VARCARE CONFINI 12. GABRIELLA GHERMANDI

Clotilde Barbarulli, 17 maggio 2023

«Scrivo per ribaltare la violenza della narrazione dominante che ti confina in uno stato di denigrazione descrivendoti senza valore: è un atto di guerra. Di razzismo in Italia si parla come di qualcosa che accade altrove. Di colonialismo si parla pochissimo e ignorare la propria storia permette negare la cittadinanza a chi emigra»

Di Clotilde Barbarulli

Nata ad Addis Abeba nel 1965, Gabriella Ghermandi, scrittrice, cantante e performer, dal 1979 vive a Bologna. È tra i fondatori della rivista di letteratura della migrazione El Ghibli. Per il teatro scrive e interpreta spettacoli sul tema della multidentità e della scrittura, ispirandosi all’arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope.

Ha pubblicato racconti in varie collane e riviste, tra cui L’Italiano degli altri: 16 storie di normale immigrazione (Einaudi scuola). Nel 2007 è uscito il suo romanzo Regina di fiori e di perle (Donzelli), in cui narra le vicissitudini di una famiglia etiope nel periodo che va dal conflitto con l’Italia alla dittatura di Mengistù Hailé Malram ai giorni nostri.

Nella tua scrittura emerge quello che Toni Morrison ed altre autrici hanno realizzato, rimemorizzando la schiavitù, cioè una contro-memoria che Intende ribaltare la visione del mondo veicolata dalla storia ufficiale e dalla letteratura canonizzata. Così, usando l’italiano, crei nuovi spazi politici e letterari, per non sentirti più spossessata del passato e privata del futuro: Regina di fiori e di perle ne è la dimostrazione. Hai raccontato infatti di esserti sentita “trasparente” in una Storia in cui i colonizzati non sono contemplati: e da lì è nato l’arbegnà che, nel tuo libro, racconta una diversa storia del colonialismo italiano rispetto alla Mariam di Ennio Flaiano, vittima del desiderio violento del fascista. Ritieni di continuare in tal senso nei tuoi prossimi romanzi?

Molto del mio lavoro nasce dal voler ribaltare lo stereotipo perché ho vissuto la violenza della narrazione dominante che ti confina in uno stato di denigrazione descrivendoti senza valore: è un atto di guerra. Scoprire di essere stata sottoposta a tale guerra mi ha creato dolore, un dolore dell’umanità tradita dal continuo credere che l’Occidente porta la civiltà, quella almeno che si pensa essere la civiltà. È la presunzione tutta occidentale di ritenere di essere la civiltà, come se la potenza economica e tecnologica, sia sinonimo di civiltà e non piuttosto l’incarnare i valori umani.

Ho letto Flaiano, uno scrittore contraddittorio (scoperto grazie ad un amico nel 2005), come una metafora: Mariam è l’Etiopia. Il senso di colpa gli deriva dall’aver intuito la negazione. C’è un centro nel suo romanzo che mi ha fatto sentire risarcita. Quando ero piccola ho sentito spesso dei commenti di alcuni italiani che più o meno esprimevano l’anaffettività degli etiopi “Sono come i gatti. Non si affezionano”. Anche Flaiano nota questo luogo comune e nel suo romanzo lo distrugge attraverso un personaggio: il padre di Miriam che cura l’ufficiale, lo guarisce dalla sua ferita, una ferita simbolo attorno a cui si costruisce tutto il romanzo. L’anziano lo guarda male, ma lo guarisce. Però l’uccisione di Mariam è crudele per questo ho scritto dell’arbegnà (guerriero, ndr) che spara al fascista.

Mi sono resa conto di essere stata avvolta come in un domopack e ho dovuto fare una ricostruzione a posteriori della mia storia e della storia dell’Etiopia. Appena arrivata in Italia ho visto un mondo così diverso dalla narrazione dominante perché il benessere era per pochi come la scolarizzazione. Ho studiato in un istituto professionale dove i genitori erano operai con appena la terza elementare. Molti si consideravano superiori a me, e si accontentavano di ottenere qualche bene, senza vedere l’ingiustizia di fondo del sistema.

Il confronto con quella realtà mi ha permesso di rileggere quella storia unica in cui, come dice mia figlia Mahlet, ero stata “inficcata”. Perciò non posso che continuare a riscrivere la Storia e voglio ribaltare l’idea stereotipata dell’africana sottomessa con il protagonismo delle donne etiopi, guerriere, regine, poetesse. Con il mio libro ho pareggiato i conti sulla mancanza di analisi rispetto al colonialismo italiano. E non mi sento più trasparente. È importante passare dall’orizzonte di una storia unica a quello plurale di storie differenti, occultate dalle narrazioni egemoniche, oppure ammaestrate a identificarsi sempre in storie di affermazioni che appartengono solo ai dominanti. Per questo sto scrivendo un romanzo che esplora la questione dei meticci dell’Etiopia-Eritrea attraverso la mia storia personale.

