Donne dell’editoria 4 – Bianca Garufi

Manuela Altruda, 28 aprile 2023

Storia di una segretaria di redazione. Lavorava in Einaudi a stretto contatto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Con lui ha scritto un romanzo a quattro mani e ha avuto una relazione documentata in un carteggio. Poi si appassionò alla psicoanalisi junghiana e lasciò l’editoria (e Pavese), restando però una traduttrice esperta.

di Manuela Altruda

Ho sempre avuto una fissazione per la cancelleria. Sin da quando ero bambina, frequentavo le scuole elementari e cambiavo almeno due diari l’anno perché ne trovavo sempre uno più bello di quello comprato a settembre. I miei pastelli dovevano essere sempre temperati alla perfezione – la punta né troppo tonda né troppo fine perché altrimenti si sbriciolava a contatto con il quadernone. Le mie penne – mai quelle cancelline che imbrattavano il foglio – non avevano mai i tappi mordicchiati: era un sacrilegio per la me bambina che già dimostrava orgogliosa di essere nata sotto il segno della Vergine e del perfezionismo. Poi, negli anni dell’università, ho collezionato quadernoni con gli anelli e senza anelli, cartelline rigide e morbide, a righe e a quadretti, graffette e post-it, post-it di ogni genere, tipo, colore, forma.

Ma il vero dramma si è consumato quando ho cominciato a lavorare in editoria: se sei del segno della Vergine non puoi fare altro che arrenderti alla nobile arte della redazione. Qualche giorno prima dell’inizio del mio stage in una casa editrice, ho comprato quattro tipi diversi di penne rosse per la correzione di bozze. Non sono una di quelle che usa sempre la bic rossa perché, mi pare ovvio, dipende: dal tipo di carta, dal tipo di bozze, dalle condizioni climatiche all’esterno e dall’allineamento dei pianeti.

Nella mia ricerca, affamata e affannata, sulle donne dell’editoria mi sono spesso chiesta se fossi un po’ matta a domandarmi che penna usasse Natalia Ginzburg per correggere le bozze. E qual era il suo metodo? Come lavoravano Bianca Garufi e Ludovica Nagel alle loro traduzioni? Anna Banti come editava gli articoli per “Paragone”? Un primo indizio l’ho trovato tra le pagine di Laura Di Nicola: «I loro archivi personali o quelli editoriali conservano pagine, carte, dattiloscritti, cartelline, faldoni fitti di una storia mai ricostruita nella sua complessità». Allora non sono così matta, mi sono detta.

Le parole della studiosa mi hanno riportata subito a Bianca Garufi. Se penso infatti a una lavoratrice del settore editoriale sommersa da scartoffie, cartelline, piccoli ritagli di fogli, tappi di penne smarriti, matite di ogni sorta, mi viene in mente lei. La immagino così, nella sede romana di Einaudi al numero 49 di via Uffici del Vicario, mentre cerca la cornetta del telefono – che continua a squillare incessante – e prende l’ennesimo appunto che non deve andare smarrito per nulla al mondo. All’epoca i post-it colorati non esistevano ancora, ma Garufi avrà avuto i suoi personalissimi trucchi per tenere tutto in ordine.

Bianca Garufi non è forse la più sconosciuta tra le donne dell’editoria, eppure mancano ancora molti tasselli per ricostruire un quadro accurato della sua esperienza come segretaria di redazione e traduttrice. Nata a Roma il 21 luglio 1918, Garufi è discendente per parte di madre da una famiglia aristocratica siciliana originaria di Letojanni, a pochi chilometri da Taormina. Una madre la cui storia sembra stata scritta per il più tragico dei romanzi ottocenteschi: Giuseppina Melita fu l’unica sopravvissuta dell’intera famiglia al terremoto che nel 1908 devastò il messinese perché, semplicemente, non era in casa. Giuseppina aveva un’indole forte e conservatrice, e la figlia Bianca fa più volte riferimento a lei nei suoi romanzi lasciando emergere un legame profondo ma, al tempo stesso, conflittuale. In Libro postumo (scritto all’età di venticinque anni e rimasto inedito a lungo) scrive che per una madre «ogni figlio era una specie di barca che lei varava nell’esistenza, ogni volta una vita di figlio da arrischiare […]. Perché a un certo punto non le bastava più prendersi tutto quello che le piaceva». E ancora: «Più mi ribellavo, più le somigliavo».

