E santi altri vizi capitali che la scrittrice e attivista Americana egiziana, Mona Eltahawy elenca nel suo nuovo libro “Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato”. Leader di un movimento contro l’oppressione femminile nel mondo arabo, sull’onda del #MeToo, Eltahawy arriva in Italia il 21 maggio e andrà in tour
Di Chiara Cremaschi
«Quando parlo dell’importanza di mettere al centro la battaglia contro il patriarcato e il femminismo stesso, molte volte sento dire “Questo può aspettare! Sai quante persone x, y, z sono oppresse? La guerra! I prigionieri politici!”. Anche se la lotta contro le varie oppressioni è ovviamente importante e necessaria, dichiarazioni come quella di “aspettare”, di fatto, dicono che le donne non sono abbastanza importanti per stare al centro. La mia risposta ricorda ai miei interlocutori quello che io chiamo la Triade della misoginia. Mi dicono che nessuno è libero, né gli uomini né le donne, perché lo stato opprime tutti. Comunque, dobbiamo ricordare che le donne sono oppresse anche per strada e nelle loro case. Questa è la Triade della misoginia: stato, strada, casa. E finché non riconosceremo che questa triade è la dimora del patriarcato e che dobbiamo smantellarla per sfidare, trasgredire e contrastare il patriarcato nello stato, per strada e in casa, i nostri sforzi di essere libere falliranno. Le donne continueranno a partecipare alle proteste, alle rivolte e alle rivoluzioni per ogni causa immaginabile, ma chi si farà avanti a fianco delle donne?»
Mona Eltahawy
Mi ero trasferita a Parigi da poco. Seguivo una formazione che mi riconnetteva con i miei desideri, messi in stand by da molto tempo. Durante lo stage, dovevamo realizzare degli esercizi, perlopiù in coppia. Io lavoravo spesso con una donna di una decina d’anni più di me, che mi piaceva molto.
Un giorno, per realizzare l’esercizio, saremmo dovute andare dalla parte opposta della città. A Parigi non è certo un problema, con la metropolitana arrivi quasi dappertutto.
Lei mi ha chiesto un momento e mi ha raccontato che, qualche mese prima, nella metropolitana, aveva sentito una mano che insisteva sul suo sedere.
Ovviamente, le era successo già diverse volte, nella vita. Ma, quella volta si era detta: “BASTA”. Aveva afferrato la mano maschile e l’aveva alzata, gridando: “di chi è questa?”. L’uomo era impallidito e si era ripreso la sua mano. Tutto il vagone fissava la scena.
Alla prima fermata lui era sgattaiolato fuori e lei era rimasta, immobile e tremante, fino alla sua destinazione. Quando era uscita dalla metro, era scoppiata a piangere, un pianto di liberazione.
Io l’avevo ascoltata con attenzione, le avevo detto che era stata magnifica, che la ammiravo molto per essere riuscita a compiere quel gesto, a rivoltarsi, a liberarsi. Lei mi aveva risposto che me lo stava raccontando perché non sarebbe venuta con me quel giorno, all’appuntamento bisognava arrivare con la metropolitana e lei non la prendeva più: si vergognava del proprio comportamento.
Era stato “troppo”, aveva concluso.
Mi sono ricordata di questo episodio leggendo “Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato”, il libro di Mona Eltahawy. Ero al capitolo sulla rabbia, dove l’autrice scrive: «Come sarebbe il mondo se alle bambine venisse insegnato che sono dei vulcani, le cui eruzioni sono qualcosa di bello, una potenza da stare a guardare e una forza con cui non scherzare? Se invece di distruggere la loro intemperanza, come l’allevatore addomestica un cavallo selvaggio, insegnassimo loro l’importanza e il potere di essere pericolose?
