SULLA CREAZIONE. Georgia O’Keeffe

Chiara Cremaschi e Sarah Perruccio, 15 aprile 2023

Il coraggio di ascoltare la propria voce

«Nella vita di Georgia tutto è indispensabile, sobrio, teso verso qualcosa di assoluto. L’idea che lei abbia compiuto questo per noi, oltre che per sé, mi infonde tranquillità e mi ha permesso di trovare la chiave per disegnare sia lei, che il suo rapporto con il paesaggio», spiega Sara Colaone che con Luca De Santis ha scritto “Georgia O’Keeffe. Amazzone dell’arte moderna”.

Di Chiara Cremaschi e Sarah Perruccio

Cara Sarah, ti propongo una graphic novel: Georgia O’Keeffe, Amazzone dell’arte moderna di Sara Colaone e Luca De Santis. Nel 2021, ho visto al Centre Pompidou di Parigi una mostra dedicata a Georgia O’ Keeffe. Oltre cento opere, disegni e fotografie provenienti da alcune delle più importanti collezioni di arte modernista americana, fra cui il MoMA, il Whitney Museum, l’Art Institut di Chicago e il museo dedicato a Georgia O’Keeffe a Santa Fe. La mostra era volutamente aperta e fluida, secondo una modalità espositiva che portava a perdersi fra i colori sgargianti dei dipinti dell’artista. Per me, molto curiosa di conoscere questa artista ritenuta femminista, il percorso espositivo è, purtroppo, risultato di difficile comprensione. Ero rimasta, però, molto colpita dalle immagini che avevo visto: squadrati grattacieli, enormi fiori, deserti. E mi era rimasto il tarlo di non aver capito, di non essere riuscita a entrare in dialogo con quelle immagini e con chi le aveva create. Che peccato, mi ero detta.
Al contrario della mostra, questo libro mi ha fatta entrare, subito, in relazione con Georgia O’Keeffe. Il personaggio dell’artista appare complesso, aspro e spigoloso. Viene meravigliosamente messo in scena attraverso i disegni eseguiti a china, carboncino e matita e a una scelta cromatica che è frutto di una autentica sintesi della palette utilizzata dall’artista. È visivamente potente e conduce a porsi molte domande. Sul rapporto con il corpo, privato e esposto, con il proprio mentore, con la propria arte. Soprattutto sulla creazione, appunto. Mi pare che il punto di partenza del libro sia la dichiarazione dell’artista stessa: «Credo di essere portata per fare sempre il contrario di quello che ci si aspetta da me».