L’infanzia e l’adolescenza di Bianca sono segnate da lunghi inverni in collegio a Roma e da altrettanto lunghe estati nell’amata grande casa settecentesca di Letojanni in corso Vittorio Emanuele. Più tardi, durante il secondo conflitto mondiale, Garufi è ancora a Roma ed entra a far parte della Resistenza affiancando Fabrizio Onofri, storico esponente di rilievo del Partito Comunista Italiano e considerato all’epoca – e almeno fino alla metà degli anni Cinquanta – l’erede politico di Palmiro Togliatti. Garufi, Onofri e gli altri si incontravano nel punto di ritrovo stabilito – una vecchia bottega nei pressi di Ponte Milvio – per dare sostegno a chi di loro era ricercato dal regime. Stando alle testimonianze dell’epoca, il supporto di Garufi per il gruppo era essenziale: non amava essere al centro dell’attenzione e riusciva, discreta e silenziosa, a dare conforto a chi ne aveva bisogno non solo da un punto di vista politico ma, soprattutto, a livello umano. Non è un caso se la frase che prediligeva per descrivere sé stessa era: «Je suis infâme au public».

Nel 1944, quando la guerra si avvia verso la fine, Garufi viene assunta come segreteria di redazione nella sede romana di Einaudi e lavora al fianco – o meglio in simbiosi – con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Il loro legame, la loro intesa, andava ben oltre le stanze della casa editrice e le carte su cui tutti i giorni restavano rannicchiati per ore. Restavano spesso insieme per cena e oltre a discutere – inevitabilmente – di libri, molte volte si soffermavano sulla psicanalisi che Bianca aveva appena cominciato a studiare e da cui i colleghi erano molto affascinati.

L’incontro con Pavese è molto noto e di semplice ricostruzione grazie al meraviglioso carteggio pubblicato da Olschki nel 2011 dal titolo Una bellissima coppia discorde (a cura di Mariarosa Masoero). I due vivono un rapporto amoroso e discorde che riesce a trovare un compromesso nella comune devozione verso la mitologia. «A Bianca – Circe – Leucò» recita e chiarisce la dedica sul frontespizio della copia dei Dialoghi con Leucò che lo scrittore piemontese invia a Garufi nel novembre del 1947: Leucò, Leucotea non sono altro che le forme greche per il nome Bianca. Negli stessi anni le dedica anche un breve canzoniere dal titolo La terra e la morte (i cui componimenti saranno successivamente raccolti e ampliati in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi). Grazie a Pavese, Garufi porta avanti anche la sua inclinazione alla scrittura: tra il febbraio e l’aprile del 1946 i due lavorano a un romanzo a quattro mani, uscito poi postumo e incompiuto per Einaudi nel 1959 con il titolo di Fuoco grande. È innegabile che i protagonisti della vicenda, Silvia e Giovanni, siano loro, Bianca e Cesare: lui brama l’amore di lei, lei si sottrae; e, allo stesso modo, è innegabile che l’ambientazione richiami la Sicilia di Bianca – «C’era nell’aria, nella caligine fredda, un sentore acre che mi parve una cosa sola con quel buio. Era come se non lontano bruciassero scorze d’arancia sulla carbonella». Di Fuoco grande esiste anche un seguito ideale, scritto solo da Garufi e diverso dal progetto iniziale della coppia discorde: uscì in Italia nel 1962 con il titolo di Il fossile (Einaudi), e in Francia nel 1965 in una versione a opera della stessa autrice, Le fossile (Mercure de France). L’ultimo romanzo di Garufi si intitola Rosa cardinale, uscì per Longanesi nel 1968 ed è tanto pregno di riferimenti autobiografici quanto agli studi junghiani. Intanto, nel 1951, infatti, si era laureata in Lettere e Filosofia all’Università di Messina con la prima tesi discussa in Italia su Jung dal titolo Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di C.G. Jung. Negli anni successivi esercita la professione di psicoterapeuta fino a diventare vicepresidente dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e, dopo, membro attivo dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica.

Anche nel lavoro in casa editrice pare che Pavese e Garufi fossero molto complici. Lo testimonia una lettera di Giulio Einaudi datata 6 agosto 1945 in cui l’editore scrive al suo collaboratore che è necessario «disciplinare al massimo – con l’aiuto di Bianca per la parte organizzativa – il lavoro, in modo che le responsabilità di ognuno siano ben chiare». Pochi mesi dopo, nel dicembre di quello stesso anno, Pavese scrive a Einaudi lamentando gli anni difficili che la casa editrice sta vivendo e in particolare il gran subbuglio che regna sovrano nella sede romana:

«La questione era ed è soltanto editoriale. Intanto vedi continuare il processo di disgregazione. Adesso se ne è andata anche B. impossibile fermarla. Motivi? Tutti e nessuno. Le sanguinava il cuore, pare, ma se ne è andata lo stesso. È il tono sede romana che continua. È il senso di inutile futilità che produce questo lavoro, per giunta in mezzo a continue ristrettezze e contorcimenti».