Vorrei – a proposito di neocolonialismo e razzismo diffusi – porre l’accento sul problema dei monumenti che sono luoghi di scrittura e riscrittura della storia nello spazio pubblico. La rabbia che scatenano certi monumenti fascisti è per me legittima. Nel caso della statua a Indro Montanelli, che nel 2019 NUDM dipinse di rosa, la gravità era data anche dal fatto che in un articolo del 2000 Montanelli per descrivere l’acquisto di una “sposa” dodicenne parlò di “una specie di leasing”, mostrando ancora con i suoi tremendi commenti il modello predatorio colonialista della penetrazione e del possesso. Per me è simbolico del fatto che l’Italia non ha mai voluto riconoscere la propria vergognosa storia colonialista. Tu che ne pensi?

Grave anche il monumento a Graziani ad Affili del 2012! Nonostante la denuncia di ANPI e altre associazioni per cui il sindaco fu incriminato e condannato, tutto poi è caduto in prescrizione: lo difendeva Ignazio La Russa, simbolico per l’oggi. Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero di Debra Libanos furono trucidati monaci, diaconi, pellegrini ortodossi, dietro ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia.

Montanelli ripete la violenza della narrazione unica. Ho indagato il madamato grazie anche ad un esperto di leggi eritree, Orsini: non si trattava di comprare una donna come fosse un cappello. Esistevano tre tipi di matrimonio: matrimonio per sempre, madamato e concubinato. Il madamato era considerato una prova: i figli nati, in caso di separazione, erano tenuti dal padre perché la donna fosse libera di risposarsi. Infatti, era fatto obbligo all’uomo di mantenere la donna per tutta la durata del contratto e di riconoscere e mantenere i figli. Per il riconoscimento del padre, erano sufficienti le parole della donna, espresse sotto giuramento, le quali assumevano valore probatorio. Ma il madamato nella pratica fascista viene stravolto usando le donne senza più garanzie: la donna viene lasciata sola con i figli meticci che perciò venivano spesso portati agli orfanotrofi italiani, come per rimandarli al mittente, ovvero al padre. Mia madre ha vissuto questa tragedia. Il nonno italiano aveva lasciato documenti per riconoscerla, ma mio zio distrusse tutto pensando che sarebbe stata più protetta dalla legge eritrea.

È terribile il discorso di Montanelli anche quando vuole far credere che la ragazza gli fosse rimasta legata perché avrebbe chiamato Italo un figlio. Del resto aveva negato anche l’uso dei gas. Ci sono state proteste ma non è stata chiamata una eritrea a raccontare. Sono evidenti il razzismo e un senso di superiorità per cui, in quanto bianco, non ti devi giustificare.

Il passato “che non è più, reclama il dire del racconto dal fondo stesso della propria assenza” (Ricoeur). E tu, con l’affabulazione, strappi al silenzio i ricordi e ci restituisci il profumo delle storie reali, anche nell’asprezza del dolore. I racconti in Regina di fiori e di perle avvengono – non a caso – nel giardino di una chiesa ad Addis Abeba, fra una preghiera ed una riflessione con un vecchio eremita, a testimoniare una forma di rituale che permetta alla memoria delle singolarità di diventare patrimonio collettivo, riparando (Melanie Klein) il trauma mai sopito di un popolo. Parlaci della componente spirituale molto forte nella tua visione.

La spiritualità è forte nella mia formazione ma è anche un motivo politico: il cristianesimo non è proprietà dell’Occidente. Il missionario gesuita portoghese Antonio Logo scrisse che quello eritreo non era un cristianesimo autentico perché le donne godevano di troppa libertà. In Italia la parte spirituale è sottile, quasi inesistente ma ha creato culturalmente un senso di colpa che è un sentimento utile a chi governa.

Il mio padre spirituale, un eremita, mi ha cresciuta ricordandomi che il rapporto di ciascun essere con Dio è privato, che la spiritualità è uno sostegno per compiere il proprio percorso e che per avvicinarsi ad essa bisogna allontanarsi dal moralismo. Nel mio percorso spirituale ho incontrato lama tibetani e maestri indiani che mi hanno aiutato ad aprire la mente, a trovare nuovi punti di osservazione, ma il mio cuore resta vicino al cristianesimo.

Oltre ad essere una scrittrice, sei anche cantante e performer: hai messo in forma di spettacolo il tuo romanzo e hai voluto e coordinato il Progetto Atse Tewodros, per creare collaborazioni musicali tra musicisti etiopi e italiani. Mi sembra interessante anche dal punto di vista storico-politico visto che recupera ad esempio canti dei partigiani etiopi che combattevano il regime fascista. Hai detto di essere cresciuta in un mondo misto di suoni: Etiopi, Italiani, Congolesi, Indiani.