Se alimentassimo e incoraggiassimo in loro l’espressione della rabbia allo stesso modo in cui incoraggiamo la capacità di lettura: come qualcosa di necessario per navigare il mondo? Se credessimo che, proprio come leggere e scrivere aiutano una ragazza a capire il mondo intorno a lei e ad esprimere sé stessa, l’esternazione della rabbia fosse uno strumento altrettanto necessario per farsi strada nella vita? Dobbiamo insegnare alle bambine che la loro rabbia è un’arma preziosa per sfidare, trasgredire, contrastare il patriarcato, che cerca invece di annientarla e soffocarla. Non dovremo più permettere al patriarcato di instillare la passività nelle bambine. Educate, tranquille, remissive e calme: basta. Dobbiamo insegnare alle ragazze a essere libere. Dobbiamo insegnare alle ragazze che hanno il diritto di vivere senza la paura di essere interrotte, aggredite, insultate o, altrimenti, abusate. Dobbiamo insegnare alle ragazze a inseguire le avventure ed essere indipendenti. E dobbiamo insegnare ai ragazzi il limite. Odio questa parola e odio l’idea di limitare la libertà di chiunque, ma se la libertà che viene insegnata ai ragazzi è che il loro diritto va a discapito delle ragazze (ed è quello che accade), allora stiamo impartendo loro la lezione sbagliata. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che non è loro dovuto il tempo, l’attenzione, l’affetto delle ragazze, o altro ancora; che i corpi delle ragazze appartengono alle ragazze e che aggredirle o abusare di loro è sbagliato. Punto e basta. Un femminismo che debba rispettare “cultura” e “religione” è un femminismo incatenato al rispetto di due pilastri fondamentali del patriarcato, pilastri che sono stati eretti per tenere donne, ragazze, persone non binarie e queer al “loro posto”, che è, ovvio, subordinato agli uomini eterosessuali. Abbiamo bisogno di un femminismo che sia forte, aggressivo e senza remore; un femminismo che sfidi, trasgredisca e contrasti il patriarcato, non uno che ci collabori, che le “libertà fondamentali che spettano a tutti gli esseri umani. La Dichiarazione universale dei diritti umani è stata adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948 e ha segnato la prima volta in cui i paesi si sono messi d’accordo su una dichiarazione complessiva di diritti umani inalienabili. Il patriarcato colpisce le ragazze a livello universale. Ma a seconda di dove vivi, del contesto razziale ed etnico, dell’orientamento sessuale, la misoginia non è l’unica oppressione che dobbiamo combattere. Anche se le ragazze subiscono ovunque il terribile impatto del patriarcato, quando esso si sposa con altre forme di oppressione, diviene particolarmente violento. Più sei marginalizzata, più forti sono i colpi del patriarcato e le oppressioni connesse».
Secondo Eltahawy, la RABBIA è solo il primo dei peccati da coltivare. Ci sono poi l’ATTENZIONE, la VOLGARITA’, l’AMBIZIONE, il POTERE, la VIOLENZA, la LUSSURIA.
L’autrice scrive con rabbia e con coraggio dalle pagine del New York Times, il Guardian, il Washington post, sul suo blog Feminist Giant, sui social e in saggi e discorsi pubblici.
Tutto nasce dall’hashtag #MosqueMeToo con cui ha iniziato a denunciare gli abusi subiti a 15 anni durante un pellegrinaggio religioso alla Mecca. Alla sua denuncia se ne sono aggiunte molte altre, di ragazze musulmane abusate negli spazi religiosi. È così che Eltahawy è diventata leader di un vero e proprio movimento contro l’oppressione femminile nel mondo arabo, sull’onda del #MeToo, salito alla ribalta delle cronache per il coinvolgimento del mondo dorato di Hollywood, ma nato dalle proteste delle donne afroamericane.
In questo suo libro-manifesto è molto chiara e diretta, sa bene a chi si rivolge: «Dobbiamo proteggere quelle che sono percepite come eccezioni, perché è ai margini, dove la comunità le ha relegate, che inizia la rivoluzione. La rivoluzione non comincia al centro. Il centro è troppo comodo e troppo coinvolto nello status quo. Il centro è nella morsa del patriarcato, che usa i tentacoli delle sue oppressioni per rafforzare la presa. Ed ecco perché l’attenzione è importante per quelle ai margini, al di fuori, ed ecco perché dobbiamo opporci alle spinte della “comunità” a metterci tutte in riga».
Il libro è un manifesto urlato, molto documentato, preciso, con citazioni ed esempi di riferimenti importanti: Jordan, Le Guin, hooks, Lorde…
Gli esempi riportano alla memoria episodi grandi e piccoli che abbiamo vissuto tutte, direttamente o attraverso i racconti delle nostre amiche, sorelle, madri. A volte fa male.
Ma lo scopo dell’autrice è proprio questo, per invocare una “rivoluzione femminista universale contro il patriarcato universale”. Dichiara: «La violenza sessuale è la manifestazione estrema del patriarcato, ma donne e ragazze in tutto il mondo sono soggette a forme più ordinarie di quella violenza. Non bastano le pagine per elencare tutti gli esempi “meno estremi” del patriarcato che io o altre donne sperimentiamo ogni giorno. In una storia che inizia con un pellegrinaggio, è stato il “peccato” che ha portato la me quindicenne a chiudere il cerchio: il peccato di blasfemia contro il dio del patriarcato. La cristianità condanna i sette peccati capitali. Il vangelo di Mona presenta invece sette peccati essenziali che donne e ragazze “devono commettere per sfidare, trasgredire, contrastare il patriarcato: rabbia, attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza e lussuria. Li chiamo “peccati” ma ovviamente non lo sono. Sono ciò che ci si aspetta che le donne non siano o non vogliano. Sono bollati come “peccati” da un patriarcato che ci chiede di accettare, e non demolire, i suoi dettami».
Dire “io valgo” è rivoluzionario perché il patriarcato pretende che siamo “modeste” e “umili”.
L’attenzione – il secondo peccato – è potere: «Dobbiamo riconoscere che gli infiniti modi in cui il patriarcato insegna alle donne a tirarsi indietro (fisicamente e intellettualmente) si estendono anche al linguaggio, rispetto a “ciò che possiamo e non possiamo dire. Non è solo una lotta per lo spazio nelle trasmissioni. Non si tratta solo di una sorveglianza sull’ego delle donne. Il patriarcato controlla il linguaggio stesso delle donne. Al centro di questa sorveglianza, a fare la guardia al nostro linguaggio, come un manganello pronto a colpire, c’è un concetto che sembra in apparenza semplice: la gentilezza».
