Musnida chiede ospitalità a Sara perché in fuga dalla Sarajevo assediata. E Sara, da poco separata dal marito, disorientata acconsente a prendersi in casa quella lì, come la chiama sua sorella. Chiara Ingrao descrive le ambiguità delle buone intenzioni e della solidarietà in un libro che rovescia la prospettiva ogni pagina
di Elvira Mujčić
«Non è mai nei frantumi la verità dello specchio», scrive Chiara Ingrao nel suo romanzo Il resto è silenzio che ritorna in libreria a quindici anni dalla prima edizione e racconta la guerra degli anni Novanta in Bosnia Erzegovina attraverso l’incontro tra due donne. Sara, un’interprete italiana e Musnida ora soltanto una profuga bosniaca, ma anche lei un ex- interprete, come ex è tutto il mondo dal quale proviene.
Le due donne si erano conosciute in tempi migliori per entrambe, quando una aveva ancora un matrimonio che reggeva e l’altra abitava in un Paese che pareva essere un modello dell’utopia pacifica della Terza via. Si ritrovano anni dopo, matrimonio e nazione sgretolati, Musnida irrompe nella vita di Sara con una telefonata nel bel mezzo di un pomeriggio sonnolento, chiedendole ospitalità perché in fuga dalla Sarajevo assediata. E Sara distratta e disorientata acconsente e si prende in casa quella lì, come la chiama sua sorella con una certa stizza.
Quella lì per i più è una non persona, scampata a un inferno indicibile, porta l’etichetta di profuga che la colloca in un altrove per nulla appetibile, semmai un argomento di geopolitica spietata da sezionare, interrogare, svilire e poi dimenticare durante le cene estive sulle terrazze romane. Quella lì dovrebbe anche comportarsi in un determinato modo, da profuga e persona per bene, grata per quel che le viene concesso, invece di essere forastica, arrogante e sfuggente. La spaventosa vicenda di sua sorella uccisa mentre cercava di recuperare il corpo del fratello aveva tenuto occupati i giornali per giorni, l’avevano soprannominata L’Antigone di Sarajevo, mentre Musnida il coraggio di morire per una causa non ce l’aveva avuto e, in un mondo ammaliato dalla rappresentazione degli eroi, era rimasta appunto solo quella lì.
Quella che non parla. Che non mangia. Che non piange. Che si chiude alle spalle la porta della camera come se fosse a casa sua, ma non lo è. Che non si sa quanto ha intenzione di rimanere.
Il monologo interiore di Sara procede per inciampi, le frasi si spezzano nell’impossibilità di trovare una verità, un senso, un’autoassoluzione. Sara teme la guerra che le è entrata in casa, si aspetta da un momento all’altro che scoppi, perché è questo il verbo che usiamo per la guerra: scoppiare. Ma la guerra a casa sua non deflagra mai, non fa rumore, anzi la immerge in un silenzio insopportabile, penoso, accusatorio o forse no? Magari è solo una proiezione di Sara che non sa da che parte prendere quel conflitto perché lei sta fuori, guarda e non comprende.
Ingrao trova un modo autentico di dare voce agli anni Novanta e lo fa da due posizioni diverse, quella di Sara, una donna italiana benestante legata al mondo del pacifismo e dell’attivismo politico, ma anche una persona alle prese con un’estranea in casa che la mette continuamente di fronte alla fatica dell’incontro con l’Altra da sé. Sara si ripete che è giusto e necessario ospitare quella donna, una ex collega che scappa dalla guerra, nonostante questo sente i suoi egoismi ribollire, avverte la delusione e la rabbia davanti ai mancati gesti di gratitudine e alle aspettative disattese. Si aggira ora affettuosa, ora sospettosa, ora colpevole attorno a quella donna di cui non riesce a cogliere nulla, alla quale non riesce a strappare né una parola né una lacrima. Ingrao esplora le ambiguità e le ipocrisie delle buone intenzioni e della solidarietà, ci restituisce la crudeltà delle immagini stereotipate dei profughi e degli stranieri, senza fare sconti, senza assolversi mai.
In questo romanzo che non ruota unicamente intorno alla guerra in Bosnia, ma ci porta anche nel complicato mondo delle relazioni tra sorelle e donne (sono ben tre le coppie di sorelle: quella di quaggiù, quella di laggiù, quella del Mito), Ingrao affida al silenzio di Musnida il racconto mitologico della guerra, ricorre al mito di Antigone, ma è la voce dell’altra sorella, Ismene, a dire ciò che Musnida non può svelare, perché le parole per dirlo sono macigni che non riesce a smuovere e portare in superficie. In fondo il trauma è proprio questo: un’esperienza che non si traduce nella lingua e si annida nel corpo sotto forma di un sintomo.
Il resto è silenzio è un romanzo in cui la prospettiva usuale viene continuamente rovesciata, offrendoci la possibilità di uno sguardo inedito che illumina di nuova consapevolezza tutto ciò che già sappiamo. Scegliendo di non raccontare la guerra esplicitamente, preferendo proteggere la dignità di Musnida davanti ai tanti cannibali che si nutrono del dolore altrui, Ingrao mostra di conoscere i profondi movimenti dell’animo umano, i suoi ritmi, le sue fughe e gli insospettabili fantasmi che ogni incontro con l’altro risveglia in noi.
Chiara Ingrao, Il resto è silenzio, Baldini+Castoldi, 2023
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Elvira Mujčić
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