Arianna Montanari esordisce con “Parole nascoste”, un ricordo sincero del padre. Attraverso un’archeologia delle case, i libri «imprescindibili» e la consolazione del cibo l’autrice racconta una storia di dipendenza dall’alcool e di depressione. E di una figlia unica impegnata nel tentativo di salvare suo padre, e sé stessa, dalla perdita.
di Manuela Altruda
«Nelle famiglie così piccole il malumore è contagioso, si attacca subito non c’è modo di proteggersi». Durante la lettura di Parole nascoste, questa frase così semplice mi ha colpito molto, l’ho osservata a lungo prima di capire che mi turbava così tanto perché era solo molto vera. La mia è una famiglia come la tua, piccola – madre, padre, figlia – e capisco bene cosa intendi. Quanto è stato complesso scegliere le parole giuste – mai scontate né banali – e restituire quel senso di responsabilità che avverte una figlia unica in un contesto famigliare come questo? Nella produzione letteraria degli ultimi anni si parla molto del legame fraterno e poco di figli e figlie unici.
Tutti i figli a un certo punto diventano i genitori dei propri genitori, ma ai figli unici tocca farlo un po’ prima degli altri. Privati della possibilità di isolarsi in un universo infantile che si può costruire solo con l’aiuto di un complice, un fratello o una sorella, si trovano costantemente esposti al mondo dei grandi, che è un mondo difficile, che di certo non possono comprendere appieno ma che cercano comunque di interpretare sviluppando una certa attitudine introspettiva che, io credo, li adultizza precocemente.
Soprattutto poi se il legame fra i genitori non è sereno, i figli unici sono chiamati a fare da contrappeso nelle discordie, a schierarsi per l’uno o per l’altra – e a sentirsi automaticamente in colpa per il sostegno negato alla parte che rimane sola. È come se, prima di imparare a decifrare sé stessi e i propri sentimenti, si imparasse a fare da conduttore dei sentimenti altrui, spesso contraddittori e problematici, a trasmetterli da un polo all’altro della coppia.
La storia di una famiglia passa anche attraverso le case che ha abitato. Parole nascoste, come altri romanzi prima – me ne vengono in mente due meravigliosi: Il libro delle case di Andrea Bajani e Diario d’inverno di Paul Auster – è una ricerca archeologica dei resti. Il protagonista di Bajani «entra negli appartamenti per vedere quello che le frasi contenute hanno da comunicargli» e le pareti «vogliono essere ascoltate». Anche tu hai cercato risposte nelle case in cui hai vissuto con tua madre e tuo padre, eppure non le hai trovate in piazzale Biancamano o dai nonni a Bologna, ma nella tua casa, quella in cui abiti oggi con il tuo compagno. Nella stanza dei gatti.
Qualche anno fa feci un colloquio nell’appartamento che stava proprio sotto a quello dove avevo vissuto fino ai diciott’anni, in piazzale Biancamano. Le stanze erano disposte nello stesso modo e aveva lo stesso marmo per terra, gli stessi infissi e le stesse porte, che dovevano essere ancora quelle originali. Fu piuttosto straniante perché, come in un racconto di Dickens, mi sembrò di ritrovare, sedimentati negli angoli, davanti alla porta dell’ascensore o sulle scale dell’ingresso, i fantasmi della mia famiglia passata – e forse perché ero emozionata, o perché non era il lavoro adatto a me, ma il colloquio andò malissimo.
È vero quello che scrive Bajani: le case hanno un potere di rievocazione enorme, spesso perché sono i luoghi d’elezione di un senso strettamente legato alla memoria – l’olfatto – e perché catalizzano un certo modo di riflettere la luce che è quello dei nostri ricordi e che è connesso alla loro posizione nello spazio, all’orientamento rispetto all’ambiente circostante.