Cara Chiara, il volume Georgia O’Keeffe. Amazzone dell’arte moderna mi colpisce già dalla copertina porosa come una carta da carboncino. La prima pagina è tutta tratto e colore e fa conoscere l’artista a partire da questo, dal suo modo di vedere. Trattandosi di una pittrice lo sguardo è chiaramente costitutivo del suo modo di stare al mondo ma per O’Keeffe è molto rilevante. L’artista infatti perse la vista (seppur continuando a dipingere grazie all’aiuto del suo assistente Juan Hamilton) e lo fece mantenendo intatto, evidentemente, il suo sguardo interiore e la sua capacità di rendere quella visione accessibile agli altri. Questa interiorità è ciò che guida il dipanarsi delle scene.
La O’Keeffe della graphic novel di Colaone e de Santis ripercorre, seguendo l’emozione, eventi significativi: sogni, immagini, incontri reali e immaginati, superando una linearità temporale a favore di un tempo interiore, forse il tempo del ricordo. Lo fa soffermandosi su ciò che l’ha segnata di più, quegli attimi e quelle immagini che sommate fanno una vita. Lo fa come crede, con la decisione e l’arbitrarietà con cui ha sempre lasciato i temi divenuti di successo – come i suoi celeberrimi fiori – per dedicarsi ad altro, in un apparente spirito di contraddizione, più probabilmente in una costante rivendicazione di libertà e indipendenza. Questa costante ricerca di indipendenza, che parrebbe quasi superflua in una donna dal talento tanto deciso e dal carattere persino duro, si era resa necessaria dal rapporto d’amore e collaborazione artistica con il fotografo Alfred Stieglitz.
L’amante, il marito, il mentore diventa una figura talmente imprescindibile che Georgia, in questo libro, si chiede che artista sarebbe diventata se non lo avesse incontrato. Eppure è lei che, secondo de Santis e Colaone, dice alle allieve del Columbia College «Eliminate i dettagli estranei. Concentratevi su come volete che gli altri lo guardino. Avete il potere di fare tutto questo. Di farlo percepire come voi decidete». L’impressione che mi è rimasta addosso è che, ben consapevole del tentativo del fotografo di ridurla alla “Georgia di Alfred Stieglitz”, l’artista si sia saputa difendere e, anzi, al di là del potenziale distruttivo di un amore che oggi definiremmo codipendente, ha saputo trovare la sua arte senza essere imbrigliata dalla influenza di lui ma, il più delle volte, brillando nel tentativo di conversare, interagire, reagire all’evidenza di questa influenza. Come in molti hanno notato è facile vedere come la fotografia di Stieglitz abbia influenzato la pittura di O’Keeffe- vedi i suoi zoom in sui fiori ad esempio- o O’Keeffe abbia influenzato Stieglitz come ad esempio nella serie Equivalents, dove la sua fotografia incontra l’astrattismo.
Il volume Georgia O’Keeffe. Amazzone dell’arte moderna mi ha fatto percepire questa conversazione tra due artisti, vissuta con enorme intensità, attraverso gli episodi più significativi e soprattutto nella bellezza di tavole che si ispirano alle opere di Georgia ma anche di Alfred, e che ne costituiscono la struttura portante forse più di ogni altra cosa.
In me ha senz’altro risuonato il tema del rapporto d’amore che si sovrappone al rapporto artistico e la difficile operazione, a cui ogni artista è chiamata, di ascoltare la propria voce, avere il coraggio di mostrarsi, capire quando allontanarsi e scegliere il silenzio.
Dalle scene nel deserto del New Mexico – dove dopo un periodo di silenzio e depressione O’ Keeffe ha ritrovato la sua ispirazione, la giusta distanza da Stieglitz e dalla società in generale – parte la storia. Il deserto come palcoscenico dell’inconscio, come pagina bianca, tela vergine, come ripartenza. E lì, dalla sua ossessione per una semplice porta, ho potuto anche io chiedermi quanto per creare quella porta debba essere aperta, socchiusa, sbarrata. Se vada varcata o solo osservata. Quale è insomma il limite tra la propria ispirazione e quello che ci arriva da chi abbiamo intorno. Mi domando se tu Chiara ti sei posta domande simili e cosa hai desiderato chiedere a Sara Colaone.

Chiara Cremaschi dialoga con Sara Colaone

Chiara: Il primo incontro con Georgia O’Keeffe, la prima pagina, non è tramite una sua opera, ma con il suo metodo di lavoro, che viene mostrato in azione.

Sara Colaone: O’Keeffe possedeva una tecnica pittorica eccezionale, che ha continuato a praticare senza sosta, anche quando intorno a lei prorompevano l’arte Informale e Concettuale. Alcune sue tele catturano la vibrazione della luce facendo sembrare la superficie pittorica come qualcosa di animato. Ed è interessante che questi effetti, che tendono a superare la natura propria degli oggetti, fossero frutto di un’attenta ricerca, di un’ossessione pratica, che iniziava dal mattino prestissimo e finiva solo a sera inoltrata. Una vita passata a trovare possibili colori, intrecci di velature, a guardare, a cogliere le forme e passare oltre alla loro funzione, non poteva essere che raccontata dalla prospettiva dell’occhio di un teschio di vacca, con in sottofondo il fruscio delle setole di un pennello di primissima qualità.

Mi piace molto che ci sia attenzione a suoni e rumori, che sono indicati in scena.

