protagonisti della propria vita e delle vite di coloro nelle cui esistenze entravano o solo sfioravano. Ho voluto che tutti gli oggetti di “Morte per grazia ricevuta” fossero protagonisti e non simboli, ogni oggetto con un’anima, con il proprio linguaggio fatto di suoni, di colori, di apparizioni e di sparizioni. Così è per la polvere, per la luce, per i mobili, così è per le scarpe che con il colore bianco o nero, con il rumore che producono, con l’odore che emanano dichiarano i propri sentimenti di libertà o di costrizione, di ribellione o di autorità patriarcale. E questo succede per le scarpe dei vivi come per quelle dei morti, perché il dialogo è sia in vita che in morte, ed è fra vivi e morti.

La precisione è anche nella descrizione di Napoli, nei nomi delle vie, delle piazze, , nella lingua dei dialoghi. Perché hai scelto questa città? Come hai costruito la lingua?

Napoli è un luogo geografico, un luogo culturale e dei sentimenti; un luogo in cui la meraviglia architettonica e il buio dei vicoli si accompagna alla meraviglia e al buio dell’anima. È lo spazio fisico e mentale della coesistenza e della conciliazione degli opposti: è barocca e degradata, è colta e popolare, è realtà e sogno. Solo a Napoli avrei potuto ambientare la trama delle passioni umane del romanzo che hanno il contraddittorio come loro contrassegno, che sono vive nella morte e morte in vita, misteriosamente tragiche e liete nello stesso tempo. Per quanto riguarda la lingua, il romanzo nasce come omaggio ai padri del teatro napoletano post eduardiano, come omaggio a Manlio Santanelli, ad Annibale Ruccello, a Enzo Moscato. Dallo studio dei testi di Moscato nasce la lingua di “Morte per grazia ricevuta”, dal suo napoletano che attinge ai bassifondi della lingua e alla sua tradizione più alta, che attinge alla canzone napoletana come ai testi barocchi di Basile, che prende dalle lingue straniere quali l’americano e lo spagnolo e dalla loro mutazione nel napoletano. È un pastiche linguistico quello che Moscato crea, è una lingua d’invenzione. A questo pastiche ho voluto ispirarmi.

La vita senza amore di Sofia viene riempita da una “creatura” che la chiama “principessa”, con cui vive ore euforiche e felici al profumo di talco. È questo rapporto unico che le permette di sopravvivere, di scappare dal suo matrimonio, di comprendere i “servizi” che compie sua madre. Ma anche questo rapporto le darà sofferenza e angoscia. Non c’è pace per i vivi?

La pace dei vivi è nella pacificazione che essi hanno con sé stessi e con ogni parte di sé, che si tratti di zone d’ombra come di zone di luce. La pace è nella scelta del proprio destino, anche quando tale scelta è nella direzione della sofferenza, dell’angoscia, della morte. La pace per i vivi sta nella scelta.

L’altro elemento forte sono i colori: i genitori sono grigi, la “creatura” è bianca, gli occhi del fratello Antonio sono blu, il sangue è rosso, la rosa è quasi nera. Il rimando visivo è potente, sembra di essere in un film in bianco e nero in cui è stato colorato il rosso sangue.

Ho visto questa storia. Ho scritto il romanzo come se stessi vedendo un film della prima metà del ’900, quando il colore non serviva per generare realismo ma era destinato alle pellicole di finzione, ambientate in mondi caratterizzati dal sovrannaturale e dall’onirico. Volevo che il colore avesse un significato espressivo ed emotivo come in “Le Voyage dans la Lune” di Méliès e “Nosferatu, il vampiro” di Murnau.

Gli uomini – i padri, i mariti, gli amanti, i preti – costringono le donne al silenzio. Alcune di loro vengono persino chiuse in “stanze del silenzio”. Qualcuna trova il modo di romperlo: donna Elvira Ruggiero lo fa attraverso il rumore degli oggetti di cui si serve ogni giorno in casa, Sofia bambina canta, nella stanza in cui è rinchiusa insieme ad un pianoforte a cui hanno tagliato le corde. Ma sono piccoli gesti di ribellione, loro per prime sono consapevoli che non cambieranno la situazione. Le parole sono riservate al dialogo con i morti?

Volevo che la lingua fosse slegata dalla fisicità dei corpi e quindi dalla realtà e che trasportasse in una dimensione onirica e nella dimensione dell’oltre. Le parole sono riservate dunque al dialogo con i morti ma anche a quello con le creature viste in visione. Una lingua che mostrasse pertanto che la realtà non è soltanto per il mondo che tocchiamo e vediamo ma anche per quello che sentiamo intimamente, che percepiamo, che immaginiamo, per quello invisibile animato da morti, fantasmi, apparizioni, visioni.

In questo mondo di silenzi, c’è qualcuno che parla, piange, si fa sentire: sono le bambole- bambini. Martina, piange fino alla disperazione, ma non provoca nessun sentimento di commozione o pietà in sua madre, che si definisce solo “colei che l’ha partorita”. Sono, invece, le bambole – esseri inanimati, chiusi in teche, cassetti, valigie e armadi – a muovere i sentimenti e le persone. Sono i più vivi della storia?

Quello del mio libro è un mondo libero dalle regole del verosimile e del reale, un mondo popolato da oggetti, da suoni, da colori, da bambole che non hanno una funzione simbolica, che non sono metafore, ma esseri, creature con un’anima che vivono in quello spazio liminale tra il sogno e la realtà. Le bambole vivono e muoiono tanto quanto i protagonisti del romanzo. Solo lo fanno in un’altra dimensione.

Simona Pedicini, “Morte per grazia ricevuta”, Fandango Libri, 2023

PASSAPAROLA: FacebooktwitterpinterestlinkedinFacebooktwitterpinterestlinkedin GRAZIE ♥
The following two tabs change content below.

Chiara Cremaschi

Chiara Cremaschi è laureata in Filmologia e si è formata in regia documentaria agli Ateliers Varan a Parigi. È stata più volte Finalista al Premio Solinas - scrivere per il cinema, e tre volte ha ottenuto la Menzione Speciale dello stesso Premio. Nel 1998 ha vinto il Premio per la Migliore Sceneggiatura di Rai International con "Il cielo stellato dentro di me". Nel 2017 ha ottenuto l’Étoile de La Scam per la scrittura del film documentario “Les enfants en prison”. I suoi film sono stati selezionati in festival in tutto il mondo, ricevendo menzioni e premi. È formatrice in scuole di cinema e conduce laboratori nei contesti più diversi, soprattutto quelli in cui il cinema non arriva.

Ultimi post di Chiara Cremaschi (vedi tutti)

Categorie
0 Comments
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.