Credo che sia anche vero, però, che per rielaborare la memoria, per renderla discorsiva e strutturarla in una narrazione occorra prenderne le distanze, osservare le case del passato dalle case del presente, individuarne i contorni per differenza rispetto a quelle che sono diventate lo scenario del nostro quotidiano. Amo molto i memoir ma mi annoiano quelli scritti al presente, forse proprio perché simulando la presa diretta con il vissuto che raccontano rinunciano al potere evocativo della memoria e, di conseguenza, della nostalgia – che credo sia il sentimento prevalente del libro che ho scritto.
In un primo momento scoprire che i quaderni di tuo padre erano solo diari – niente lunghe pagine fitte di parole o flussi di coscienza sveviani – forse ti ha delusa. Però con pazienza sei riuscita a rimettere insieme i pezzi: nomi di ristoranti, bar, ricordi. Il tuo romanzo alla fine è un po’ come un grosso taccuino di impressioni che trova la sua coesione nel rapporto padre-figlia.
Quei taccuini si sono rivelati un’eredità importantissima. È vero, all’inizio mi hanno delusa perché speravo di trovarci rivelazioni sconvolgenti e confessioni a cielo aperto – e questa mia speranza segnala quanto siamo sempre ingenui, nei confronti dei nostri genitori, quando ci illudiamo fino all’ultimo che possano cambiare, mostrarsi diversi da quello che sono sempre stati. La scrittura diaristica è, però, la meno elaborata in assoluto, la più immediata, quella più esposta ai tic linguistici individuali, e man mano che andavo avanti a leggere mi rendevo conto che era come stare ad ascoltare di nuovo la voce di mio padre, il modo in cui costruiva le frasi, come inseriva le parolacce nel discorso, la sua ironia.
Il timbro di una persona si ricorda facilmente, anche dopo molti anni. Più difficile è tenere a memoria il modo che aveva di parlare, forse anche perché questo si costruisce in progressione, procede per accumulo, mentre di solito la memoria funziona più per fotogrammi e singole immagini. Ecco, leggere quei taccuini è stato come allacciare di nuovo un dialogo con lui, ascoltarlo mentre mi raccontava cos’aveva mangiato a pranzo o com’era andata al lavoro, vederlo vivere di nuovo.
Parole nascoste è anche un romanzo sul linguaggio. Tuo padre era molto riservato, parlava di rado, quindi quello che racconti è un lessico famigliare di gesti. Molti passano dal cibo che tuo padre tanto amava e che tu non gli hai mai fatto mancare, nemmeno nei giorni più difficili. E non credo si trattasse solo della ricerca del pollo arrosto migliore di Milano.
Quando si parla di cibo spesso si parla di condivisione – ed è sicuramente vero, il cibo crea condivisione e crea famiglia, ma nel caso di mio padre credo che il cibo avesse un significato ulteriore e precedente: era prima di tutto identità.
Uno dei temi che emerge con più prepotenza dal mio libro – e me ne sono resa conto solo al termine della prima stesura – è quello della mascolinità. Si parla spesso, e per fortuna, di costruzione della femminilità, ma più di rado ci si interroga su quanto i dispositivi sociali e familiari agiscano sui soggetti che si identificano con il genere maschile, li plasmino chiedendo loro di aderire a certi modelli che, almeno fino alla generazione dei nostri genitori, esigevano fermezza e serietà, affidabilità e risolutezza. Ecco, mio padre non era né fermo né risoluto, sebbene abbia cercato per tutta la vita di esserlo, e nella cucina lui trovava uno spazio di libertà dove sentiva di potersi esprimere e ritrovare lontano da tutti gli imperativi morali e i dover-essere che lo opprimevano: i piatti che portava in tavola, le bottiglie che beveva e i ristoranti che frequentava lo definivano almeno quanto i romanzi che leggeva o i film che conosceva a memoria.
Sei una lettrice appassionata di romanzi famigliari. Le grandi tavolate durante le festività a casa della nonna Marisa e del nonno Carlo sembrano scene prese dalle pagine dei Buddenbrook: tanto cibo e tanta tensione.
