VARCARE CONFINI 10. ANDREEA SIMIONEL

Amanda Rosso, 15 marzo 2023

Malati di estero

«Una vita muore, quando si arriva in Italia ne inizia un’altra. Ma il motivo più importante è che volevo dare voce non a me autrice, non alle mie lotte con la lingua, non a quello che sono stata, bensì a una storia»

Di Amanda Rosso

 

Nel paese a forma di pesce i Pavăl sono una famiglia come tante: vivono in Via della Pace, ma non c’è la pace, solo corsie dove le macchine sfrecciano e investono i bambini. Le due figlie vanno a scuola e la madre e il padre a lavoro, eccetto che il padre ora vive a Torino mentre il resto della famiglia è rimasto in Romania. Quando si trasferiscono nello stivale, Andreea, la giovane protagonista, la sorella maggiore, la madre e l’amato Aky J., l’husky confusionario dagli occhi castani, scoprono la vera Italia e l’italiano, una lingua ostica a cui mancano un po’ di lettere dell’alfabeto.
Nel suo romanzo d’esordio, “Male a est”, Andreea Simionel intesse la trama di una famiglia ordinaria nella Romania negli anni Novanta, con l’ordito della migrazione, un viaggio a cavallo fra due paesi, due lingue e due esistenze. Lo sguardo quieto ma implacabile della giovane Andreea osserva disgregarsi l’incomprensibile universo degli adulti e si scontra con un muro di parole che non riesce a decifrare.

Amanda Rosso: Parto con una domanda di riscaldamento: parlando di viaggi, ma soprattutto di confini, fisici, emotivi e linguistici, qual è stato il viaggio del romanzo? Quando hai sentito che era il momento di raccontare questa storia, che è in parte anche la tua storia personale di emigrazione?

Andreea Simionel: Quasi tre anni fa, stavo leggendo “Bassotuba non c’è” (Einaudi) di Paolo Nori. Mi sembrava che il protagonista avesse male a tantissime cose. In realtà poi sono andata a cercare nel libro, e Learco Ferrari non lo dice mai esplicitamente, ma per me tutto il libro era un grido al male di vivere. Quando ho finito di leggere mi sono chiesta: se tutta la letteratura parla di una malattia, e se io riuscissi a rendere la vita letteratura, quale sarebbe il mio male? La risposta è stata il titolo, “Male a est”. È una storia nata tardi: ci sono voluti quasi quindici anni per viverla, digerirla e trovarle una lingua.

AR: “Male a est” è un libro sull’assenza, quella del padre, ma è anche un libro sui legami famigliari, sulle dinamiche che si generano da, e convivono con, quell’assenza, relazioni che sono allo stesso tempo universali – quelle fra sorelle, fra genitori e figli, fra mariti e mogli – e particolari, situate in un luogo e in un momento storico specifici. In questo caso la Romania degli anni ’90 e poi Torino. Chi sono i Pavăl di Botoșani (facciamo finta che sia già il duemilaeventisette)?

AS: La sorella è il mio personaggio preferito. Una delle cose che più mi attrae in una personalità è la coerenza. Io non sono coerente, non lo è nemmeno la protagonista, ma la sorella sì: è sempre fredda e distaccata, razionale e crudele, e questo la rende una regina agli occhi di Andreea. La madre è autoritaria e forte, deve esserlo perché crollerà nella seconda parte del romanzo e dovrà rialzarsi da sola, ma è piena di emotività. Del padre invece non ho voluto indagare emotività o ragioni. È assente, un uomo senza spina dorsale, per molto tempo l’ho definito il personaggio ameba. Il che rende ancora più paradossale il fatto che sia lui a muovere le redini del destino. È lui che porta la famiglia in Italia, di questo in un certo senso è colpevole, e finisce per piegarsi sotto il peso della responsabilità. Il cane invece è il dente cariato, o il diamante, se vogliamo. Io sono cresciuta in una Romania piena di cani randagi, mia madre mi diceva di non avvicinarmi mai, altrimenti mi avrebbero sbranato. In un posto del genere, pagare per avere un cane di razza come animale domestico sembra quasi una sfida, un’ostentazione. Poi si chiama Aky J., con la cappa e la ipsilon e la i lunga, le lettere che poi mancheranno alla protagonista in Italia. In un certo senso il cane è il simbolo del loro spirito migratorio, l’indice puntato contro il loro essere ibridi: hanno un cane che si chiama Aky J., sono strani, sono malati; infatti, poi se ne sono andati all’estero. Ho voluto rubare questa storia alla mia vita e darla ai Pavăl. Se sono diventati almeno un po’ universali vuol dire che non ho fallito.

AR: Andreea è la voce narrante del romanzo, una ragazza pre-adolescente con una prospettiva quasi a cavallo fra il realismo magico e un po’ gotico e un’ironia disincantata e pungente, che infonde al romanzo un afflato tragicomico e surreale, come nella scena della lavatrice, quando Andreea ha le sue prime mestruazioni. Parlaci dello sguardo di Andreea sul mondo…

AS: Spesso, mentre scrivevo, mi accorgevo che nella scena Andreea non c’era. Era sempre ai margini, e dovevo introdurla nella scenografia. La cosa più importante nella costruzione del suo sguardo era che non fosse sporcata dalle intrusioni dell’adulta, ovvero di me che scrivo, fuori dalla pagina. Ho immaginato di tracciare intorno a lei dei cerchi concentrici: quali sono le cose che contano a undici anni? Gli amici, la scuola, i giochi, le bambole; poi, piano piano sporcare la sua realtà con prese di consapevolezze, che la portano a diventare sempre più seria: la bambola della sua amica è più bella, perché gliele manda suo padre dall’Italia; tutti i padri del quartiere sono assenti e non tornano, quindi l’Italia è una malattia. Al contrario, ci sono alcune cose che non possono entrare nel suo mondo, come i litigi dei genitori, il telegiornale, le motivazioni che li porteranno a lasciare il paese, e che la sfiorano soltanto. La protagonista non si esprime mai, non dice mai cosa prova, all’arrivo in Italia non parla quasi più, ma sorride e annuisce. Ho voluto costruirle un linguaggio coerente: come può essere la lingua di qualcuno che non ha mai parlato, non si è mai espresso, non ha nulla da dire? Frasi secche e misurate, monche, a sangue freddo.