Il progetto nasce da una richiesta dei patrioti etiopi per commemorare l’eccidio compiuto da Graziani. Ma è anche un modo per dare voce a chi è stato considerato invisibile. Ora sto lavorando ad un album di figure di donne mitologiche, ma non solo. Per le scuole c’è una pagina online sulle donne del Sud del mondo. Pensa che esiste una flotta di sole donne ai vari livelli. Intendevo anche reagire ad un progetto che arrivò in Etiopia finanziato dalla lotteria britannica e dalla Nike Foundation, per la crescita femminile, con lo scopo di creare “Le Spice Girls d’Etiopia”: io mi sono sentita bruciare di rabbia. Un paese che ha costruito la propria appartenenza e la propria epica sulle figure maschili, voleva venire a insegnare in Etiopia, paese che fonda la propria nascita sulla figura della regina di Saba, come aumentare il potere delle donne. Non ci potevo credere, ma il progetto dopo varie proteste fu abbandonato. Il nostro progetto vuole offrire uno sguardo diverso, un percorso di memoria pubblica oltre che personale, e un modo per parlare di percorsi migranti, di identità plurali.

In Italia si critica il velo e poi ci si veste condizionate dallo sguardo maschile (la famosa taglia 42 denunciata da Fatime Mernisssi). Io per esempio sono sempre molto colpita dalla mercificazione che si fa in occidente del corpo femminile, delle immagini. Penso al corpo delle donne nelle trasmissioni della tv italiana e mi chiedo che differenza c’è se un corpo viene violato obbligando alla seminudità oppure alla totale copertura? Come scrittrice credo che ci sia una grande violenza nella narrazione, quando questa è fatta per costruire un mondo disuguale, dove una parte viene raccontata come inferiore, a danno di altr*. E io voglio raccontarlo anche con la musica.

In televisione spesso si assiste alla produzione di messaggi che, attraverso parole e immagini, ripropongono stereotipi allo scopo di “vendere” un prodotto (una pornografia del dolore) e che continuano riprodurre visioni in cui c’è l’africano con lo stomaco gonfio, pieno di mosche, la cui sopravvivenza è solo nelle caritatevoli mani occidentali: per me è la riproposizione di una narrazione coloniale, razzista perché, tra l’altro, è un ribaltamento paradossale della realtà, come sostiene anche la filosofa e militante Mackda Ghebremariam Tesfaù. Che ne dici?

Ha ragione Ghebremariam Tesfaù che io ammiro: quello è un marketing da vetrina. E la violenza delle immagini è forte: a mia figlia Mahlet a scuola (l’unica afroitaliana) hanno dato una foto come ispirazione per scrivere: rappresentava una piccola africana con vestiti stracciati e Mahlet disse che l’Africa da lei conosciuta non era quella. Ritorna il problema della storia unica: occorrono storie differenti che, superando i confini, mettano in discussione e disgreghino la storia egemonica.

Cosa pensi delle giovani scrittrici afroitaliane di seconda generazione che, in “Future” e in altre pubblicazioni, fra rabbia e ironia, pongono al centro la frontiera della pelle nera e il problema della cittadinanza italiana, a dimostrare il razzismo colonialista ancora persistente. La legge sulla riforma della cittadinanza è bloccata da tempo, mentre aumentano episodi di ordinario razzismo ed il Mediterraneo è sempre più un cimitero di speranze. Come consideri la situazione odierna al riguardo?

Mi piace Djarah Kan. In generale c’è il rischio di una estremizzazione del colore che trascura la lotta di classe. Ammiro Angelica Pesarini perché offre uno sguardo più complesso sul problema. Le giovani non conoscendo il colonialismo fascista rischiano di non vedere il fascismo che ora ci governa. Come dice Pesarini, è stata l’Europa ad aver prodotto il colonialismo e lo sfruttamento dei corpi neri. Di razzismo in Italia si vuole parlare come di qualcosa che accade altrove. Di colonialismo si parla pochissimo e quando lo si fa è spesso in chiave revisionista. Ignorare una parte così consistente della propria storia permette di non affrontare le proprie responsabilità e di non andare al cuore della questione. Così si continua a negare la cittadinanza e non si accoglie chi emigra. Il mondo si muove, sarebbe ora che tanti italiani capissero che per sopravvivere dobbiamo contaminarci.

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Clotilde Barbarulli

Clotilde Barbarulli collabora attivamente con associazioni quali il Giardino dei Ciliegi di Firenze, la Libera Università Ipazia, la Società Italiana delle Letterate. Si occupa di autrici contemporanee fra lingue e culture e di scrittrici '800/900. Tra le sue pubblicazioni: con L. Brandi, I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996); con M. Farnetti, Tra amiche. Epistolari femminili tra Otto e Novecento (2005); con L. Borghi Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (2003), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (2006), Il Sorriso dello Stregatto (2010)."Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella" (ETS 2010),

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