Ovviamente sono molto lusingata dal confronto con il mio romanzo preferito, che forse è tale perché quando lo lessi per la prima volta, mi rievocò subito atmosfere, caratteri e rituali che mi sembrava di conoscere – e di certo ho rubato parecchio da lì.
A volte il cibo, prima ancora di essere un piacere, può trasformarsi in un diversivo, in un modo per schermarsi e guardare altrove. Capita spesso durante i pranzi in famiglia: si parla delle pietanze servite a tavola per non raccontare di quello che ci appesantisce le esistenze, si analizzano con dovizia di particolari i cibi che attraversano i corpi per distogliere l’attenzione dai timori che angustiano i pensieri. C’è poi tutto l’aspetto ovattante del cibo: ci si stordisce di grassi saturi e calorie per proteggersi dall’esterno, per rintanarsi in una bolla che ci isoli delle aspettative altrui, dal dolore che abbiamo paura di intravedere nel volto di chi amiamo o anche solo da certi discorsi che non sopportiamo più.
Oltre alla famiglia, c’è la storia di una adolescente che vive tutte le complessità che quegli anni si portano dietro: i ragazzi, la necessità di sentirsi accettate a tutti i costi, fingersi alternative, ascoltare la musica giusta, evitare di mettere su un grammo. Un’adolescente che scopre un grande istinto di protezione verso sé stessa e racchiude in un trolley gli oggetti più cari – trasformati per l’occasione in amuleti – quando i genitori si separano e ha inizio il viavai da una casa all’altra. In quei mesi provavi a curare la separazione, con questo libro hai provato a curare la perdita?
Forse provavo a fare la stessa cosa che ho cercato di fare con questo libro: costruire un ponte, tenere insieme i pezzi, comprendere quello che era successo. Ho cominciato a scrivere perché volevo capire perché mio padre avesse dimostrato un attaccamento così fragile alla vita, quali fossero le ragioni dei suoi comportamenti autodistruttivi e della sua depressione – è un tema delicatissimo per un figlio, a qualunque età, un po’ perché è ovviamente doloroso stare a guardare un genitore mentre si fa del male, un po’ per quel delirio narcisistico di onnipotenza che sempre hanno i figli (soprattutto, credo, i figli unici) per cui ci si aspetta sempre di essere la fonte necessaria e sufficiente di gioia e consolazione per i propri genitori, di poterli salvare anche solo con la propria esistenza e il proprio amore imperfetto. Non è quasi mai così, non ci si può fare carico della tristezza altrui, neanche di quella di un genitore.
In effetti hai provato anche a ricostruire un ritratto di tuo padre da giovane, tentando di calarlo nel contesto in cui ha vissuto i suoi vent’anni, ovvero gli anni Settanta. Sentivi forse l’esigenza di capire quanto la Arianna ventenne somigliasse a quel padre giovane e spaesato?
È stata più l’esigenza di rintracciare il nocciolo di tristezza da cui è partito tutto il malessere di mio padre. Mentre scrivevo ho parlato con molte persone che lo avevano conosciuto: famigliari, colleghi ma soprattutto amici di lunga data che lo avevano incontrato la prima volta da adolescente e visto trasformarsi in un adulto triste. Erano tutti concordi nel dire che il cambiamento era avvenuto intorno ai vent’anni, e lui stesso nei suoi diari, in prossimità del mio ventesimo compleanno, aveva scritto “Sono preoccupato per l’Arianna, è a vent’anni che si comincia a sbagliare tutto”.