Mi diverto molto a disegnare le onomatopee, che altrove potrebbero essere ridicole, mentre nel fumetto sono meravigliose, perché sono una bellissima occasione di espressione grafica, che muove le pagine e riconnette con un lato spontaneo di questo linguaggio. Le lettere si attorcigliano, si accatastano, si contraggono riesplodendo all’improvviso nella voce di lupi, camion, e pazzi d’ogni genere, oppure soffiano con il fischio di un vento sottile, triste, come nei Manga che ho amato da piccola. Ma in questa storia c’è anche molto silenzio, lo stesso tipo di silenzio che si sente quando un’orchestra cessa all’improvviso di suonare, si resta un attimo col fiato sospeso, come se il suono indugiasse ancora un po’ negli orecchi. Immagino così il silenzio intorno a Georgia, un silenzio con l’eco del suono.

Qual è la tua “immagine iniziale”? Un’immagine che, magari non è entrata poi nel libro, ma che ti ha guidata.

È una foto in bianco e nero del 1960 di Michael A. “Tony” Vaccaro. Georgia cammina da sola nel deserto di Abiquiu. È sola, assorta nei suoi pensieri, anche se sa di essere osservata sembra comunque altrove. Sembra cercare una traccia, non fra la polvere, ma nella sua testa. Eppure, il suo corpo estraneo pare trovare una giusta collocazione in quello spazio, come una spada infilata nella roccia. Il suo gesto esprime cautela, nell’azione indispensabile del camminare. Nella vita di Georgia tutto è indispensabile, sobrio, teso verso qualcosa di assoluto. L’idea che lei abbia compiuto questo gesto per noi, oltre che per se stessa, mi infonde tranquillità e mi ha permesso di trovare la chiave per disegnare sia lei, che il suo rapporto con quel paesaggio.

Qual è il tuo metodo di lavoro?

Il lavoro di disegno di un fumetto, in questo caso di un graphic novel, corrisponde quasi ad una sorta di riscrittura col disegno. Questo è quanto abbiamo concluso io e Luca de Santis nell’arco di quindici anni di lavoro insieme, osservando quello che succede nel passaggio fra le sceneggiature scritte da Luca e il trattamento di story-boarding e disegno finale proposto da me. Talvolta guardiamo questo processo come se ad attuarlo fosse un’intelligenza nascosta, che solo nel fumetto trova la sua espressione. Quindi, all’inizio c’è un soggetto, sul quale lavoriamo in parallelo, Luca a scrivere scalette e dialoghi, io a studiare personaggi e ambientazioni. Appena decidiamo che le scene funzionano, cerchiamo di realizzare uno story-board, che rifletta il più possibile il ritmo narrativo finale, e lavoriamo raffinando i dialoghi. È molto faticoso, ma divertente e, anche se ora mi riesce facile spiegartelo, credo sia un processo che mantenga per me sempre una parte di mistero.

Perché raccontare una vita partendo dall’archiviazione della vita di un altro?

Nella nostra interpretazione, l’unico modo per Georgia di riflettere sulla propria vita è attraverso l’arte, e in quel momento l’arte era riflessa attraverso lo specchio del lavoro di Stieglitz. Non si tratta però di un’archiviazione, ma del prolungamento dell’influenza che il fotografo, curatore e critico Alfred Stieglitz ha avuto sull’arte moderna americana, e ovviamente della sua definitiva consacrazione.

Sono d’accordo, perché ho un’intensa relazione con gli archivi. Credo che interagire con i materiali scelti e conservati da qualcuno sia una forma di rapporto personale, un modo per entrare in o mantenere un’intimità. Intorno a queste casse di legno, infatti, fate incontrare a chi legge molte persone importanti nella vita di GO’K.

L’intimità voluttuosa che solo un archivio può dare. Un rapporto privilegiato con i documenti che diventano voce, forte o debole a seconda di quanto siamo disposti ad ascoltare o interpretare. Credo che sia io che Luca abbiamo in modo inconscio cercato di sedurre i documenti perché ci raccontassero in profondità di Georgia, rendendoci poi conto che c’è così tanto su di lei, da riflettere una molteplicità di verità quasi impossibili da coniugare in un’unica visione. Allora abbiamo usato il momento di riflessione sull’eredità di Alfred come chiave per aprire un archivio più interno, oltre la mondanità bohemien degli artisti americani in fuga verso Sud-Ovest, un archivio costruito dalle tracce delle relazioni con quelle poche persone che condivisero con Georgia anni di quotidianità, dove la maniacalità conviveva col genio, con l’abilità culinaria, con la tagliente ironia, con lo sguardo mai sazio e mai banale sul mondo.