Garufi lascia il lavoro di segretaria di redazione per la carriera in ambito psicanalitico. Per sostituirla viene assunta una giovane di origini tedesche, l’aspetto minuto e un piglio sarcastico: Ludovica Nagel. È Bianca a rispondere al telefono quando quella giovane sconosciuta chiama in sede chiedendo di poter parlare con il responsabile del personale. Un passaggio di testimone tra due segretarie di redazione, due amiche di Pavese, due giovani donne che tentano di farsi strada nel delirio editoriale.

Come Nagel, anche Garufi è stata un’ottima e prolifica traduttrice. Conosceva molto bene il francese e pian piano affinò sempre di più la lingua. Le sue traduzioni più note – e a mio avviso più belle e riuscite – sono quelle per Einaudi di Simone de Beauvoir e dei suoi volumi Quando tutte le donne del mondo… e La forza delle cose. Sempre dal francese tradusse I pescigatto della scrittrice, sceneggiatrice e editrice francese Monique Lange (Einaudi, 1960) fino ad arrivare a Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss (Il Saggiatore, 1965).

Per molti anni, quindi, Garufi continuò a tradurre nonostante non lavorasse più, almeno non in maniera continuativa, in ambito editoriale. Come se tradurre fosse un modo per restare attaccata a quel mondo che è – può darsi – costretta a lasciare dopo averlo frequentato per un brevissimo periodo. Forse, come scrive Pavese, con il cuore che sanguina. Forse – più che probabile – per insoddisfazione e ristrettezze finanziarie.

Ci sarebbe da ragionare molto su questo aspetto, e per diversi motivi. Il primo riguarda più nello specifico la segreteria di redazione: come ha scritto Laura Di Nicola «un luogo nevralgico in cui passano e si toccano tutti i fili dell’attività editoriale, ma le cui funzioni sono spesso liquidate a semplici incarichi amministrativi». Una definizione che non si adatta solo agli anni Cinquanta ma anche al presente: si comincia a lavorare in editoria come stagisti non retribuiti, o retribuiti molto male, e non di rado si comincia proprio dalla segreteria di redazione che no, non significa fare fotocopie e servire caffè ma tenere tutto costantemente sotto controllo. Il secondo, che è anche il nodo più spinoso, ha a che fare con la realizzazione economica che non di rado tarda ad arrivare in questo settore: meraviglioso certo, ma tremendamente complesso. Il terzo è la fatica che una giovane donna faceva – a fa ancora oggi – per guadagnarsi il rispetto e la credibilità da parte di clienti e collaboratori. Ma questo, per fortuna, non accadeva e non accade sempre, e gli esempi da poter chiamare in causa sono numerosissimi sia per il passato che per il presente. Il che vuol dire che forse un po’ di speranza c’è.

 

Laura Di Nicola, Protagoniste alle origini della Repubblica (Carocci, 2021)

Cesare Pavese, Officina Einaudi (Einaudi, 2008)

Gian Carlo Ferretti, L’editore Cesare Pavese (Einaudi, 2017)

Una bellissima coppia discorde. Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950) (Olschki, 2011 a cura di Mariarosa Masoero)

Bianca Garufi, Cesare Pavese, Fuoco grande (Einaudi, 2022 a cura di Mariarosa Masoero)

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Manuela Altruda

Manuela Altruda è nata a Napoli nel 1989. Si è laureata in Archeologia e Storia dell’arte all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, e ha collaborato con la Fondazione Memofonte di Firenze curando l’edizione digitale di una guida della Napoli antica. Dopo la laurea ha lavorato in molti musei napoletani, ma quello di Capodimonte resta uno dei suoi luoghi del cuore. Ha frequentato il master “Il lavoro editoriale” della Scuola del libro di Roma e pubblicato diversi articoli per il blog della scuola stessa. Scrive per “Altri Animali” e studia figure femminili della storia dell’editoria italiana nella convinzione che vada loro restituita l’importanza che meritano. "Artemisia" di Anna Banti rappresenta perfettamente le sue più grandi passioni: l’arte e la letteratura.
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