Sono andata in cerca, un po’ ingenuamente, di un momento di rottura ben preciso, di un trauma (parola di cui si abusa parecchio negli ultimi anni, e della cui retorica non posso dirmi immune) che mi spiegasse l’esplosione della sua inquietudine e il suo tentativo di auto-cura con l’alcol – ma un’esistenza è più complessa di così, i rapporti di causalità sono molteplici e intrecciati e sì, certamente i vent’anni sono delicati perché rappresentano il momento in cui si esce dalla famiglia, ci si mostra al mondo e si esce dalla massa indistinta dei propri coetanei per costruire, un poco alla volta, il carapace della propria identità. È un momento di scelte importanti e di fughe in avanti, di grandi solitudini e spaesamenti, è facile perdersi e affinché il puzzle si componga in un’immagine che ci rispecchi bisogna avere fortuna. Io credo di averne avuta più di lui.
Tuo padre confessa di aver fatto testa o croce per la scelta della facoltà: Psichiatria o Scienze politiche. La moneta decise per la seconda, una sera in piazza dell’Annunziata a Firenze. «Ho pensato che mi avrebbe portato fortuna, diceva, e mi inteneriva pensare che, da ragazzo, al suo futuro, ci teneva ancora». Alla fine quindi hai provato a capire dove, e quando, ci sia stato il corto circuito, quando Roberto da ragazzo speranzoso in una piazza fiorentina si è trasformato in quello disilluso della Milano degli anni Novanta a seguire.
Anche questo è un discorso che, per quanto semplice, ho capito davvero solo mentre scrivevo: l’importanza che il lavoro ha avuto nella vita di mio padre, che si è ritrovato a fare una professione che non amava e che un giorno dopo l’altro l’ha ingrigito sempre di più. Mi pare che spesso si sottovaluti il peso del lavoro sulle nostre giornate, un peso molto materiale, tangibile: trascorrere otto ore al giorno, quasi un terzo della nostra vita a fare qualcosa che, anziché nutrirci, ci svuota, può essere davvero dannoso per la nostra salute mentale. Poi l’atmosfera che si respirava a Milano, così competitiva e fedele alla mitologia del lavoro, non ha aiutato: fino a che viveva a Bologna, o a Forlì, riusciva ritagliarsi degli scampoli di tempo per le cose che gli piacevano e che addolcivano tutto il resto, a Milano era più difficile. Io amo Milano, sia chiaro, e sono in un qualche modo legata alla sua frenesia, alla sua ansia di arrivare chissà dove, ma capisco che possa essere anche molto dura, soprattutto per tutti quelli che vi arrivano con la speranza di raddrizzare la propria vita e vi trovano invece un tourbillon a volte spietato e indifferente.
Il vostro rapporto è sempre stato qualcosa da custodire in un altrove non ben definito, lontano dal delirio quotidiano. A un certo punto, però, racconti di una lite, dopo la quale tuo padre strappa in piccoli pezzi tutti i bigliettini conservati sin da quando eri bambina. All’epoca fu tua madre, con pazienza e scotch, e rimettere tutti i pezzi al loro posto. Tu hai provato a farlo con questo libro.
Non mi piace tanto parlare di perdono perché è un valore cattolico di cui fatico ad appropriarmi, dal momento che mi pare crei sempre uno squilibrio di potere fra chi perdona e chi viene perdonato. Certamente lo scopo di questo libro era provare a comprendere la persona che mio padre è stato, osservarlo e ragionare su di lui non solo in quanto genitore ma, con uno sguardo più largo, in quanto uomo e figlio del proprio tempo e di una certa famiglia. È stato frustrante, a tratti, perché – proprio come quando lui era in vita – più lo cercavo e più si nascondeva, e avevo l’impressione di costruire un personaggio che nulla aveva a che fare con la verità, di perdermi e ritrovarmi senza mai uscire dalle mie stesse parole. Il rapporto tra realtà e finzione è sempre articolato e dialettico, ma è nella composizione di questi due poli che sono riuscita a trovare la mia verità e, cosa più importante, a riappacificarmi con quello che è stato.
Arianna Montanari, “Parole nascoste”, Mondadori 2023
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Manuela Altruda

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