AR: Il linguaggio ha un ruolo preponderante in “Male a est”: è il linguaggio perso e conquistato dalla famiglia Pavăl e specialmente da Andreea. L’italiano è allo stesso tempo nemico che ammutolisce e strumento di emancipazione. Ma il linguaggio è anche la forza del tuo stile narrativo, un linguaggio che proprio perché acquisito con sforzo e determinazione, mai dato per scontato, ti permette di misurarti con lui ad armi pari, di farne ciò che vuoi…

AS: Non sempre è stato così. Per molto tempo la sfida era proprio questa, domare una lingua che risultava fuori controllo. Nel mondo editoriale ho avuto spesso paura di essere un fenomeno da baraccone, ovvero di attirare l’attenzione proprio per il fatto di non sapere usare la lingua, o come dice Agota Kristof, per il mio essere analfabeta. Nel romanzo ci sono ancora alcune contaminazioni dal rumeno, per esempio i “leoni”, con cui ho scelto di tradurre la valuta rumena, il leu (termine che indica sia la moneta che l’animale); e permane la rabbia per i modi di dire, per l’italiano in generale, contro cui ho lottato, forse alla fine l’ho anche domato e conquistato, ma a un prezzo molto alto.

AR: Il romanzo è diviso in due parti, Pesce e Stivale che richiamano la forma a pesce della Romania e quella a stivale dell’Italia. Lo straniamento dei Pavăl è anche il nostro, perché il paradosso è visibile: gli oggetti, gli edifici, i colori e il cibo, tutto è più luminoso e invitante, ma lo scarto di classe è sempre presente. La loro stessa identità è messa in discussione, il loro essere famiglia, ma soprattutto, penso, il loro posizionarsi e relazionarsi al mondo…

AS: Paradossalmente sono nati prima i Pavăl di Torino. Avevo il personaggio di una sorella che regnava sulla casa e versava il vino del padre nel lavandino, una madre che lavorava troppo, un padre assente e alcolizzato. Ma questi sono, appunto, i Pavăl del duemilaventisette. Quindi sono tornata indietro per costruirli nella prima parte, decostruirli nella seconda. Durante la recita di fine anno in Romania è l’ultima volta in cui la madre indossa i tacchi. Dopo, in Italia dovrà ricominciare da zero, indossare abiti più umili, accontentarsi di fare le pulizie. Nel pesce abitano al primo piano, quando arrivano nello stivale scendono al pianoterra. Non battono più i piedi in testa ai vicini, ma all’inferno. Per me lo scarto è simbolico e anche concreto, fisico. Tutti loro soffrono e scendono di un gradino nella scala sociale e del malessere. Tutti, tranne forse la sorella e il cane, che restano i miei due cristalli.

AR: “Un cancro bolle sotto la pelle di tutti, ma nessuno lo sa. Ci dividiamo in quelli che restano e quelli che vanno via” (p.196). La partenza e la restanza, come l’ha definita Vito Teti. Un’Andreea parte ma un’altra Andreea, la compagna di classe idealizzata e idolatrata, Andreea Simionel, resta. È il tuo momento sliding doors, oppure inserendo il tuo alter ego nella narrazione hai voluto separare la tua esperienza da quella della protagonista?

AS: Nell’ultimo romanzo della serie “La mia lotta” (in originale “Min Kamp”, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie N.d.R) lo scrittore norvegese Knausgård mette il PIN della sua carta di credito. Dice anche che è facile da ricordare, sono le cifre più in alto e più a destra della tastiera, quindi due tre cinque sei. Ma con il suo PIN il lettore non se ne fa nulla. Mettendo il mio nome e cognome ho voluto giocare, fingere di dare al lettore la cosa più importante, il mio nome e la mia vita, in realtà non valgono nulla. Ho voluto anche mentire. Una frase come «ho lasciato lì un pezzo del mio cuore» non l’avrei saputa scrivere, anzi, dalla bocca della protagonista sarebbe sembrata cinica. Il romanzo è tutto lì: una vita muore, quando si arriva in Italia ne inizia un’altra. Ma il motivo più importante è che volevo dare voce non a me autrice, non alle mie lotte con la lingua, non a quello che sono stata, bensì a una storia. Quindi ho preso Andreea Simionel, l’ho chiusa tra le pagine e me la sono lasciata alle spalle.

Andreea Simionel, “Male a est”, Italo Svevo edizioni, 2022

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Amanda Rosso

Amanda è nata e cresciuta nell'entroterra ligure. Si è laureata in Comunicazione all'Università di Pavia e ora vive e lavora a Londra, dove ha conseguito un Master of Arts in Modern Languages and Comparative Literatures alla Birkbeck University. I suoi racconti sono apparsi su "Narrandom", "Quaerere", "Malgrado le Mosche", e in alcune antologie online e cartacee, fra cui “Musa e getta. I racconti delle lettrici e dei lettori” (Ponte alle Grazie, 2021) e “Il corpo c'è” (Vita Activa Nuova, 2023). Ha co-tradotto la raccolta di racconti "Donne d'America" (Bompiani, 2022) a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti. Fa parte dell'attuale direttivo della Società Italiana delle Letterate.

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