Dire “Io valgo” si connette ad un altro peccato: l’ambizione: «L’ambizione è un peccato, perché il patriarcato vuole che le donne siano meno; avere ambizioni significa essere più». E questa si connette al potere: «Troppo spesso il patriarcato getta alle donne briciole in cambio di una forma limitata di potere. Dalle donne che accettano le briciole ci si aspetta che in cambio sostengano il patriarcato, interiorizzino i suoi dettami, controllino le altre donne e che non dimentichino mai che il potere concesso è un potere che può essere tolto di nuovo. Il patriarcato permetterà a poche donne di entrare in posti in cui non erano ammesse prima e lo chiamerà progresso, ma allo stesso tempo ci chiederà di non far notare che il potere è nelle mani di chi getta queste briciole, non di chi le accetta. Dobbiamo rifiutare quelle briciole. Non voglio le briciole; voglio tutta la torta. E non voglio la torta del patriarcato: dobbiamo prepararne una nostra».
La violenza è il “peccato” che mi ha colpita di più: «Non solo le donne vengono socializzate alla sottomissione, ma ci viene detto, di fatto, di non essere violente, nemmeno come forma di autodifesa, ma di aspettare fino a che gli uomini riescano a smettere di essere violenti nei nostri confronti. Quando questo dovrebbe accadere esattamente non è chiaro ed è piuttosto irrealistico, alla luce di come il patriarcato usa da secoli la violenza per controllarci. Ci viene detto ancora e ancora che è nella natura degli uomini essere violenti (di certo questo dovrebbe disturbare gli uomini che rifiutano la violenza e far loro comprendere che i costrutti patriarcali della mascolinità limitano anche loro). Ci viene detto che le donne sono deboli, passive, emotive, remissive, ecc. Ma quali donne sono così e quali sono escluse da questi stereotipi? È importante perché razza, classe e genere hanno tutti un impatto sui modi in cui la violenza delle donne viene punita. Siamo state educate all’acquiescenza, con la scusa che sia per il nostro bene».
Di conseguenza, l’ultimo “peccato” a cui siamo invitate è la lussuria: «Io sono padrona del mio corpo: non lo stato, non la strada e non la casa. Io sono padrona del mio corpo: non il tempio, non la chiesa, non la moschea, né altro luogo di culto. È mio diritto fare sesso quando decido di farlo, con chi decido di farlo, ovviamente con il consenso dell’altra persona. È mio diritto fare sesso con una donna o con un uomo; con più donne o con più uomini, cisgender o transgender; e con persone la cui identità di genere è fluida o non binaria. È mio diritto decidere come esprimere la mia sessualità, come è diritto di ogni adulto consenziente. Non sono affari degli altri il modo in cui persone adulte consenzienti esprimono la loro sessualità, perché le parole chiave qui sono “consenzienti” e “adulte”. Quando dico “io sono padrona del mio corpo”, faccio una dichiarazione rivoluzionaria. La rivoluzione è incompleta se si concentra solo sulla nostra autonomia dallo stato. Lo stato non è l’unica entità che esercita potere su di noi, specialmente se non ci identifichiamo come uomini cisgender eterosessuali. Chi possiamo desiderare, come possiamo esprimere quel desiderio, chi ha il diritto di desiderare e il nostro diritto di determinare noi stesse, di chi possiamo o non possiamo accettare o rifiutare il desiderio: tutto questo è al centro della sfida, della trasgressione, del contrasto al patriarcato».
Questo libro vuole rendere evidente che la libertà della donna è sempre stata considerata un peccato. Igiaba Sciego, nella prefazione dice che: «il peccato è necessario se si vuole creare sé stesse in un mondo ancora ostile alle donne e non solo, e che vuole ancora dettare legge su biologie che pensavamo, ottimisticamente, ormai salve dalle grinfie del patriarcato. Ma Mona avverte che non c’è niente di salvo e sicuro. Non si deve smettere di lottare. E con il patriarcato non si viene a patti, si può solo capovolgere il tavolo, va fatto letteralmente sparire insomma. Fuck the patriarchy, quindi».
Mona Eltahawy, Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato, traduzione di Beatrice Gnassi, Le Plurali editrici 2023. Prefazione di Igiaba Scego
INFO. La scrittrice dal 21 al 26 maggio sarà in tour Italia per presentare il suo libro, edito da le plurali editrice, creando momenti di incontro con ospiti e talk. Il tour parte dal Salone del libro di Torino il 21 maggio e sarà a Milano il 22, a Bologna il 23, a Pisa e Firenze il 24, a Napoli il 25 e a Roma il 26. Il tour è organizzato dall’associazione Uniche ma plurali Odv e dalla casa editrice le plurali, con la collaborazione di Amnesty International Italia.
PASSAPAROLA:








Chiara Cremaschi

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