La scelta dei colori del testo e di come vengono restituiti è fondamentale per raccontare Georgia O’Keefe: Hai seguito tutto il percorso di stampa?

I colori di questo romanzo nascono dall’osservazione di un dipinto, il noto Cow’s Skull: Red, White, Blue, un olio del 1931, con il quale Georgia sembrò rispondere al fenomeno del “grande romanzo americano”. In quel dipinto c’è una separazione dei colori della bandiera statunitense, in una composizione singolare che somma sfumature e bordi taglienti e che forma una sorta di croce.
Da qui mi è venuta l’idea di scomporre i colori dei maggiori dipinti di Georgia e usarli come colori nelle scene del libro, di contrapporre le sfumature morbide della grafite al segno nero del pennello e di usare infine una composizione delle tavole senza spazio fra una vignetta e l’altra, come a indicare una sovrapposizione di diverse realtà e a metter in crisi la presunta obiettività delle biografie.
Per la prima edizione del libro non mi è stato possibile seguire il processo di stampa perché è stata fatta in Francia, mentre per l’edizione italiana l’ho fatto, perché è in quel momento che si capisce se il lavoro sul colore e sul contrasto dei neri ha funzionato oppure no. Come per un poeta sentire i propri versi ad alta voce. Indubbiamente avere l’opportunità di seguire l’avvio di stampa è un momento eccezionale, che ci ricorda “la materia di cui sono fatti i nostri sogni”, la carta. Non credo che uno scrittore o una scrittrice siano più di tanto interessati a veder stampare i propri libri, a chiedere se si può aggiungere un po’ di nero alla selezione colore, a commuoverci nel veder un gigantesco foglio di stampa uscire dalle fauci della macchina. È solo in quel momento che la creazione è compiuta. Per descrivere questa particolare forma di coinvolgimento, l’illustratrice Suzy Lee ha recentemente usato il termine “book artist”, che definisce chi crea non solo i testi e le immagini di un libro illustrato, ma si preoccupa anche della scelta degli spazi, delle carte, della stampa e di tutte quelle variabili che definiscono l’oggetto libro nella sua estetica e leggibilità. Un book artist è una persona che vive appieno una bookness, un’idea di narrazione che sfrutta ogni aspetto fisico dell’oggetto libro, dove il contenuto è anche nel contenitore e direi che questo termine descrive perfettamente quello che è il coinvolgimento del fumettista nel suo lavoro. In questo senso, noi fumettisti contemporanei siamo forse più vicini a Manuzio e Bodoni che a Steve Jobs.

Sara Colaone è autrice di fumetti e illustratrice. Fra i suoi graphic novel: Leda, che solo amore e luce ha per confine, Gran Guinigi come Miglior disegnatrice a Lucca Comics & Games 2017, Ciao ciao Bambina, Ariston e In Italia sono tutti maschi, scritti da Luca de Santis (Oblomov 2018-2019) e Evase dall’harem, scritto da Didier Quella Guyot e Alain Quella Villéger (Oblomov 2020) e il recente adattamento de Il barone rampante di Italo Calvino (Mondadori 2023). Ha illustrato per “Internazionale”, “24 Magazine”, “Le Monde diplomatique”, “Rivista il Mulino”. Insegna Disegno all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Luca de Santis & Sara Colaone, “Georgia O’Keeffe. Amazzone dell’arte moderna”, Oblomov Edizioni, Bologna 2022

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Redazione LM

Scritture, politiche, culture delle donne. E non solo. Alla ricerca di parole, linguaggi, narrazioni che interpretino e raccontino cambiamenti e spostamenti in corso. Nello scambio tra lettrici, autrici e autori – e personagge. REDAZIONE: Silvia Neonato (direttrice), Giulia Caminito, Laura Marzi, Loredana Magazzeni, Gisella Modica, Gabriella Musetti, Sarah Perruccio
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